“che bel viso peccato” presentazione del libro di Ileana Argentin

Scritto dalla redattrice

Ieri giovedì 29 marzo 2007 al sono andata alle presentazione del romanzo autobiografico: “Che bel viso… peccato“ di Ileana Argentin.
Il titolo del libro, come ha spiegato l’autrice stessa, è la frase che più spesso si è sentita rivolgere dai suoi interlocutori. Perché sembra quasi un peccato che si possa avere un bel viso, una straordinaria voglia di vivere e una grande autoironia se si è disabili. Oppure si pensa che si debba essere necessariamente buoni o intelligenti proprio perché disabili.  Con pungente ironia ed auto ironia Ileana ha più volte detto “come peccato? Ma perché, dovrei essere anche brutta?“
In questo piccolo volume Ileana Argentin, consigliere delegato per l’Handicap del Comune di Roma, racconta, attraverso un percorso umano e biografico, una storia di impegno e di lotte per il riconoscimento dei diritti delle persone portatrici di handicap fisici o mentali, per l’abbattimento delle barriere architettoniche ma soprattutto di quelle culturali.
Inoltre Ileana si mette nella testa e ne sentimenti della mamma, del papà, del suo compagno e del suo cane: fa raccontare a loro la sua nascita, la sua disabilità, la sua vita sentimentale e sessuale. Questa tecnica di scrittura l’ho trovata molto toccante e appassionante per il lettore ed è anche scorrevole e molto curata nei dettagli, nelle descrizioni di vicende, personaggi, battaglie, stati d’animo  e… odori.
“Vorrei tanto far capire alla gente che la disabilità è uno status di vita, non una malattia“. Così Ileana si impegna, nel suo lavoro ed anche con questo romanzo per  sottrarre la condizione del disabile agli atteggiamenti di indifferenza, pietà, compassione o  imbarazzo. Ileana ritiene giustamente che le differenze fanno parte del mondo. Ogni disabile è diverso da un altro disabile, gli uomini e le donne sono molto diversi gli uni dagli altri, le persone si differenziano per l’abilità nel fare una cosa piuttosto che un’altra, chiudi conclude l’Argentin “la diversità tocca tutti, per fortuna.“

Ileana Argentin è consigliere delegato del Comune di Roma per l’Handicap. È stata presidente dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare, sezione di Roma.

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Maria Montessori: l’educazione del bambino in età prescolare

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Pedagogista ed educatrice, fu la prima donna in Italia a conseguire la laurea in medicina, questo fu senza dubbio un traguardo importante per lei e per il paese stesso che prima d’allora non ammetteva le donne all’università. I suoi studi e il suo carattere tenace e deciso la portarono a viaggiare molto nei paesi poveri, dove operò come medico, e nel resto del mondo dove fu conosciuta come pedagogista. Fece molti congressi per portare le sue idee ed il suo metodo educativo. Ho letto dei libri dove c’erano molte relazioni dei congressi fatti. La Montessori sosteneva che l’adulto non ricorda più il suo essere “puro e fanciullo“, quindi è ormai incapace di capire e assolvere le necessità dei più piccoli. Secondo me questa visione è troppo netta ed esasperante, in quanto vede il bambino solo vittima, e l’adulto solo incompetente ed incapace. Ho letto tante relazioni dei suoi congressi, dove non si tiene mai in considerazione che certi bambini sono più scontrosi e capricciosi di altri e dunque l’educatore dovrebbe dire un bel “no“ autoritario.
Oltre a viaggiare molto, la Montessori lavorò anche a Roma nel quartiere di san Lorenzo. Ai primi del 1900 questo quartiere era molto povero, è proprio qui che la Montessori si dedica a bambini con problemi psichici, convincendosi che con il trattamento educativo otteneva maggiori risultati che con l’uso di cure mediche tradizionali. Da questa esperienza la Pedagogista pensò che se il suo metodo avrebbe dato dei buoni risultati sui bambini con handicap mentale, ed avrebbe potuto essere anche applicato con successo ai bambini normodotati, da qui viene l’idea di aprire le scuole montessori. Nel 1906 fonda “la casa dei bambini.“
La Montessori fu anche criticata per la sua volontà di trasferire su tutti i bambini un metodo che nasceva per aiutare bambini con handicap e che quinti partivano da un livello di scolarizzazione, percezione di se e della realtà circostante completamente differente da un coetaneo normodotato. Un’altra critica, che condivido, è relativa alle questioni economiche, ai costi elevati che hanno sempre avuto le scuole montessoriane, raprpesentando fonti di grande discriminazione tra bambini nati in realtà sociali diverse. La Pedagogista frequentava la nobiltà romana e proprio da questa cerchia si era fatta dare dei locali all’interno di Palazzo Taverna, è ovvio che i primi e unici utenti di questi locali furono i figli delle famiglie benestanti.
Il metodo che si è sempre applicato, dagli albori delle scuole montessoriane a oggi, consiste in giochi manipolativi, stimolando ad andare da soli verso la scoperta, la conoscenza, la crescita; ma esulava da comminazioni di punizioni e conferimento di premi, ritenendo che l’autonomia e la serenità che raggiungevano potesse essere una ricompensa ben più adeguata. Il fanciullo doveva avere un ambiente adatto a lui adatto: i materiali (sedie, tavoli, utensili per pulire la casa e fare giardinaggio) dovevano essere piccoli e leggeri per permettere al bambino di svolgere da solo le attività che vedeva svolgere dalle persone che gli stavano intorno. Ritengo sia sbagliato pensare di ricreare, a scuola ed in famiglia, un ambiente apposta per il piccolo spendendo soldi, tempo e energie. Trovo più giusto preoccuparsi di accogliere un bambino nella serenità e nell’amore. Queste
La maestra montessoriana deve avere particolari qualità che consistono nel dover “regolarizzare“ il bambino che arriva all’asilo da un ambiente per lui caotico e quindi lui stesso è agitato e con poca capacità di concentrazione. Dopo questa prima fase, la maestra deve essere “umile“, capace di tirarsi indietro e lasciare libero il bambino di autogestirsi. Infine anche la maestra, dopo aver osservato le attività svolte dalle classe, deve rielaborarle e scriverle sul registro di classe che viene usato anche al giorno d’oggi ma risale proprio alla Montessori.
Tornando alle mie idee critiche sul metodo montessoriano ho avuto modo di confrontare delle situazioni: la testimonianza di una madre che ha fatto educare il figlio alla Scuola Montessori e una giovane che ha frequentato questa Scuola. Nel primo caso, la mamma ha lamentato l’ingombro dei materiali didattici ed il permissivismo delle insegnanti; mentre nel secondo caso la giovane ha vissuto un impatto traumatico nel passare alle scuole ordinarie.
 

