Una cena particolare

In quest’ultima settimana, sono andata a cena con un mio caro amico, che non vedo spesso, in quanto io vivo a Roma e lui a Milano. Trovandomi vicino a Milano – per visitare l’ Expo  – non potevo non approfittare per incontrarlo, anche solo per poco tempo. Ci siamo recati in un’ accogliente trattoria specializzata in secondi di carne; ed è stata un’ ottima serata sia a livello gastronomico, che filosofico grazie alle dense conversazioni e alla compagnia.

Già l’ antipasto preannunciava la festa del gusto. Mentre ci godiamo un’ ottima polenta con i funghi con scaglie di parmigiano squagliate sopra, siamo presi dalla conversazione del  tavolo accanto al nostro, forse una cena di lavoro; un signore di 40/45 anni raccontava che suo zio  – omossessuale – si era rivolto al nipote e con aria scherzosa, resa ancor più divertente dal dialetto napoletano, aveva detto: “Non capisco tutto questo parlare delle unioni civili; io non ho moglie, non ho figli, non obblighi o seccature famigliari… ho un compagno, chi sta meglio di me?“. Il nipote ridendo raccontava che aveva risposto: “Zietto caro, sono pienamente d’accordo  con te!“. Stupidamente mi sono vergognata di parlare con una persona che non conoscevo, ma avrei voluto dire a quel signore che trovo giusto che in Italia si vada verso l’acquisizione di più diritti per tutti, ma la visione di quello zio era pienamente condivisa e condivisibile dalla sottoscritta e da altre persone intelligenti e colte che per fortuna conosco.

Se l’avesse detta un eterosessuale mi sarei scagliata dicendo che non capiva i diritti di tutti i cittadini, ma detta da un omosessuale che voleva avere la sua piena libertà senza tanti vincoli… è, a mio avviso, una visione positiva e bella!

Pochi giorni dopo mi trovavo a Roma Termini, erano circa le quattro di pomeriggio. Davanti a me c’erano due uomini che si baciavano, non ho potuto fare a meno di notarli, non erano né belli né giovani… ma i loro baci esprimevano dolcezza ed amore! Chissà se era solo un caso vederli di giorno a pochi chilometri dal Vaticano o veramente andiamo verso una società più libera, aperta ed inclusiva? Non voglio illudermi, o dire che il cambiamento sociale e culturale sia facile ma è ovvio che spero in un’ apertura, un’ottica nuova anche da noi in Italia. Ho raccontato tutto questo al mio amico. Entrambi abbiamo convenuto che sulla tanto dibattuta questione delle unioni civili non ci vediamo nulla di male. In tanti si oppongono all’adozione dei bambini, ma perché? In fondo se un bambino ha due genitori dello stesso sesso può assorbire il “modello di riferimento mancante“ al di fuori del nucleo famigliare senza per questo avere chissà quali problemi o “turbamenti“. D’altronde è un dato di fatto che  spesso un figlio debba crescere senza la madre o senza il padre… ed allora? Di certo se manca un modello di riferimento è più difficile ma non per questo si è destinati ad aver problemi o turbe mentali. Io ammiro molto Massimo Gramellini, lui ha perso la madre da piccolo, non ha avuto un vissuto facile da solo con il padre ma ha una vita invidiabile e come lui tanti altri meno famosi!

 Ma tutto questo, in fondo era ancora l’ antipasto.

Il piatto forte, non essendoci il primo, è consistito in un delizioso carpaccio di carne accompagnato dai funghi porcini sopra, tagliati non troppo finemente. A questo sapore forte e deciso e sicuramente autunnale, non è potuto mancare un tema altrettanto forte. Siamo arrivati a confrontarci sulla delicata questione dell’eutanasia, il mio amico era favorevole… io sono propensa a rispettare la volontà del singolo, ma bisogna garantire la “decenza“ sia per chi vuole vivere, sia per chi decide di ridurre le proprie sofferenze. Chi ci dice che Eluana Englaro non abbia sofferto, visto che è morta di fame e di sete? E chi vuole vivere, ha la dovuta assistenza? Penso che troppo spesso si sente dire che i soldi non arrivano, per esempio ai malati di SLA o il personale delle case-famiglia, ospizi, istituti, compie male il proprio lavoro, tanto chi li controlla sul serio? Lo stipendio a fine mese gli arriva, sia se si comportano con decenza e passione (e per fortuna c’è chi lo fa) sia se abusano della loro posizione, lavorando il meno possibile, e non avendo comportamenti etici verso i propri assistiti.

I nostri pasti sono stati accompagnati da un ottimo vino rosso della casa, di sacra bontà. Neanche a farlo apposta, mentre sorseggiavamo, ci siamo resi conto che stavamo parlando  di religione e del papa. Il mio amico ha affermato che papa Francesco non ha lo spessore dei suoi due predecessori che, con meno clamore, prendevano posizioni e decisioni importanti anche da un punto di vista storico-politico e dottrinale; questo papa parla come un semplice parroco, forse è fin troppo “semplice“ rispetto al ruolo che deve o dovrebbe ricoprire. All’inizio del suo pontificato lo ammiravo, ma col passare del tempo, confrontandomi con vari punti di vista, di credenti e non, forse è vero che a questo Papa manca di prese di posizioni reali; in fondo lui richiama grandi masse che si erano distaccate dalla Chiesa, ma poi sia rispetto all’ omosessualità, che alle nuove tipologie di famiglie, sia rispetto a tutti gli altri grandi temi politici, non è così incisivo e chiaro, seppure dimostra una grande disponibilità e apertura  verso gli “ultimi“ ; speriamo che a tale approccio comunque nuovo, sobrio e di sicura ispirazione francescana, faccia corrispondere nel tempo prese di posizione nette, chiare e storiche per davvero.

