Pedagogia ed autismo. Cosa dovrebbe fare la “buona“ scuola (post con immagine)

mi sono sempre fatta molte domande sull’autismo, che cos’è, che sintomi comporta, quali sono le “strategie“ per supportare le persone autistiche, qual è il ruolo della scuola e della società dinnanzi a questo handicap; cosa dovrebbe tenere presente un bravo pedagogista dinnanzi al gruppo classe che presenta un bambino o ragazzo autistico…

Quale strumento migliore della scrittura per riflettere ed approfondire la tematica?

Inizierei con la domanda più semplice e diretta “che cos’è l’autismo?“ Ho cercato la risposta in vari siti internet e mi sento di riassumere che l’autismo è fondamentalmente una forma particolare di situarsi nel mondo e, per lo più, di costruirsi una realtà. Associato o non a delle cause organiche, l’autismo è riconoscibile dai sintomi che impediscono o pongono delle serie difficoltà al bambino nel suo processo al linguaggio, nella comunicazione e nel vincolo sociale. Le stereotipie, le ecolalie, l’assenza di linguaggio, i soliloqui, l’aggressività rivolta su di sé, l’insensibilità al dolore o l’assenza di sensazione del pericolo sono alcuni dei sintomi che mostrano l’isolamento del bambino o dell’adulto dal mondo che lo circonda e la sua tendenza a bastarsi a sé stesso. Supportare la formazione ed il perfezionamento degli insegnanti ed educatori coinvolti nella crescita del bambino con autismo significa favorire la comprensione di questa disabilità complessa e variabile. Bisogna essere in grado di sostenere i continui cambiamenti che questa condizione prevede e riuscire ad agire sotto diversi punti di vista: una brava educatrice, un bravo educatore deve saper rispondere con competenza ai differenti bisogni educativi dell’alunno con autismo e della sua classe, con necessità di interventi più complessi ed articolati, dovrebbe anche prevedere uno “spazio didattico“ atto a suscitare riflessioni e confronti utili per strutturare un lavoro pedagogico che dia importanza ai vissuti e alle necessità di tutte le soggettività coinvolte. Penso che la scuola sia un fondamentale luogo di crescita, formazione ed anche di confronto tra pari e nel rapporto con tutto il personale scolastico. È facile teorizzare sull’inserimento scolastico, cosa diversa è fare della teoria una pratica, ma so che molto si sta facendo soprattutto negli istituti tecnici, come avviene ad esempio con gli interventi mirati di personale qualificato che lavora nelle scuole per conto della Provincia di Roma.

Tornando allo spettro autistico bisogna chiarire le peculiarità del disturbo e approfondire gli approcci, i metodi e gli strumenti a disposizione degli insegnanti e degli educatori per migliorare il processo di apprendimento dell’alunno e rispondere ai suoi bisogni specifici riuscendo a comprenderne il comportamento e la percezione della realtà. Nell’attività educativa e didattica, di questi ragazzi in modo particolare, ma poi per tutta la classe, ritengo sia importante stimolare i processi di apprendimento, integrazione, socializzazione ed autonomia. Con un corretto processo di inclusione sociale fornendo non solo all’alunno ma a tutta la classe gli strumenti necessari per crescere, imparare insieme, riconoscendo e rispettando le diversità, i limiti e le potenzialità in primis di chi a qualche difficolta in più, ma poi di tutto il gruppo classe. Questi obbiettivi mirano ad aiutare i docenti per meglio comprendere le problematiche e le risorse dell’alunno con autismo in classe, fornendo strumenti di analisi, valutazione e programmazione didattica efficaci per migliorare l’apprendimento e la vita in classe del ragazzo. Sarà proprio così? Sarebbe un grandissimo passo avanti rispetto a quando andavo a scuola io, allora non si parlava nemmeno di pedagogia speciale, forse non è un caso che poi mi sono laureata in scienze dell’educazione e della formazione.

