Limiti impliciti ed imposti alla disabilità

L’indipendenza e l’autonomia sono nodi cruciali della vita di un disabile ed una preoccupazione costante di chi gli vuole veramente bene. Il disabile si trova quotidianamente a fare i conti con il limite. Questo assume varie forme, il limite del suo handicap quindi legato a uno stato fisico, psichico. Non può, non riesce a fare determinate cose… a volte i limiti fisici si tollerano bene, quelli che più pesano sono i limiti nella libertà, nel movimento inteso come autonomia ed i limiti della società.

Al concetto di limite si associa ed è in qualche modo contrapposto quello di libertà. Ma che cos’è la libertà? Non condivido la definizione del termine libertà fornita dal dizionario: “Condizione di chi può agire senza costrizioni di qualsiasi genere.“ Tutti siamo in qualche modo legati ed interconnessi, chi più o chi meno, ma la libertà, come anche la felicità, dovrebbero essere un diritto più che un dovere. Essa può dipendere da noi stessi, ma purtroppo dobbiamo fare i conti con la realtà dei fatti e con una societàche spesso, soprattutto nelle grandi città, non ha tempo e risorse per i più deboli. Magari le risorse si hanno ma vengono mal gestite. Tornando ai concetti della libertà e felicità non penso che questi dipendano solo ed unicamente dalla nostra volontà ed impegno.  In questo articolo vorrei riflettere su diverse tematiche correlate al concetto di disabilità nel nostro paese. A mio avviso il discorso delle pari opportunità, non sta in piedi, è solo un modo di negare i limiti fisici di una persona per nascondersi dietro all’uguaglianza che non rispetta e non riconosce, i limiti, i talenti e la diversità delle persone “diversamente abili“.

Avete mai avuto a che fare con l’esperienza del tirocinio-lavoro pensato apposta per i disabili? Chissà com’è nessuno più offrirvi nulla che faccia al caso vostro.  Non si tratta solo di un’esperienza ed un’opinione del tutto personali: i dati sul lavoro e disabilità riportati in un articolo di Maria Giovanna Faiella per il Corriere della sera non sono incoraggianti, ma meritano di essere riportati: “L’Italia è indietro rispetto agli altri Paesi riguardo all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, come dimostrano i dati sui tassi di occupazione. In Francia, dove come da noi il 4,6% della popolazione ha un riconoscimento amministrativo della propria condizione di disabilità, si arriva al 36% di occupati tra i 45-64enni disabili, mentre in Italia, per la stessa fascia di età, il tasso si ferma al 17%. In Germania si arriva al 50% di occupati. Secondo la ricerca, da noi è difficile trovare un lavoro una volta completato il percorso formativo: meno di una persona con sindrome di Down su tre lavora dopo i 24 anni, e appena una su dieci tra gli ultraventenni che soffrono di autismo. Non è facile nemmeno mantenere l’occupazione in seguito a una malattia cronica che causa una progressiva disabilità, come la sclerosi multipla: lavora meno della metà di chi ha tra i 45 e i 54 anni.“

Anche uscire di casa, muoversi, spostarsi, avere degli amici, vivere una relazione di coppia possono essere traguardi raggiungibili o irraggiungibili. Molto, anzi troppo, è ancora affidato alle singole famiglie e persone. Tanto per fare un esempio di come vanno le cose in Italia per chi ha una disabilità motoria ma è cresciuta cercando di vivere nella maniera più normale possibile: è ingiusto che per un cambiamento di legge e l’opinione del tutto personale di un ingegnere mi sia stata sospesa la patente di guida. Io è da quando sono nata che faccio i conti con i miei limiti, grazie alla mia famiglia ed ai miei sacrifici, ho imparato a camminare, essere autonoma, ho una laurea quinquennale e non riesco a tollerare che una persona mi abbia costretto a tornare indietro.

Tornando ad un discorso più generale sul concetto di autonomia… avete mai cercato sul dizionario questa parola? Vediamo un po’ “Facoltà di governarsi da sé.Indipendenza di giudizio, libertà d’azione.“ Già, questi tre pensieri sono dei traguardi non  impossibili da raggiungere, ma se ciò comporta degli sforzi da parte dei normodotati, la faccenda è assai meno alla portata per chi ha un handicap. Personalmente uso molto Internet, sul web sembra tutto alla portata di tutti, tutto fatto per tutti, poi nella vita reale (almeno in Italia) ci sono barriere culturali, architettoniche, leggi che rendono difficili, la patente di giuda, avere un posto fisso, un lavoro vero. Chi ha una disabilità non può avere una casa in affitto perché poi come lo cacci via? E così discorrendo.  È giusto sperare sempre nel migliorarsi e nel mettersi in gioco. Ma penso che spesso i disabili, come me del resto, abbiano seri problemi a guardare in faccia la realtà delle cose e confrontarsi con i “NO“ che la realtà ci sbatte in faccia. Spesso la famiglia se può, sulle piccole cose, ti fa contento: infondo hai già tante limitazioni. Poi da grande, per molti disabili, lo spettro di un istituto o di una casa famiglia per vivere o semplicemente per lavorare è sempre in agguato, prima c’è la scuola dell’obbligo ma, purtroppo, quello che segue, il lavoro, una vita attiva ed indipendente non sono degli obblighi, delle certezze garantite dallo stato, è più facile aprire dei centri diurni, che a volte sono dei veri e propri parcheggi piuttosto che sostenere il disabile e la sua famiglia nel loro contesto quotidiano.  A questo punto mi sembra necessaria una considerazione: i soldi dello Stato erogati direttamente alle persone disabili o alle famiglie di disabili (pensione ed accompagnamento) non sono minimamente sufficienti ad uscire di casa, a crearsi una vita autonoma. Possono essere d’aiuto per chi rimane in famiglia. Chissà perché lo stato ci vuole eterni bambini a casa, o nelle strutture delle quali parlavo pocanzi, dove generalmente si aspetta che la vita passi…