Ma ecco arrivare il dessert… una torta di mele calda. Quel  gusto dolce stemperato dalla nota acidula e giocosa della mela, simile al sapore e al calore  che ha spesso la compagnia con la quale hai la fortuna di condividere una sera a cena, come questa.    Ripenso, mentre mi gusto la torta, a tutte le altre “compagnie“ importanti.  Non a caso mi è venuto da constatare che ho avuto il privilegio di crescere con due nonni che mi hanno sempre stimolata intellettualmente ed adesso che non ci sono più trovo la stessa curiosità e desiderio di cultura in mia sorella, nel suo ragazzo, nelle amicizie che finalmente ho potuto scegliere. Avevo molta paura che con la mancanza dei miei nonni tante cose importanti sarebbero cessate, invece la loro educazione, i loro interessi sono vivi in me ed in tante persone che mi circondano. Questo per la sottoscritta è un tesoro prezioso da condividere e preservare. I miei nonni e mia sorella mi hanno sempre spinta a migliorarmi, essere più autonoma possibile, allenare il mio senso critico, pormi domande per capire, poter decidere e poter commentare la realtà che mi circonda. A mio avviso vivo questi importanti insegnamenti come un arma a doppio taglio: se da una parte riesco a scegliere e vivere la quotidianità con una certa indipendenza, dall’altra ho la pretesa di aiutare chi ha un handicap solamente motorio, ad usare la propria testa, allenare il senso critico, fare nuove esperienze. Ma è giusto o è solo l’esigenza di replicare un modello di comportamento da me assorbito fin dalla prima infanzia e durante i miei studi di pedagogia? Perché mi comporto in questo modo? Questo atteggiamento mi ha portato a successi (ad esempio quando ho presentato il mio romanzo di formazione Nata viva nelle scuole, e quindi ho avuto l’ occasione di sensibilizzare i ragazzi dai 10 ai 18 anni sugli ostacoli che i disabili incontrano) ed a situazioni più frustranti. Un mio ex aveva una lieve disabilità fisica, veniva da una famiglia dove era completamente ovattato. La sua vita era lavorare, fare sport, mangiare e dormire. Non si era mai fatto domande su argomenti tipo: l’amore, il sesso, la cultura, la società, i suoi problemi di salute, i suoi problemi motori etc. Veniva da una famiglia che non l’aveva mai “curato“ e stimolato più di tanto. Forse ho sbagliato a cercare di “interessarlo“ e incuriosirlo su argomenti per lui nuovi.

Vedo che negli istituti e case-famiglia si tende ad assistere ed ovattare il disabile… quindi sbaglio io a ritenere che si possa incoraggiare la mente a vari ragionamenti e migliorare l’autonomia degli utenti. La mia amica Elena Improta ed altri singoli genitori forse sono le poche persone che conosco che si danno da fare per  promuovere l’autonomia dei loro figli, ma la realtà più diffusa è ancora quella dell’assistenzialismo, quella di dire: “faccio io per te che faccio prima e meglio“; “tu non ce la fai e non ce la farai… quindi ci penso io“. Esattamente l’opposto di ciò che prima mia nonna e poi mia  sorella mi hanno detto e mi continuano a dire. Certo è faticoso lottare giorno dopo giorno per “crescere“, ma mi accorgo che è molto importante.

Tornando ad un discorso più generale sulle capacità e le disabilità, mi torna alla memoria il tanto studiato metodo Montessori che si basa su “aiutami a fare da solo/a“! Maria Montessori voleva un ambiente a misura di bambino dove i piccoli potevano scegliere, svolgere attività in autonomia, sentirsi soddisfatti e capaci. E a pensarci bene iniziò proprio da quei bambine e bambini che avevano disturbi mentali. Già… perché non si prendono gli elementi utili da questo e da altri metodi educativi e psicologici e si applicano  alle tante  disabilità in grado di  migliorarsi e cambiare? Intanto la torta è finita; mando giù il boccone, dolce e non amaro, insieme a tutti gli interrogativi.

 E poi una cosa buffa: durante la cena il cameriere che ci serviva è rimasto “basito“ dal mio assaggiare il vino con la cannuccia. Ha detto che non gli era mai capitato di  vedere una situazione del genere; ho sorriso, pensando… “questo cameriere non è molto intelligente e sensibile“; poco dopo mi è venuto ancora più da ridere pensando che non mi era mai capitato che un cameriere si scandalizzasse dal mio bere le bevande, e ahimè anche il nettare degli dei… con la cannuccia! Anche per questa ultima nota surreale si è di sicuro trattato… di una cena molto particolare.

 

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Vengo anch’ io… sì tu sì!

Quella del 2015 è stata la vacanza più lunga che io e mia sorella Fiore abbiamo mai condiviso. Adesso che siamo cresciute, adulte e ben affiatate, se si potesse e non ci fossero gli obblighi del lavoro, dello studio, gli impegni quotidiani, ho ben capito che con lei viaggerei tutta la vita. E non solo però; cosa più importante, anche se non ci dovessero essere le condizioni per “viaggiare“, ho scoperto che è per me lei sarebbe la compagna ideale per le tante possibilità che il tempo libero offre, senza spostarci troppo da casa.

 Il 2015 per me, non è stato un anno facile, tutt’ altro. Ed essendo il contatto con mia sorella profondo negli ultimi anni, a inizio estate si è resa conto che per me era complicato, nonostante mi fossi impegnata tanto e con largo anticipo, trovare un’ assistente che mi potesse accompagnare nel modo giusto a esplorare un luogo e che potesse essere anche la persona giusta per scambiare impressioni, emozioni, e mappe condivise. Ne avevo tanto bisogno. Chi rispondeva all’ annuncio, per diversi motivi, rinunciava pochi giorni dopo.  È stata lei a propormi di organizzare un viaggio insieme, all’ estero. Per la prima volta, da sole, fuori dall’ Italia, per un periodo di tempo più lungo della solita durata standard delle nostre “trasferte“ insieme.

Ci siamo rivolte ad un’ agenzia, declinando qualsiasi proposta di pacchetti organizzati, crociere, giornate calcolate al millimetro dove si vedono cento luoghi senza conoscerne davvero nessuno.  Su questo ci siamo sintonizzate entrambe. Oltre all’ affetto tra noi, che forse da solo non basta mai per godere di un viaggio condiviso, sono stati due gli aspetti fondamentali che ci hanno garantito relax, condivisione effettiva, rispetto delle esigenze personali. Innanzitutto Fiore, che tra le due è l’ esperta dei viaggi, ha sempre condiviso le sue idee con me, pretendendo che io decidessi con lei mete, luoghi e tempi. Mi sono sentita coinvolta anche in questo aspetto organizzativo, affatto scontato – a mio avviso –  quando una sorella normodotata e una persona con disabilità viaggiano insieme. Si corre il rischio  di essere sbilanciati nelle  aspettative o dell’ una o dell’ altra, cosa che noi non abbiamo mai corso, perché affiatate e rispettose  ognuna dei desideri dell’ altra. In questo, abbiamo trovato un tacito accordo strepitoso, che ci ha consentito un equilibrio ideale e reale insieme. Lei mi svegliava alle dieci, capendo quali fossero i miei tempi di recupero, diversi dai suoi, per la mia peculiare condizione fisica. Io, contenta di questa sua accortezza, beh… fino a sera non mi lamentavo di nulla, seguivo il suo ritmo stakanovista,  fortunatamente aiutandomi  con la  mia carrozzina, che uso solo quando viaggio e che con Fiore è diciamo… molto di supporto!

Di Stoccolma ricorderò per sempre la sua eleganza, il suo essere regale, e quindi va da sé la densità di musei di cui è costernata (pane per i denti per mia sorella) . Curioso è stato assistere al cambio della guardia del Palazzo reale. Personalmente ho trovato interessante e divertente un parco che riproduce le case, i mestieri, le usanze, la vita di questa città agli inizi del Novecento. Il parco è anche il museo all’ aperto  più grande d’ Europa. Menomale che al suo interno vi era un itinerario da fare a bordo di un trenino. Ora mi direte… Il trenino non è una cosa fatta appositamente per bambini e famiglie?… Avete ragione. Ma vi assicuro che per avere un’ idea di quello che si vuole visitare quando non si è disposti  a fare tanta fatica a piedi, il trenino è una gran bella invenzione per tutti. Di tutt’ altro fascino è il Museo dei Vichinghi e il galeone esposto. Ma ancora più interessante è la storia del galeone che per un errore di costruzione del suo baricentro, ecco,  durante il varo, colò immediatamente a picco a pochi metri dal molo. Quindi non ci furono molte morti e quasi tutti furono tratti in salvo.