Tornando al discorso scolastico per tutti, ma in particolare per i soggetti autistici, il programma formativo è strutturato in modo tale da integrare la parte teorica sull’autismo e la pedagogia speciale con esercitazioni e attività di laboratorio. Queste attività pratiche sono ritenute strettamente fondamentali per riuscire a comprendere come attuare nel contesto didattico ed educativo della scuola le conoscenze acquisite durante il corso. Il volume “Pensiero narrativo e autismo. Una ricerca clinico-pedagogica“ di Barbara Tonani,  edito da Franco Angeli, è interessante perché vuole fornire un contributo alla realizzazione, in un futuro auspicabilmente non troppo lontano, di un’autentica integrazione del bambino autistico all’interno del sistema scolastico, nella consapevolezza che ciò potrà avvenire solo se la scuola sarà in grado di ripensare criticamente se stessa, abbandonando le pratiche di omologazione alla normalità e assumendo, invece, un atteggiamento flessibile che consenta di fornire percorsi formativi rispettosi dell’individualità di ogni allievo. Sto citando questo testo perché si sposa bene con la mia idea di scuola, educazione ed handicap ed in qualche modo ricorda i concetti espressi nel mio romanzo Nata viva, dove si evince come una ragazza con disabilità motoria ha vissuto la scuola dell’obbligo. Tornando al primo testo in questione, il progetto sviluppato si proponeva di indagare la possibilità di incidere positivamente sulle competenze socio-relazionali di un bambino autistico, attraverso un percorso educativo individualizzato che prevedesse l’utilizzo di materiale narrativo, all’interno di un setting con caratteristiche clinico-pedagogiche. I gesti e i bisogni quotidiani (vestirsi, mangiare, giocare) sono diventati così occasioni di apprendimenti cognitivi, motori, ma soprattutto sociali, poiché, attraverso la narrativizzazione dell’esperienza, si è permesso al bambino di coglierne il significato come parti di un contesto più ampio, e di condividere tale significato con gli altri. Un’occasione formativa non solo per il soggetto, ma anche per i compagni e l’insegnante, i quali hanno trovato nello spazio potenziale del setting un luogo di privacy mentale in cui potersi confrontare con se stessi e con gli altri in modo più autentico, al di là dei ruoli normalmente esibiti nella quotidianità della vita scolastica.

Ecco questa è una scuola giusta, la scuola che avrei voluto per me… ma spero si concretizzi per le nuove generazioni.

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Il razzismo si batte a suon di educazione e cultura. Parola di Zoe Rondini

Articolo uscito su Rete Near http://www.retenear.it/2015/03/il-razzismo-si-batte-a-suon-di-educazione-e-cultura-parola-di-zoe-rondini/

«Il razzismo e il pregiudizio si contrastano con l’educazione e la cultura, ma anche con le buone leggi. ». Lo afferma Antonio Russo, responsabile immigrazione delle Acli, in riferimento alla Giornata internazionale contro il razzismo, che si celebra ogni 21 marzo in tutto il mondo.

«Occorre riprendere l’impegno all’educazione, soprattutto tra le giovani generazioni; esercitare una serie revisione dei nostri linguaggi, con particolare riferimento al mondo della comunicazione e della politica; lavorare perché le leggi accompagnino le trasformazioni del Paese, riducendo le disuguaglianze nel riconoscimento dei diritti e dei doveri».

Mi sento di condividere a pieno l’opinione del Dott. Russo, le leggi e l’educazione sono sicuramente la base dalla quale partire per contrastare il razzismo e le discriminazioni. A tale proposito vorrei concentrare questo mio articolo sul ruolo che l’educazione scolastica e la preparazione del personale scolastico hanno nel superamento delle discriminazioni e nell’integrazione delle differenze.

Per affrontare queste tematiche mi servirò di due esperienze significative e personali in ambito scolastico ed universitario.

La discriminazione colpisce tutte le persone considerate “diverse“: disabili, omossessuali, persone che rientrano nella categoria LGTB, persone di un’altra religione e credo politico e via discorrendo. Purtroppo c’è un fatto: nella nostra società tante persone sono condannate ad avere paura perché sono quello che sono. Bisogna fare i conti con questa realtà poiché se facciamo finta di nulla la situazione non potrà che peggiorare e contribuiremmo noi stessi a creare degrado nella nostra civiltà. Lasciare da parte i diritti perché ci sono altri problemi più importanti a cui pensare, come l’economia da ricostruire, sarebbe un grande passo indietro e una sconfitta per un paese che dovrebbe accogliere il diverso. Ma poi, mi sono sempre domandata, perché determinate persone sono considerate diverse? Chi l’ha detto che lo sono? A quali “canoni“ del passato manteniamo fede? Non sarebbe ora di superare i vecchi canoni classici di bellezza, armonia e perfezione per formare una nuova società più inclusiva per tutti?