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“Poema Pedagogico” di A.S. Makarenko: dialogo col professor Nicola Siciliani de Cumis

  1. Anton Semenovyč Makarenko

    Professore, potrebbe aiutarci a comprendere meglio il significato dell’espressione “moralmente handicappato” che troviamo nel “Poema pedagogico” di Anton Semenovič Makarenko?

Per provare a spiegare con qualche attendibilità il concetto di “moralmente deficiente”, nel poema makarenkiano, mi ci vorrebbero molto tempo e diverse ricerche. Potrebbe essere addirittura il tema di un corso per la laurea specialistica. Ma provo a dirti almeno questo: il concetto non è, almeno in prima battuta, riferibile a Makarenko (al Makarenko personaggio del Poema pedagogico); è invece, al suo primo apparire nel romanzo (capitolo terzo della prima parte), una definizione dei ragazzi della colonia “Gor’kij” coniata da altri: e precisamente dai componenti del Comitato provinciale dell’alimentazione o da quelli della Commissione Rifornimenti della Prima Armata. Bisognerebbe quindi capire cosa intendessero precisamente loro, quegli “altri”, con quella definizione.

Rimane tuttavia il fatto che, nel suo romanzo, Makarenko recepisce per esplicito quella definizione. Una definizione che assume, a mio parere, un forte valore pedagogico, meglio un forte valore antipedagogico (e drammaturgico): nel senso che, quella definizione “di partenza” collabora direttamente al processo che sta al centro dell’esperienza educativa e letteraria makarenkiana e che sta alla base della formazione “dell’uomo nuovo”.

In altri termini, la mia ipotesi di lettura è questa: che lo handicap morale e sociale dei ragazzi della colonia, nel corso dei fatti vissuti e raccontati da Makarenko, si traduca gradualmente nel suo contrario, cioè in una risorsa morale e sociale per tutti. Ed è ciò che vediamo sia nella prima, sia nella seconda, sia nella terza parte del Poema, che mi piacerebbe rileggere di nuovo, pagina per pagina, per individuare le prove di ciò che dico…

2) Secondo lei, al giorno d’oggi ci sono persone che si possano definire “handicappati morali?

 Dovessi rispondere con una battuta (non è solo con una battuta “ad effetto”), direi: tutti. Tutti noi esseri umani, in quanto tali, siamo in qualche modo dei “moralmente deficienti”. Nel senso che la sproporzione tra come siamo e come vorremmo e dovremmo essere è enorme. Di più, Makarenko ci ha insegnato due cose importanti: il senso di responsabilità individuale è un valore supremo, ma che deve fare variamente i conti con il “collettivo” e diventare, quindi, senso di corresponsabilità. Il presente si alimenta di “futuro”, di “gioia del domani”, di “prospettiva”: il che vuol dire che, oggi come oggi, nel presente, nessuno può essere moralmente soddisfatto di se stesso. Tuttavia, dobbiamo convivere con le nostre contraddizioni, con le nostre insufficienze e deficienze, deficienze morali per l’appunto… Fare quello che ci riesce, pur nei nostri limiti umani, nella direzione di un “dover essere” insoddisfatto.