Dopo alcuni giorni che con Fiore e la mia a sedia rotelle, giravamo come trottole ad una velocità inverosimile, ho apprezzato la lentezza del battello preso al porto di Stoccolma. Man mano che navigavamo  il panorama dell’ arcipelago  era caratterizzato dalla presenza di case (dei ricchi) e barche sugli isolotti, che creavano un paesaggio da set cinematografico e poi devo constatare che in Svezia hanno un ottimo gusto per tutto ciò che è arredamento, design, architettura in genere. La destinazione finale del viaggio in battello è stata l’ isola  più grande dell’ arcipelago, con tanto di … ottimo ristorante segnalato dalla guida e luogo ideale per fare shopping. Andando in giro mi sono accorta che le persone più anziane si muovevano liberamente e soprattutto a loro agio, con un deambulatore ultra moderno, leggero, stabile e maneggevole, insomma  una sorta di ritrovato fantascientifico in confronto ai modelli presenti in Italia che tutto sono tranne che maneggevoli, stabili e soprattutto leggeri.

Dall’ eleganza e la regalità di Stoccolma siamo state catapultate nella libertà, l’ allegria, la giovialità e l’ aria frizzante di Copenaghen (nonostante la malinconia del monumento de La Sirenetta di Andersen, che di sicuro non è tra le cose più belle della città). Abbiamo avuto la fortuna di trovare una sistemazione comoda, in una posizione centrale, vicino alle maggiori attrattive della città, tra cui il Parco Tivoli. Che è davvero qualcosa di unico: un parco divertimenti , ma con uno stile ottocentesco. È stato bello addentrarsi nel parco al calar della sera, perché abbiamo goduto di un’ illuminazione sapiente e suggestiva che imprimeva un’ atmosfera magica al tutto. Eravamo lì con l’ intento di fare una tranquilla passeggiata serale, senza partecipare necessariamente alle attrazioni, quando… io mi sono accorta che c’ era la pista delle macchine a scontro. A quel punto ho minacciato mia sorella di non tornare mai più in albergo, senza aver prima fatto un giro di scontri; anche se c’ era una lunga fila, entrambe non potevamo rinunciare, anzi… nell’ attesa ci siamo ancor più caricate. E comunque ne è valsa proprio la pena, perché ci siamo divertite come bambine, ridendo e urlando ad ogni scontro, per tutto il tempo.

Due sono gli aspetti che rendono Copenaghen una città energica e poetica insieme. Da una parte i suoi canali, attraversati sia a piedi che in battello. Lungo i canali era facile incontrare accoglienti “caffè“ e punti di ristoro dove poter godere del sole e della luce,  sempre diversa in tanti momenti della giornata. Le case galleggianti, così ben curate, ricolme di fiori e pulitissime, fanno di certo impallidire i trasandati maleodoranti barconi che purtroppo costeggiano il Tevere. Abbiamo avuto il piacere di imbatterci anche nel Street food Festival, accogliente sia all’ interno, con i capannoni che ospitavano stand a base di cibo da strada, provenienti da vari Paesi, si all’ esterno, dove io e Fiore abbiamo approfittato delle tante sdraio sulla riva del Canale, per rilassarci e… digerire al sole. Lì siamo rimaste a lungo, perché mia sorella ha passato a me “la palla“, nello stabilire i tempi della tabella di marcia di quella giornata.

Verso gli ultimi giorni della vacanza Fiore mi ha proposto un altro museo, tanto perché ne avevamo già visitati pochi. La mia prima risposta è stata “no, un altro no!“…  ma non si trattava di un museo delle antichità, quanto del Museo del Design con i più grandi nomi dell’arte contemporanea internazionale, in materia appunto di design. Un esempio per tutti che mi ha colpito: quelle che  vengono chiamate e indicate come SEDIE sembravano tutto, qualsiasi cosa, tranne che quelle: forme, misure e colori di ogni tipo, che hanno attraversato la storia dagli anni ’50 fino ai giorni nostri. Lo stesso parametro vale per lampade, posate, stoviglie, armadi, tavoli e tavolini vari, vasi e contenitori, cassetti e portaoggetti, letti, divani, poltrone.

Come già detto, molto spesso io Fiore  ci prendevamo il tempo per leggere insieme la guida, prima di recarci a visitare luoghi che suscitavano la nostra curiosità. È In uno di questi momenti che  Fiore  mi nomina l’ esistenza di Christiania. Per capire meglio si è inoltrata nella lettura. Ci siamo entrambe rese conto, mentre leggevamo,  che per poter visitare questa sorta di villaggio esteso all’ interno di Copenaghen, vi erano anche dei pericoli e delle situazioni da evitare, come per esempio fare fotografie a parte della comunità, in particolare ai pusher, che si trovavano non a caso nella Pusher street. Così abbiamo deciso di affidare la nostra sicurezza ad una sapiente guida del luogo, una domenica pomeriggio. E così grazie alla loquacità della signora e allo sforzo di mia sorella di tradurre tutto, ho capito tante cose.   Christiania nasce come un insieme di diverse comunità hippy, che dopo la seconda guerra mondiale, avevano occupato molte fabbriche abbandonate, che si trovavano nella zona industriale  della città. Il Governo per non dovere affrontare la situazione di tante persone ormai senza fissa dimora, ha lasciato piena autonomia nella possibilità di costituirsi in una sorta di città dentro la città. Christiania è un modello di società alternativa comunitaria. Infatti non esiste il concetto della proprietà privata. Tutti si danno da fare per migliorare la vita di ciascuno attraverso la vita in comunità. I salari sono bassi e tutti gli abitanti sono chiamati a contribuire come possono in caso di bisogno o necessità economica. Le case non vanno in eredità ai figli, perché – come già detto – nulla è di proprietà del singolo. Per avere un’ abitazione, bisogna rispettare i tempi di una lista d’ attesa. L’ equilibrio difficile, eppure duraturo, di questo modello sta incontrando resistenze fortissime e scontri accesi con il governo attuale, conservatore e ostile a tutto quello che Cristiania rappresenta. Sulla questione dei pusher la guida ha raccontato due cose fondamentali che mi hanno colpito. La prima è che appunto i pusher non vogliono essere mai fotografati, perché in quei paesi la droga non è legalizzata e quindi, se le foto vengono diffuse e arrivano ad essere usate dalla polizia, sono “rogne“ per loro.  La seconda è che nella Pusher street è vietato correre. Vi chiederete… perché non si può correre? Me lo sono chiesto anch’ io. La spiegazione è stata chiara, semplice e sensata. Se una persona corre in quel luogo, i pusher pensano che questi stiano scappando dalla polizia. Per evitare problemi e malintesi di sorta, hanno inserito questo divieto. Un’ altra particolarità di quel luogo è la musica e tantissimi americani del calibro di Bob Dylan, si sono esibiti sul palco di Christiania.  Al di là di tutto quello che di interessante ci ha raccontato, ho trovato in lei una persona simpatica, sensibile ed accogliente. Quando mi ha visto in sedia a rotelle, ha sorriso dicendomi che quasi quasi mi avrebbe messo in una specie di grandissimo cesto, posto davanti la sua bici. Ho talmente apprezzato un commento del genere, che quasi quasi le avrei chiesto di adottarmi, per entrare a far parte anch’ io, come potevo, della comunità degli hippies. Finito il giro, la nostra fenomenale guida ci ha lasciato in un grazioso negozio di artigianato all’ interno di Christiania. Ma io, forse sorpresa e incantata da tutto quello che avevo a scoperto, ne volevo ancora e ancora. E così ho chiesto a mia sorella di continuare, ora che eravamo ben istruite, il nostro giro da sole. E lei ha acconsentito. È però nella nostra sosta ad un bar, sempre dentro al Villaggio, che mia sorella, accorgendosi della mia felicità e dal mio essere appagata dalle storie e dalle ragioni che il luogo incarnava, ha avuto il dubbio, anzi… quasi la certezza che non sarebbe riuscita più a schiodarmi da lì. Persino la presenza di un lavapiatti italiano, in quel bar, era per me – al contrario di Fiore che era convinta che quell’ uomo non fosse così felice a fare quel mestiere – era invece per me la prova magari di una scelta di vita, piuttosto che immaginarsi dentro la routine e la gabbia di un lavoro d’ ufficio dentro le chiusure e i pregiudizi di una vita infelice trascorsa in Italia.