In un mio precedente articolo mi ero occupata del cyber-bullismo e di come sia diffuso tra gli adolescenti. Anche per il razzismo e la discriminazione di genere mi piacerebbe affrontare la situazione nella cornice della scuola in quanto luogo di socializzazione primaria al di fuori della famiglia. E’ a scuola che il bambino conosce la società in tutte le sue sfaccettature ed è qui che impara o meno a rapportarsi e rispettare le differenze. E’ vero che non bisogna trascurare il ruolo fondamentale della famiglia, ma la scuola, qualora in famiglia fosse diffusa una certa intolleranza, è il luogo della seconda chance, l’ambiente di affermazione individuale. Considerata la mia formazione pedagogica e la mia esperienza di crescita personale la scuola non può non essere l’ambito di riferimento per la riflessione che propongo in questa sede.

La scuola ci dovrebbe insegnare fin da piccoli, ma anche e soprattutto nel periodo dell’adolescenza, a considerare le differenze come una ricchezza ed un valore aggiunto, non un problema. Inoltre per quanto riguarda gli stranieri è un dato di fatto che con il passare del tempo la popolazione scolastica sia sempre più eterogenea e multiculturale. Il sito Stranieriinitalia.it evidenzia che “nell’anno scolastico 2011/2012, gli alunni stranieri nati in Italia sono 334.284 e rappresentano il 44,2% sul totale degli alunni con cittadinanza non italiana. Cinque anni fa erano meno di 200mila, il 34,7%. Nelle scuole dell’infanzia i bambini stranieri nati in Italia sono l’80,4%, più di otto su dieci, ma in alcune regioni la percentuale è ancora più alta e supera l’87%.“ Uniti in classe, separati al pomeriggio:  secondo una indagine realizzata da Skuola.net per CorriereScuola, i ragazzi tendono a integrarsi e a frequentarsi fuori dalla scuola, a far amicizia tra di loro, senza distinzioni o chiusure in gruppi etnici; tuttavia a fare resistenza, sarebbero piuttosto i genitori. Per fortuna i bambini ed i ragazzi hanno pochi problemi a rapportarsi con le diversità. Mentre molti adulti sono spaventati davanti a chi presenta esigenze diverse.

Alle medie sono stata discriminata perché ho un handicap motorio. Con il senno di poi collego questa esperienza personale alla cattiva formazione e sensibilità pedagogica del personale scolastico. L’insegnante di sostegno e la collaboratrice ata erano terrorizzate dall’idea che potessi cadere all’interno della scuola creando un problema rientrante nella loro responsabilità, per questo non mi facevano alzare dal banco né per andare in bagno, né per godermi la ricreazione. Il bagno, per fortuna, mi serviva solo una volta a settimana quando avevo sei ore anziché cinque. Alle 13.30 doveva venire mia madre per una semplice pipì. Invece a ricreazione, quando tutti i miei amici giocavano in cortile io dovevo rimanere ferma al mio banco. In questo modo gran parte dell’esperienza di socializzazione legata alla scuola a me non era riconosciuta, in quanto disabile.  A nulle sono serviti i reclami della mia famiglia alla preside ed a gli altri insegnanti.

Poco tempo fa vidi un documentario che parlava, di un uomo omossessuale in sedia a rotelle. Questa persona era diventata disabile in età adulta. Egli spiegava com’era difficile la sua condizione e quella del suo compagno in un Paese come il nostro. Pensai subito perché non fugge all’estero visto che qui è doppiamente discriminato per il suo handicap e per l’orientamento sessuale? Infatti si lamentava proprio di ciò! Ma poi provai rabbia, possibile che in tanti dobbiamo pensare di scappare all’estero? Perché non si può fare dell’Italia un Paese migliore prendendo esempio da chi ci è già riuscito?