Anche i dati sono significativi per capire la situazione dei disabili in Italia: l’Istat rivela che le persone disabili che vivono in istituti sono circa 300.000. Un problema particolare è rappresentato dal “dopo di noi“. Si stima per eccesso (l’ipotesi adottata è che la speranza di vita delle persone disabili alle diverse età sia uguale a quelle relativa all’intera popolazione di età corrispondente) che il 50% delle persone disabili vivrà senza genitori e quindi senza il loro sostegno per venti anni in media. Riporto due appelli accorati e non incoraggianti trovati su due forum per persone disabili, mi sembrano significativi di come e quanto, anche le persone disabili, vogliano crearsi un futuro all’estero: “Sono disabile al 100%e voglio andare a vivere all’estero, forse con la pensione che prendiamo in qualche paese dell’Asia o sud America posso avere un aiuto che qui in Italia mi è impossibile anche perché i miei genitori sono vecchi e la situazione sta diventando difficile“. Come si fa o come si dovrebbe fare davanti a certe realtà? Di chi è la colpa e di chi le competenze  per far fronte a tante esigenze? Cosa non fa la politica che dovrebbe fare?

L’onorevole Elena Improda del PD fa  un importante iniziativa di cohousing, insieme all’associazione Oltre Lo Sguardo Onlus. Molti ragazzi con handicap cognitivo e fisico “vivono“ insieme in una casa senza genitori nel loro ambiente quotidiano. Sono aiutati da personale qualificato. Organizzano la casa, fanno la spesa, fanno le commissioni nel loro quartiere, cucinano, mangiano, intessono relazioni, si divertono… nel loro ambiente abituale, questo è importante per prevenire il Dopo di Noi che spaventa tanti genitori. Questi ragazzi disabili un giorno vivranno insieme sfuggendo alla “classica“ prospettiva dell’istituto o della casa famiglia. Ho conosciuto vari ragazzi che partecipano a questo interessante progetto di “vita indipendente“ e posso affermare che il loro entusiasmo è autentico e contagioso! Chissà se parlarne farà estendere l’esperienza!?

Purtroppo non tutti vedono delle prospettive vicine: c’è chi prende in considerazione una “fuga“ in un altro paese, vi riporto una seconda interessante testimonianza: “mi chiamo Andrea sono un invalido civile al 100% di 39 anni percepisco una pensione di invalidità più un’indennità di accompagnamento per un totale di circa 800 euro mensili. Non trovando lavoro ho seri problemi ad arrivare a fine mese ed insieme a mia moglie stavamo pensando di trasferirci all’estero. Volevo un vostro aiuto per scegliere la destinazione tenendo conto del costo della vita del rischio di perdere la pensione di invalidità e del clima (mi hanno parlato di Tunisia e Ucraina)“.

Tale esigenza di scappare in cerca di una condizione migliore, o almeno sostenibile, rappresenta per il nostro Paese una grossa sconfitta soprattutto in quanto manca di prospettive di lavoro. La seconda testimonianza mi posta a due considerazioni. In primo luogo, cosa sono 800 euro per un disabile al 100%, che deve affrontare spese  extra legate al suo handicap? La seconda riflessione nasce dal fatto che Andrea ha una moglie: ma perché in molti casi è l’uomo disabile a sposarsi una donna normodotata e non il contrario? Forse un uomo invalido ha una vita un po’ più semplice rispetto a una donna con la sua stessa disabilità? Perché c’è una forte discrepanza di genere, anche, ma naturalmente non solo, tra persone disabili? «Io, disabile, costretto a “fuggire” all’estero per riuscire a fare l’amore» è il titolo ad effetto del trailer del film “The special need“ la storia di Enea, un ragazzo autistico ad alto funzionamento che va all’estero aiutato ed accompagnato da due amici, per poter rivolgersi all’assistente sessuale. Figura molto utile per alcuni tipi di disabilità e di sostegno a tante famiglie ma che aimè per adesso in Italia non c’è! Anzi in un interessante convegno su amore, sessualità e disabilità ho “scoperto“ che da noi se una persona “normodotata“ aiuta un disabile ad andare con una prostituta può essere “condannata“ per istigamento alla prostituzione. Mi sembra proprio una cosa dell’altro mondo! Altro che pari opportunità!

Ritengo che molto si è fatto, ma moltissimo rimane ancora da fare, non tanto per le barriere architettoniche, ma soprattutto per quelle culturali.

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