Quando si viaggia e si fa turismo in un Paese diverso dal proprio è giusto, spontaneo e positivo notare anche le differenze culturali e sociali. Da persona con disabilità motoria, sono rimasta colpita dal vedere come in questi Paesi, la diversità non rappresenti un ostacolo: né da un punto di vista mentale, culturale, né dal punto di vista fisico. A tale proposito ho notato un signore comodamente seduto sul suo motorino elettrico che si trovava ad un tavolo all’ interno di un fast food. Ora, la riflessione è venuta da sé: in molti punti di ristoro di Roma, la mia città, è un caso fortuito se un persona in sedia a rotelle possa mangiare ai tavoli all’ esterno del locale… figuriamoci quando si tratta dell’ interno. E a maggior ragione proviamo ad immaginare se a posto della sedia a rotelle il disabile porti con sè uno scooter elettrico più ingombrante. Cosa succederebbe? Ma questo è solo un esempio. Un altro “dettaglio“ che mi ha colpito è stata una gigantografia, in foto,  di due uomini che  si baciano in bocca all’ interno di una vetrina di un negozio di ottica. Adesso, io e mia sorella abbiamo apprezzato un’ apertura mentale di questa comunità nordeuropea rispetto ad un modello culturale interiorizzato in riferimento  non tanto all’ omosessualità , quanto al concetto di amore e attrazione, raccontabile e reso condivisibile  tranquillamente attraverso una foto dove sono due uomini a baciarsi e ad essere attratti l’ uno dall’ altro, per pubblicizzare un prodotto. Ora in Italia, un ‘ immagine del genere avrebbe acceso infiniti  dibattiti, sterili e meno sterili, pertinenti o non… sarebbe stata ancora una volta trattata o come una pubblicità progresso o come l’ ennesima provocazione per alzare polveroni stantii e vecchi. Per questo, quando l’ ho vista non  ho potuto fare a meno di sorprendermi per tanta freschezza e normalità che sapeva emanare. E proprio per questo ne ho parlato a lungo con Fiore. Per dire che secondo me, mettendo da parte per un momento il Vaticano e la Chiesa, in Italia ci sono tante persone che per motivi anagrafici, poca istruzione, poca cultura, poco confronto serio su modelli sociali altri cresciuti negli ultimi decenni, nonchè per la chiusura e la piccolezza anche “spaziale“ di tante provincie disseminate nel territorio in luoghi impervi e isolati, ecco ci sono queste tante persone e ristrette comunità  che non possono essere veramente toccate e coinvolte in questa trasformazione profonda e necessaria. Tutto ciò non vuole giustificare l’ arretratezza ma quanto meno, tale riflessione, mi aiuta ad analizzare le ragioni. Di sicuro dovremmo cercare il modo di far progredire la nostra società e i nostri modelli culturali, nonostante questa impasse, che piccola di certo non è.

Avviandoci verso la conclusione, mi viene da dire che la mia voglia di scrivere di questo viaggio vacanza  è stata motivata dal  grado di  benessere con cui l’ ho vissuta, grazie a Fiore, ai suoi ritmi che hanno incrociato i miei, al tanto divertimento e alle tante risate che ci siamo fatte, alle lunghe conversazioni avute con lei sui tanti livelli del viaggio condivisi insieme, al legame nostro, uscitone rafforzato da questa e da altre esperienze. Ma non solo la presenza di Fiore è stata motivo di questo mio benessere.  Anche tutti gli ostacoli che non ho dovuto subire nei luoghi che esploravo, l’ inesistenza di barriere architettoniche, le strade larghe e accessibili a tutti, la vista di tante persone con disabilità padroni dei loro spazi e a loro agio in ogni situazione; e poi le belle persone incontrate in tutte le occasioni di visita, le conversazioni piacevoli, la gentilezza avuta nei miei confronti e rispetto alle mie difficoltà. A tale proposito, durante la vacanza, mi è venuto in mente la triste esperienza che ho avuto in un Centro Euronics quando,  stanca della lunga attesa in piedi, chiese ad una signora se potevo per cortesia passare avanti, evitando di stancarmi ancora e lei che mi risponde “Non vedo perché dovrei“. Io ho cercato una risposta che non attirasse inutili pietismi, ma tanto di sicuro lei non era il tipo. Con decisione, le ho solo motivato la mia esigenza dicendo: “Perché mi stanco a stare in piedi…“; ma poi non lo poteva capire da sola? Comunque era ben lontano da questo, visto che, con aria seccata, mi ha consigliato di chiederlo ad un signore davanti a lei, il quale, con aria altrettanto infastidita mi ha detto “Vabbè passi“. Ho pagato in fretta e ho lasciato il negozio e tutto il resto alle mie spalle, evitando ringraziamenti perché proprio non ce n’ era motivo. Ma tutto questo mi è venuto in mente mentre stavo fortunatamente nel mio benessere e in luoghi civili e meravigliosi, come tutto quello che vi ho raccontato.