Concordo con le parole della Dottoressa Priscilla Berardi, che dichiara «c’è grande ignoranza sulle tematiche LGBT, sulla sessualità delle persone disabili e sulla sessualità in genere. Informare, formare, educare su questi temi il grande pubblico, i familiari, i professionisti che si occupano di disabilità e quelli che si occupano del benessere psico-sessuale della persona dovrebbe essere la priorità.» Ancora una volta il condizionale è d’obbligo e a farne le spese sono i “diversi“ e le loro famiglie.

Continuando le mie riflessioni sull’importanza dell’educazione per contrastare la paura del diverso, vorrei parlarvi di un’esperienza positiva fatta da me nelle scuole che in qualche modo mi ha riscattato degli anni delle medie. Io ed un mio amico, entrambi laureati in pedagogia, siamo andati ad incontrare varie classi delle scuole medie di Campagnano e Nazzano in provincia di Roma. È stata un’esperienza bellissima che mi ha dato tanto. Io raccontavo delle miei esperienze di vita ed il mio amico leggeva alcuni brani del mio romanzo di formazione Nata viva. È stato gratificante vedere i ragazzi attenti e coinvolti. Mi hanno fatto molte domande ed io ho risposto a tutti senza peli sulla lingua, anche a chi voleva sapere se ero mai stata innamorata e fidanzata (ho risposto di sì raccontando velatamente le mie esperienze più importanti tenendo conto l’età dei miei interlocutori!). Sia le insegnanti sia i ragazzi mi hanno trasmesso tanto. In quella fascia d’età non hanno ancora timore e inibizione ed entrano facilmente in empatia con qualcosa di nuovo, di diverso dal solito. Ho fatto la stessa esperienza con gli studenti universitari di un corso di pedagogia presso una nota Università romana, avevano timore a farmi le domande ad entrare veramente in contatto con me, erano meno interessati alle mie esperienze di vita ed al mio libro, erano impacciati, come se volessero farmi delle domande ma il timore, il falso pudore li bloccava.

Per concludere penso che la discriminazione e soprattutto la paura del diverso siano ancora molto presenti in un Paese come l’Italia che sta diventando via via sempre più multi-etnico, ma che deve fare ancora grossi passi avanti sui concetti di anti-razzismo ed inclusione sociale.

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Limiti impliciti ed imposti alla disabilità

L’indipendenza e l’autonomia sono nodi cruciali della vita di un disabile ed una preoccupazione costante di chi gli vuole veramente bene. Il disabile si trova quotidianamente a fare i conti con il limite. Questo assume varie forme, il limite del suo handicap quindi legato a uno stato fisico, psichico. Non può, non riesce a fare determinate cose… a volte i limiti fisici si tollerano bene, quelli che più pesano sono i limiti nella libertà, nel movimento inteso come autonomia ed i limiti della società.

Al concetto di limite si associa ed è in qualche modo contrapposto quello di libertà. Ma che cos’è la libertà? Non condivido la definizione del termine libertà fornita dal dizionario: “Condizione di chi può agire senza costrizioni di qualsiasi genere.“ Tutti siamo in qualche modo legati ed interconnessi, chi più o chi meno, ma la libertà, come anche la felicità, dovrebbero essere un diritto più che un dovere. Essa può dipendere da noi stessi, ma purtroppo dobbiamo fare i conti con la realtà dei fatti e con una societàche spesso, soprattutto nelle grandi città, non ha tempo e risorse per i più deboli. Magari le risorse si hanno ma vengono mal gestite. Tornando ai concetti della libertà e felicità non penso che questi dipendano solo ed unicamente dalla nostra volontà ed impegno.  In questo articolo vorrei riflettere su diverse tematiche correlate al concetto di disabilità nel nostro paese. A mio avviso il discorso delle pari opportunità, non sta in piedi, è solo un modo di negare i limiti fisici di una persona per nascondersi dietro all’uguaglianza che non rispetta e non riconosce, i limiti, i talenti e la diversità delle persone “diversamente abili“.