3) Nel “Poema pedagogico” si parla della possibilità di trasformare un handicap in una risorsa, è davvero possibile trarre del vantaggio da una situazione disagiata?

 Più che parlare di handicap che diventa risorsa, Makarenko rappresenta la vicenda di una situazione umana di “deficienza morale” che si trasforma nel suo opposto: in un’altissima proposta morale. La cosa più importante è questa: la risorsa non riguarda soltanto il deficiente morale, l’handicappato sociale in quanto tale, ma tutti: soprattutto chi handicappato non sembra essere. In altre parole, la straordinarietà della proposta di Makarenko consiste nel fatto di lavorare a più livelli. Da un lato, per il recupero degli svantaggiati morali, per il loro inserimento nella società; da un altro lato, in funzione della formazione di “uomini nuovi”: uomini-pilota, uomini-modello, uomini-esperimento, che esperimentano valori morali e sociali inediti. Valori morali e sociali più alti, rispetto a quelli di senso comune. Pertanto, i ragazzi delle colonie di rieducazione dirette da Makarenko, nell’attingere per se stessi ad una umanità “altra”, finiscono per elaborare un modo inedito di essere uomini, di cui tutti possono giovarsi. Gli ultimi diventano i primi. Il negativo dell’esistenza è la condizione necessaria per concretizzare una positività prima inesistente. La deficienza morale di alcuni rimane alle spalle, trasformandosi in risorsa morale per tutti. Il passato dei ragazzi si azzera di fronte al futuro che ne prende il posto.

4) Al giorno d’oggi, l’handicap fisico può rappresentare davvero una risorsa per la famiglia, per le Istituzioni e finalmente per la società?

 Quando si parla di esseri umani, è impossibile separare nettamente gli aspetti fisici dalla unicità complessiva della persona: intelligenza, bontà, motivi estetici, generosità, equilibrio, senso pratico, progettualità, volontà, capacità di socializzazione, senso degli altri, competenze tecniche. Tutte qualità che non solo “riducono” l’handicap, ma anche e soprattutto fondano risorse. D’altra parte, non si può parlare di handicap in maniera indifferenziata: c’è handicap e handicap; ci sono combinazioni infinite tra questo specifico handicap e le altre qualità della persona; c’è la determinazione del soggetto che può promuovere un esito piuttosto che un altro; c’è il grado di cultura che ciascun portatore di handicap riesce a raggiungere, a decidere dove stare, come collocarsi in mezzo agli altri, quale risorsa rappresentare per sé e per il prossimo.

Voglio dire, in altre parole, che rispetto alle entità collettive che sono la famiglia, la scuola, la società, l’individuo con handicap vale esattamente quanto un individuo senza (apparenti) limitazioni. Tutto sta nel riuscire a fare o tendere a fare la “cosa giusta”; nel riuscire a “farsi valere” come quello o quella che fa e farà la cosa “più” giusta, la cosa “migliore”, la cosa più “apprezzabile”, la cosa “che gli altri non sanno fare”, la “cosa-risorsa” non solo per se stessi, ma per tutti.

Di qui la necessità, per così dire, di educarsi agli altri; di curare il proprio “io”, in funzione di un criterio di retroattività dialogica, cooperativa, sociale, ai limiti delle proprie possibilità umane complessive. Insisto su questo: se una persona è convinta in se stessa di quello che positivamente fa, prima o poi, finirà con l’imporre se stessa anche agli altri (a casa propria, a scuola, nella società); e ad imporlo come qualcosa di necessario, di indispensabile e, per l’appunto, come una insostituibile risorsa.

5) Negli ultimi anni il vocabolario italiano ha inserito il termine “diversamente abile” come possibile sostituzione al termine “handicappato”. Secondo lei, quale vocabolo si addice di più ad una persona che ha un problema motorio e verbale?

 Ma è proprio necessario legare qualcuno ad una parola? Non c’è il rischio che “questa” o “quella” parola siano inadeguate a connotare la complessità e la mutevolezza di una condizione psico-fisica? Definendo isolatamente l’elemento fisico, non finiremmo col deprivarlo di ciò che caratterizza unitariamente l’intera personalità umana che abbiamo di fronte, e, dunque, con dare ad esso un “credito” assoluto che non ha? Non è meglio spostare tutto il ragionamento, e le parole che ne conseguono, verso l’“abilità” tout court, quale che sia: blogger, giornalista, scrittore-scrittrice, attore-attrice, regista, operatore-operatrice culturale, insegnante, direttore-direttrice di un’istituzione?

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