Dunque la compagnia giusta, l’ accoglienza di chi ti ospita contribuiscono a trovare e a ricordare la bellezza delle cose che si incontrano, durante i nostri viaggi. Quindi, cercate di trovare sempre le compagnie ideali, cercando di informarvi prima sui tanti livelli che rendono memorabile – in senso positivo – anche la vacanza di una persona con disabilità . Vi segnalo due siti che si occupano proprio di questo, cioè di turismo sostenibile e disabilità:

  http://www.diversamenteagibile.it/   (collegato a Trivago)

 http://www.handysuperabile.org/chi-siamo/handy-superabile/   (associazione onlus).

Inoltre, per lasciarci con un sorriso e una speranza posto il video di Iacopo Melio e Lorenzo Baglioni, che sulla musica di “Vengo anch’ io, no tu no“ di Jannacci, costruiscono un testo geniale e divertente per denunciare l’ inadeguatezza del nostro Paese di fronte ai luoghi eternamente  irraggiungibili dalle persone disabili, che sia uno stadio o un appartamento di un amico.

https://www.youtube.com/watch?v=HtuMELyRVwk

 

 

 

 

 

 

 

 

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Un’insolita giornata

Quella mattina ci siamo svegliate alle sei: dovevamo prendere  il treno dalla stazione di Roma Termini per Bolzano, alle nove circa, eravamo io nonna e quattro valige. Quello era solo in bagaglio a mano perché nonna aveva previdentemente spedito due bauli enormi e pieni zeppi di vestiti tramite corriere. Nonna è sempre previdente, aveva anche richiesto il servizio assistenza disabili che è attivo ed efficiente in tutte le stazioni e mi hanno portato con una piccola vettura elettrica, dal parcheggio fino al treno.
Il viaggio era cominciato nel migliore dei modi.
Verso mezzogiorno ci siamo alzate: volevamo raggiungere il vagone ristorante, ma non raggiungemmo nessun ristorante quel giorno!
Camminavo sottobraccio a nonna; fatalità volle che mentre passavamo da un vagone all altro, entrando nella stazione di Bologna, il treno fece una frenata un po’ brusca, nonna cadde all’indietro trascinandomi per terra. Io non mi sono fatta niente ma nonna sbatté la testa contro la parete del treno, facendo un rumore sordo fortissimo, sembrava il rumore di una palla ti legno molto pesante scagliata contro la parete. Dei signori accorsero, ci fecero sedere sulle prime due poltrone del vagone. Nonna si lamentava, diceva: “Che male, che male, mi fa male la testa, ho la nausea“. Io ero preoccupata ma non troppo: ho dato tante capocciate come quella, lo so che fa male, ma per me non è mai stato pericoloso. Però in quel momento non ho pensato che nonna ha qualche anno più di me e che alla sua età, per una botta in testa ci possono essere delle conseguenze. Non l’ho pensato perché non reputo mia nonna “una persona anziana“ e questo mio atteggiamento mi viene sempre confermato quando lei parla con le persone e dice: “indovini quanti anni ho?“ e loro rispondono titubanti “ma no lo so, sessantacinque, forse settanta“, lei con voce sicura e divertita risponde “ce ne ho ottantuno!“ restano tutti sbigottiti e le fanno i complimenti.
Tornando a quei minuti dopo la caduta, una dottoressa che stava andando in vacanza in montagna come noi, raggiunse subito nonna li senti il polso e decise che era meglio chiamare autoambulanza e mandarci al pronto soccorso di Bologna.
In un’ora che il treno dovette stare fermo aspettando l’autoambulanza, intorno a nonna si creò un piccola folla: seduta accanto a lei, c’ero io spaventata, le tenevo la mano come se la mia mano la potesse curarla Poi c’erano la dottoressa, tre poliziotti e gli infermieri dell’ambulanza e altri due o tre passeggeri del treno. Nonna diede subito le sue generalità e precisò “non sono svenuta e sono lucida, anche adesso ricordo tutto, vedete come parlo bene, sto bene.“ “si signora“ disse la dottoressa “ma le consigli di andare a farsi una tac“ “si, si ha ragione, si scambi i numeri di cellulare con mia nipote così stasera ci sentiamo“.
Gli infermieri misero nonna sulla barella e le “disse mia nipote viene con me, non voglio assolutamente che mi separate da lei“ “certo signora, non si preoccupi, la ragazza sta con lei“. La barella scese dal treno e nonna chiese “Marzia dove sei, Marzia“ “eccomi nonna sto scendendo stai tranquilla“. Entrammo in autoambulanza, ero euforica: “è la prima volta che vado i autoambulanza, e per fortuna non hai qualcosa di grave“ nonna sorrise e disse “sei proprio matta“. “Però la sirena è spenta“ mi rivolsi all’infermiere “si potrebbe accendere?“ Mi accontentò subito.
Arrivammo al pronto soccorso, era l’una e mezza. Misero nonna su un’altra barella ed io mi ritrovai seduta accanto a lei su una sedia a rotelle. Nonna aveva un collare rigido che le immobilizzava il collo, poteva solo guardare il soffitto. Con la mano teneva stretta la mia sedia a rotelle; come se io potessi scappare…
Non sapevo che fare, mi infastidiva stare sulla sedia a rotelle: vorrei alzarmi e sgranchirmi le gambe ma non posso, magari impiccio. Stavo pensando queste cose quando chiesi a nonna: “Vuoi che avverto io nonno e mamma?“ lei ci pensò a lungo prima di rispondere. Mi guardai attorno, eravamo in un lungo corridoio; le pareti e le tante tendine che chiudevano le sale visite erano giallo chiaro. Sulle tante barelle c’erano per lo più anziani con flebo o bombole di ossigeno. Accanto ad ogni barella c’era un parente in piedi che aspettava il medico. “No Marzia, è inutile dirglielo tanto ci risponderanno che siamo due pazze e che non possiamo più viaggiare da sole. Non chiamiamo nessuno, tu che ne pensi?“ “è giusto, tanto non sono i tipi che prendono e partono per venire ad aiutarci, è meglio non dire niente.“
Le ore trascorsero lentissimamente nell’attesa della tac, la visita del medico di base e dell’ortopedico, io guardavo spesso le lancette di un piccolo orologio a muro non si muoveva quasi per niente, mi sembrava la moviola di un film americano, forse mi sentivo catapultata in “ER medici in prima linea“. In quell’ospedale la stanchezza, al contrario dello scorrere del tempo, si faceva sentire benissimo ed arrivava sempre più veloce.
Il pomeriggio nonna fece le due visite e la tac a distanza di ore una dall’altra. Eravamo entrambe a digiuno: nonna non poteva mangiare ed io non avevo fame, chiesi solo l’acqua ad un’infermiera, mi portò un bottiglia bella fresca: “Marzia non vuoi un panino“ “no nonna, non ho fame“ “ ok lasciamo stare tanto chi ti accompagna al bar“ “appunto, mangerò questa sera, poi ho lo stomaco chiuso adesso mi basta l’acqua“.
Poco dopo dissi: “nonna non mi sento bene, ho la pressione sicuramente troppo bassa“ “aspetta, cerco nella borsa una bustina di zucchero,“ “ dai nonna sbrigati mi sento male“ “stai calma, eccola questa è l’ultima“. Non feci a tempo a metterla sotto la lingua perché persi i sensi.
Quando mi svegliai ero su una barella accanto alla barella di nonna e dall’altra parte un’infermiera che mi chiedeva come mi sentivo, li risposi che ero stanche e che finalmente potevo stare un po’ distesa. “Riposati“ disse lei “nella flebo ci sono zuccheri e sali minerali, durerà meno di venti minuti, quando sarà finita vi dimettiamo“. “Ho capito, la ringrazio“.
Guardai nonna e le chiesi “ma dove dormiremo questa notte?“ “eh già! Io avevo un’ amica a Bologna ma non ho il numero con me “ “aspetta nonna, il mio amico Luca è stato qui per lavoro lo posso chiamare e chiedere se conosce un albergo qui vicino“. Lo chiamai gli spiegai in due parole l’accaduto e gli chiesi se ci sapeva consigliare un hotel nella zona dell’ospedale. “Ok, richiamami tra dieci minuti che lo cerco su internet“ Lo richiamai mi diede l’indirizzo dove passammo la notte. “e pensare che dovevamo essere già in montagna, invece siamo qui su due barelle stremate dalla stanchezza“ gli dissi ridendo. “Mi dispiace, se ti serve qualche altra cosa non esitare a chiamarmi e comunque tiemmi informato“. Lo ringraziai e le salutai.
Alle otto uscimmo dall’ospedale. L’aria era rovente. Noi eravamo pallide, sporche e cariche di borse. Chiamammo un taxi che ci portò in uno squallido e piccolo hotel.
Per cena c’erano solo piatti freddi, non mangiammo quasi niente. Nonna prenotò una bella macchina con autista per la mattina dopo, ci mettemmo subito a dormire.
Sotto le coperte ripensai alla caduta, alla giornata in ospedale e all’autoambulanza. Pensai a nonna a quello che sarebbe potuto accadere. Tutto è bene quel che finisce bene mi dissi sottovoce, tra un Padre Nostro e un’Ave Maria. La stanza era già buia, c’era silenzio, sapevo che anche nonna stava pregando. Anche lei stava sicuramente ripensando a tutta la giornata e come me ringraziava il Signore e avrà pensato che era passato tutto anche se eravamo sole io e lei a cinquecento chilometri da casa e dal resto della famiglia, eravamo riuscite a cavarcela ed anche se si sentiva stanca e stordita mi disse all’orecchio “dormiamo tranquille, tanto dalla tac non si vede nulla di anomalo, hai capito Marzia?“ le strinsi la mano e dissi un flebile “si“.
La mattina alle otto abbiamo ripreso le nostre valige a deposito bagagli della stazione di Bologna e ripartimmo per la nostra vacanza in montagna.