Avete mai avuto a che fare con l’esperienza del tirocinio-lavoro pensato apposta per i disabili? Chissà com’è nessuno più offrirvi nulla che faccia al caso vostro.  Non si tratta solo di un’esperienza ed un’opinione del tutto personali: i dati sul lavoro e disabilità riportati in un articolo di Maria Giovanna Faiella per il Corriere della sera non sono incoraggianti, ma meritano di essere riportati: “L’Italia è indietro rispetto agli altri Paesi riguardo all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, come dimostrano i dati sui tassi di occupazione. In Francia, dove come da noi il 4,6% della popolazione ha un riconoscimento amministrativo della propria condizione di disabilità, si arriva al 36% di occupati tra i 45-64enni disabili, mentre in Italia, per la stessa fascia di età, il tasso si ferma al 17%. In Germania si arriva al 50% di occupati. Secondo la ricerca, da noi è difficile trovare un lavoro una volta completato il percorso formativo: meno di una persona con sindrome di Down su tre lavora dopo i 24 anni, e appena una su dieci tra gli ultraventenni che soffrono di autismo. Non è facile nemmeno mantenere l’occupazione in seguito a una malattia cronica che causa una progressiva disabilità, come la sclerosi multipla: lavora meno della metà di chi ha tra i 45 e i 54 anni.“

Anche uscire di casa, muoversi, spostarsi, avere degli amici, vivere una relazione di coppia possono essere traguardi raggiungibili o irraggiungibili. Molto, anzi troppo, è ancora affidato alle singole famiglie e persone. Tanto per fare un esempio di come vanno le cose in Italia per chi ha una disabilità motoria ma è cresciuta cercando di vivere nella maniera più normale possibile: è ingiusto che per un cambiamento di legge e l’opinione del tutto personale di un ingegnere mi sia stata sospesa la patente di guida. Io è da quando sono nata che faccio i conti con i miei limiti, grazie alla mia famiglia ed ai miei sacrifici, ho imparato a camminare, essere autonoma, ho una laurea quinquennale e non riesco a tollerare che una persona mi abbia costretto a tornare indietro.

Tornando ad un discorso più generale sul concetto di autonomia… avete mai cercato sul dizionario questa parola? Vediamo un po’ “Facoltà di governarsi da sé.Indipendenza di giudizio, libertà d’azione.“ Già, questi tre pensieri sono dei traguardi non  impossibili da raggiungere, ma se ciò comporta degli sforzi da parte dei normodotati, la faccenda è assai meno alla portata per chi ha un handicap. Personalmente uso molto Internet, sul web sembra tutto alla portata di tutti, tutto fatto per tutti, poi nella vita reale (almeno in Italia) ci sono barriere culturali, architettoniche, leggi che rendono difficili, la patente di giuda, avere un posto fisso, un lavoro vero. Chi ha una disabilità non può avere una casa in affitto perché poi come lo cacci via? E così discorrendo.  È giusto sperare sempre nel migliorarsi e nel mettersi in gioco. Ma penso che spesso i disabili, come me del resto, abbiano seri problemi a guardare in faccia la realtà delle cose e confrontarsi con i “NO“ che la realtà ci sbatte in faccia. Spesso la famiglia se può, sulle piccole cose, ti fa contento: infondo hai già tante limitazioni. Poi da grande, per molti disabili, lo spettro di un istituto o di una casa famiglia per vivere o semplicemente per lavorare è sempre in agguato, prima c’è la scuola dell’obbligo ma, purtroppo, quello che segue, il lavoro, una vita attiva ed indipendente non sono degli obblighi, delle certezze garantite dallo stato, è più facile aprire dei centri diurni, che a volte sono dei veri e propri parcheggi piuttosto che sostenere il disabile e la sua famiglia nel loro contesto quotidiano.  A questo punto mi sembra necessaria una considerazione: i soldi dello Stato erogati direttamente alle persone disabili o alle famiglie di disabili (pensione ed accompagnamento) non sono minimamente sufficienti ad uscire di casa, a crearsi una vita autonoma. Possono essere d’aiuto per chi rimane in famiglia. Chissà perché lo stato ci vuole eterni bambini a casa, o nelle strutture delle quali parlavo pocanzi, dove generalmente si aspetta che la vita passi…