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Avanti il prossimo

 racconto della redattrice

È successo in un attimo. Era un pomeriggio di novembre del 2006, ero passata per quell’incrocio miliardi di volte. Quel giorno avevo fretta e poi c’era quel cartello “dare precedenza“. Ho rallentato, ma avevo un appuntamento ed era già tardi. Sono ripartita, il sole mi accecava, e poi un gran botto. Ho frenato terrorizzata, non ero neanche arrivata a metà incrocio che quell’urto mi fece ritrovare ferma col muso della mia Nissan Micra verso destra. Vidi subito l’altra macchina con la quale mi ero scontrata e scoppiai a piangere ed imprecare.
Sul posto c’era già una piccola folla, un signore mi chiese: “Ti sei fatta male?“ “No, sto bene“ “Piangi perché ti fa male il collo?“ “No, non mi sono fatta niente ma ho paura, cos’è successo?“  gli chiesi mentre tiravo fuori il cellulare dalla borsa. “L’incidente non è grave, non ti preoccupare“. Feci il numero di nonna che mi stava aspettando a viale Mazzini. “Pronto, nonna?“ “Marzia perché piangi? Dove sei? Cosa è successo?“. Ed io: “Ho avuto un incidente, non lo so, vieni qui, ho paura“. “Un incidente! Come? Non capisco se piangi? C’è qualcuno lì con te? Passami qualcuno“. Passai il telefono ad un signore, mentre un’altra persona mi fece scendere dall’auto.
Il conducente dell’altra macchina era seduto per terra, stava parlando e non vidi traccia di sangue. Mi fecero sedere al bar e mi portarono un bicchier d’acqua. Sul luogo dell’incidente arrivarono, in contemporanea, l’ autoambulanza ed i vigile e subito dopo arrivò nonna: mi aveva raggiunto in un tempo da record. Un vigile fece il verbale ed io lo firmai. Le macchine furono portate via dal carratrezzi, il  conducende dell’atra auto andò all’ospedale con autoambulanza, gli faceva male una gamba.  Nonna mi riaccompagno a casa. Non era arrabbiata: “Chi non fa non sbaglia, cara Marzia“ mi diceva per consolarmi. “Ora fatti fare una camomilla, lavati e mettiti sul letto“.
Dopo aver seguito i suoi consigli, chiamai mamma e le raccontai l’accaduto; ci chiedevamo se mi avrebbero sospeso la patente o se poteva risolversi tutto con una multa salata. Secondo noi, ingenue, me la sarei cavata con una multa e cinque punti in meno. In realtà arrivò subito la multa e mi scalarono i punti di guida (non mi ricordo quanti me ne tolsero di preciso), ma questo era solo l’inizio di una vicenda ben più lunga e sofferta.
La macchina era da rottamare ed io posso guidare solo la mia auto perché ha il cambio automatico e una modifica al volante. Pensavo che il tutto si sarebbe risolta nel giro di pochi mesi, il tempo di acquistare una nova macchina e fare il corso teorico a scuola guida, indispensabile per riprendere i punti della patente. Mai avrei pensato che sarei rimasta per un anno e mezzo senza poter guidare!
Un maledetto giorno, mentre ero in giro usando il taxi, persi la patente: me ne accorsi solo la sera, mentre pagavo una pizza insieme a un mio amico. “Cavolo, dov’è la patente? La tengo sempre qui accanto ai soldi!“. “Guarda nella borsa“ mi disse lui. “Aspetta, tiro fuori tutto, no, non c’è!“. La cercammo tutta la sera, senza trovarla: l’unica spiegazione era che l’avevo persa quel pomeriggio chissà dove.
Il giorno dopo  feci la denuncia di smarrimento mi diedero un foglio di giuda provvisorio.
Passarono pochi giorni, quando nonna trovò una Micra usata, che sembrava in buone condizione e dopo una consultazione famigliare tra me, nonna, mamma e nonno, me la comprarono. Grazie alla macchina usata, che quindi arrivò senza lunghe attese,  ripresi a guidare  fino allo scadere del foglio provvisorio.  In questura mi avevano spiegato che allo scadere dei sessanta giorni il foglio non era più  valido e dura solo sessanta giorni perché perché per rinnovare una patente per non disabili non ci vuole tanto tempo.
Peccato che io dovevo aspettare, gli esami per le patenti speciali si fanno alla motorizzazione solo il primo lunedì del mese, mentre gli esami “normali“ si tengono ogni settimana. Con questi tempi era impossibile non ritrovarmi col foglio provvisorio scaduto, quindi di nuovo senza poter guidare.
Per mesi e mesi ho vissuto molto più in casa, costretta  a dover chiedere troppo spesso “Per piacere, domani ho questo impegno, mi puoi accompagnare?“. dovevo domandare a mamma, nonna, un amico o un taxi per andare all’università ed anche per fare la spesa o in farmacia e tutte le commissioni più ordinarie. Era come quando ero minorenne e trascorrevo le mie giornate tra scuola, casa ed il fine settimana al cinema.
“Non è possibile, ho ventiquattro anni, negli ultimi cinque anni ho imparato a guidare in maniera sempre più sicura, ho imparato ad attraversare le strade anche quelle più trafficate, ho imparato ad entrare in un negozio e a fare un acquisto senza rompere nulla, ed adesso non posso più fare niente da sola“.
Cominciai a chiamare sempre più spesso la scuola guida dove avevo preso la patente. Mi dissero che era inutile fare il corso per riprendere i punti dal momento che dovevo rifare tutto da capo: visita medica, esame orale e teorico. Era questa la trafila che mi aspettava!  Riuscii ad avere l’appuntamento per la visita medica di lì a breve e la passai subito. Per verbalizzarne il risultato, l’ingegnere voleva vedere la mia patente. “Non ce l’ho, l’ho smarrita“ dissi. “Allora non posso fare niente per te. Avanti il prossimo“. “Ma che dice?“ lo attaccammo io e nonna “Ho la denuncia di smarrimento, mi hanno detto che basta questa per la visita medica, lo verbalizzi, la prego“. Rispose: “Uffa, perché non l’avete detto subito? Ecco qua la firma che vi serve. Avanti il prossimo, chi è il prossimo?“.