Anche i dati sono significativi per capire la situazione dei disabili in Italia: l’Istat rivela che le persone disabili che vivono in istituti sono circa 300.000. Un problema particolare è rappresentato dal “dopo di noi“. Si stima per eccesso (l’ipotesi adottata è che la speranza di vita delle persone disabili alle diverse età sia uguale a quelle relativa all’intera popolazione di età corrispondente) che il 50% delle persone disabili vivrà senza genitori e quindi senza il loro sostegno per venti anni in media. Riporto due appelli accorati e non incoraggianti trovati su due forum per persone disabili, mi sembrano significativi di come e quanto, anche le persone disabili, vogliano crearsi un futuro all’estero: “Sono disabile al 100%e voglio andare a vivere all’estero, forse con la pensione che prendiamo in qualche paese dell’Asia o sud America posso avere un aiuto che qui in Italia mi è impossibile anche perché i miei genitori sono vecchi e la situazione sta diventando difficile“. Come si fa o come si dovrebbe fare davanti a certe realtà? Di chi è la colpa e di chi le competenze  per far fronte a tante esigenze? Cosa non fa la politica che dovrebbe fare?

L’onorevole Elena Improda del PD fa  un importante iniziativa di cohousing, insieme all’associazione Oltre Lo Sguardo Onlus. Molti ragazzi con handicap cognitivo e fisico “vivono“ insieme in una casa senza genitori nel loro ambiente quotidiano. Sono aiutati da personale qualificato. Organizzano la casa, fanno la spesa, fanno le commissioni nel loro quartiere, cucinano, mangiano, intessono relazioni, si divertono… nel loro ambiente abituale, questo è importante per prevenire il Dopo di Noi che spaventa tanti genitori. Questi ragazzi disabili un giorno vivranno insieme sfuggendo alla “classica“ prospettiva dell’istituto o della casa famiglia. Ho conosciuto vari ragazzi che partecipano a questo interessante progetto di “vita indipendente“ e posso affermare che il loro entusiasmo è autentico e contagioso! Chissà se parlarne farà estendere l’esperienza!?

Purtroppo non tutti vedono delle prospettive vicine: c’è chi prende in considerazione una “fuga“ in un altro paese, vi riporto una seconda interessante testimonianza: “mi chiamo Andrea sono un invalido civile al 100% di 39 anni percepisco una pensione di invalidità più un’indennità di accompagnamento per un totale di circa 800 euro mensili. Non trovando lavoro ho seri problemi ad arrivare a fine mese ed insieme a mia moglie stavamo pensando di trasferirci all’estero. Volevo un vostro aiuto per scegliere la destinazione tenendo conto del costo della vita del rischio di perdere la pensione di invalidità e del clima (mi hanno parlato di Tunisia e Ucraina)“.

Tale esigenza di scappare in cerca di una condizione migliore, o almeno sostenibile, rappresenta per il nostro Paese una grossa sconfitta soprattutto in quanto manca di prospettive di lavoro. La seconda testimonianza mi posta a due considerazioni. In primo luogo, cosa sono 800 euro per un disabile al 100%, che deve affrontare spese  extra legate al suo handicap? La seconda riflessione nasce dal fatto che Andrea ha una moglie: ma perché in molti casi è l’uomo disabile a sposarsi una donna normodotata e non il contrario? Forse un uomo invalido ha una vita un po’ più semplice rispetto a una donna con la sua stessa disabilità? Perché c’è una forte discrepanza di genere, anche, ma naturalmente non solo, tra persone disabili? «Io, disabile, costretto a “fuggire” all’estero per riuscire a fare l’amore» è il titolo ad effetto del trailer del film “The special need“ la storia di Enea, un ragazzo autistico ad alto funzionamento che va all’estero aiutato ed accompagnato da due amici, per poter rivolgersi all’assistente sessuale. Figura molto utile per alcuni tipi di disabilità e di sostegno a tante famiglie ma che aimè per adesso in Italia non c’è! Anzi in un interessante convegno su amore, sessualità e disabilità ho “scoperto“ che da noi se una persona “normodotata“ aiuta un disabile ad andare con una prostituta può essere “condannata“ per istigamento alla prostituzione. Mi sembra proprio una cosa dell’altro mondo! Altro che pari opportunità!

Ritengo che molto si è fatto, ma moltissimo rimane ancora da fare, non tanto per le barriere architettoniche, ma soprattutto per quelle culturali.

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