“Nonna“ le dissi appena uscita dal palazzo squallido e grigio della commissione medica “è inutile che ci arrabbiamo e ci rammarichiamo, tanto tutte le cose burocratiche vanno così“. “Hai ragione Marzia, è tutto faticoso in questo mondo. Vieni a pranzo a casa mia così se ci va il pomeriggio usciamo“. “Va bene nonna, andiamo“.
Passai tanti e tanti pomeriggi a casa sua, perché il più delle volte  era lei che mi accompagnava nei posti che dovevo o volevo raggiungere. Di rado mi ha detto “No, non ce la faccio, ho ottantuno anni, ti chiamo un taxi o lo chiedi a tua madre“. Quando non stavo da lei, rimanevo a casa mia al computer, sui libri o con la tv. Col passare dei mesi mi sentivo meno sicura nel camminare e cadevo sempre più spesso, ma per fortuna anche quando  cado è molto raro che mi faccio male.
Quell’estate, andai al mare, guardavo la gente in bicicletta, sui motorini o sui pattini; pensavo che a diciott’anni e pochi mesi guidavo già  e sono sempre andata in giro per Roma senza problemi. Addirittura, ancora prima, dai miei  quattordici ai diciotto anni usavo un motorino elettrico a quattro ruote  che mi permetteva di girare in lungo ed in largo nella pineta di Punta Ala, dove non c’erano molte macchine, a Roma non lo portavo perchè era troppo lento e pericoloso, poi lo regalai la prima estate che presi la patente.  Ma non mi sarei mai immaginata di dover vivere un’avventura tanto assurda come quella di trascorrere un  anno e mezzo senza poter guidare.
I primi di settembre nonna richiamò Serena, la segretaria della scuola guida, una delle poche scuole in tutta Roma ad avere le macchine con le modifiche per persone disabili. Serena spiegò a nonna che alla motorizzazione c’erano degli scioperi e che quindi tutti gli esami (per disabili e non) erano stati posticipati. “Dovete aspettare“ ci disse “vi chiamo io appena questa situazione si smuove un po’“.
Due mesi dopo ci chiamò e ci disse che le proteste degli ingegneri stavano diminuendo, ma Mattia, il mio istruttore di scuola giuda sconsigliava di andare. Mi arrabbiai e dissi che volevo fare un tentativo. Il lunedì seguenti mi svegliai alle sei, alle otto, ero davanti al cancello della motorizzazione con la mia “seconda Micra“. Era un mattino nebbioso, la luce biancastra del sole  filtrava a fatica, ai lati del piazzale c’erano bottiglie rotte, bicchieri di plastica e sacchi neri d’immondizia. Alle otto e mezza circa, arrivo Mattia e  si aprì il cancello. “Ciao Marzia, ho detto anche a tua nonna che secondo me è stato inutile venire oggi.“ Risposi “Ciao, ma ora siamo qui, facciamo almeno un tentativo!?! Dai ti prego“ “Va bene, aspetta qui vado dentro a vedere“. Al suo ritorno, la conferma che temevo di sentire. Io ed il mio accompagnatore potevamo tornare a casa e ad attendere il lunedì del mese seguente.
Il mese seguente la motorizzazione era aperta. Ricordo che stavo seduta in sala d’attesa quando arrivò l’ingegnere, io mandai un messaggio ad un mio amico dicendogli “sono dentro la motorizzazione, finalmente, sto aspettando di fare  l’esame, appena ho fatto ti chiamo“. Lo inviai col cellulare e contemporaneamente l’ ingegnere annunciò: “oggi facciamo solo gli esami delle patenti, chi deve fare revisione patente può tornare la volta prossima“. Non c’era nulla da fare, mi riavviai a casa, col mio accompagnatore. Ed io che mi immaginavo che quel giorno avrei fatto gli untimi chilometri della strada di casa portando io la mia Micra.
Dalla  macchina chiamai il mio amico e nonna; dicemmo che era quasi comico, che era proprio iella; costatammo che tutto quello che mi stava accadendo era al di sopra di ogni immaginazione. “Si è assurdo,“ dissi in tutt’e due le telefonate “ancora non è finita quest’avventura, ci dovrò tornare un’altra volta tra un mese“.
Arrivai a casa mia mangiai un panino e feci una lunga  dormita tanto non avevo in programma di uscire con qualcuno.
Trascorsi un  altro mese, stando molto tempo dentro casa. Meno uscivo e meno avevo voglia di uscire; è brutto a  dirsi ma  mi è successo proprio così, anche perchè se esco a piedi, posso raggiungere solo il bar ed il giornalaio.
Non avevo neanche bisogno di uscire perché se mi serviva qualcosa delegavo gli altri o dovevo per forza farmi accompagnare e questo era frustrante. Il computer potevo usarlo dal mio salotto, senza dover chiedere niente a nessuno e così passavo molto tempo a scrivere e in internet.
La tersa  volta che tornai alla motorizzazione potei finalmente sostenere  l’esame pratico.
Guidai per venti minuti anche un tratto di Laurentina: una strada a scorrimento veloce. Mi sentivo sicura, come se il periodo di stasi non l’avessi mai vissuto. Quando tornai al parcheggio l’ingegnere firmò un foglio e dopo essere già sceso disse  a Mattia: “promossa“ e se ne andò. Guardai Mattia con occhi interrogativi ed impauriti, mi fece “ok“ con i pollici feci un lungo respiro di sollievo, chiamai mamma e nonna e urlando dissi “ce l’ho fatta, è finita,“ “oh finamente“ risposero loro con voce mista tra riso e pianto. Conclusi la telefonata dicendo: “stasera venite a cena da me che festeggiamo“.
La sera cenammo col pesce, vino e spumante, la vicenda ci sembrava un brutto ricordo.
La patente mi arrivò a metà maggio 2007, dopo un mese e mezzo dall’esame pratico; questo perchè gli uffici addetti alle patenti “speciali“ hanno poco personale e troppe pratiche da sbrigare ed i tempi sono esasperanti.
Il giorno che presi in mano il mio nuovo documento, abbraccia nonna forte forte. La riaccompagnai a casa sua e ritornai a casa da sola. Ricominciai da quel giorno a condurre la mia vita di sempre, fatta da università, spesucce, uscite con mamma nonna ed amici, ansi spesso sono io che do’ un passaggio a loro.

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UNO SPECCHIO DIFETTOSO

ESERCIZI DI SCRITTURA FATTI PER IL LABORATORIO MENSILE DELL’ASSOCIAZIONE CULTURALE “BOMBA CARTA“

 racconto della redattrice.

Mi trovavo nel giardino dell’università, avevo appena finito le lezioni. Da lontano vidi una persona di spalle, la notai perché camminava male, feci più attenzione; camminava proprio come me. Stava andando al bar. Accelerai il passo ed entrai anch’io. C’era tanta gente dopo poco l’ho riconosciuta. Era di spalle. Aveva i capelli arruffati, una maglietta, dei jeans consumati e un grossa bisaccia piena di libri di studio: perfetta moda anni 70-pensai- quella che non ho mai seguito-.
Sono riuscita ad avvicinarmi a lei piegando le ginocchia e facendomi lentamente spazio per camminare. Non è facile camminare in questo modo ma funziona sempre!
Beveva un cappuccino usando la cannuccia mentre con le mani e gli avambracci, si aggrappava al bancone. Finalmente le misi una mano sulla spalla, ci guardammo in faccia con stupore: eravamo uguali. Qualche secondo di silenzio poi lei accenna una rissata ed io:
– ciao, come ti chiami?
– Marzia.
– mi prendi in giro?
– Perché?
– anch’io mi chiamo Marzia.
Bevve un sorso del cappuccino, poi con calma mi disse:
-senti, perché non ci sediamo su una panchina e tentiamo di capirci qualche cosa.
– buon’idea.
Ci sedemmo all’ombra di un grande albero pieno di fiori, d’improvviso mi sembrò che in tutta la facoltà c’eravamo solo io e lei, o forse dovrei dire solo io.
Ripresi a parlare
-non ti chiederò come mai cammini così: scommetto che anche tu, quando sei nata non hai cominciato subito a respirare…
-già.
-quindi hai una lesione celebrare
-proprio cosi.
Rispose lei senza nessuna espressione, come se la cosa non la riguardasse.
-bene allora parliamo d’altro; immagino che stai al secondo anno di scienze dell’educazione.
Lei ebbe uno scatto che le coinvolse tutto il corpo, poi esclamò:-no sono al terzo. Come è possibile, allora non siamo uguali.
Si bloccò, non sapeva più che dire, ma mi fissava. Anch’io per qualche instante me ne stetti in silenzio poi ripresi
-calma, calma, io sono indietro perché mi sono fermata un anno per digerire l’esperienza della scuola privata.
-“scuola privata“ disse con tono deciso, mi fa ribrezzo soltanto la parola.
– a chi lo dici!
– fin da piccola avevo delle idee ben precise: dalla finestra di camera mia vedevo le bambine che uscivano da un asilo di suore, avevano tutte la gonna a pieghe e i cappelli legati. Mi facevano tanto ridere. Crescendo poi, ho continuato a seguire le mie idee. Sono arrivata per fino a scappare di casa. I miei genitori erano arrabbiatisi… dopo qualche giorno poi, lì ho chiamati e gli detto che sarei tornata solo se mi lasciva libera di fare le mie scelte. È passato del tempo e molti litigi, ma alla fine mi hanno detto “fa come ti pare, peggio per te, la vita è tua!“
Rimasi a pensare, eravamo uguali, ma in fondo tanto diverse. Chi era lei, perché mi raccontava, le sue cose.
Comunque le chiesi:
-non pensi che sia più giusto accettare i consigli degli altri e cercare di evitare i problemi invece di crearli?
– perché, per essere una “bambina ubbidiente“ e dire di si a tutto e tutti?
– che centra. Accettare i consigli significa essere intelligenti, pronti a farli propri per arricchirsi.
– anche fare delle scelte porta ad arricchirsi, bisogna essere intelligenti.
– anche, forse si, forse ai ragione tu… no ansi forse abbiamo ragione tutt’e due.
Avevo freddo: si era alzato il vento, ero stordita. Mi chiusi bene la giacca e faci un grande sbadiglio. Mi accorsi che nel giardino non c’era più nessuno, il cancello della facoltà si stava chiudendo; riuscii ad uscire appena in tempo.
Tornando a casa ripensavo a quella giornata, ricordavo di aver seguito le lezioni, ma non sapevo di quali materie; ricordavo di essere stata al bar, ma non sapevo cosa avevo mangiato; ricordavo di aver parlato con qualcuno, ero sicura di aver parlato con qualcuno, ma non ricordavo nient’altro.
-non vedo l’ora di arrivare a casa sono stanca e ho fame.

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L’AMERICA

 racconto della redattrice.

Dalla strada si vede un grande cancello nero, dopo aver citofonato il cancello si apre automaticamente, come per magia, senza che nessuno chieda “chi è?“.
Superato un piccolo ingresso senza finestre, illuminato dalla fioca luce di un’ abatjour, si entra in un’unica stanza molto grande, il pavimento è formato da mattonelle marroni, lucide. Vi si accede da un piccolo portone nascosto, al piano terra; forse molti anni prima era una cantina della quale oggi rimane solo la forma. L’arredamento è antico e curato nei particolari: sulla parete più lunga c’è una libreria con molti volumi logorati dal tempo. Di fonte, tra due finestre che lasciano entrare molta luce c’è un mobile nero moderno con due grandi cassetti. E’ l’unico particolare che si differenziava dal resto della stanza, ma non ci sta male. Nell’angolo c’è una piccola scrivania, al centro un grandissimo tappeto ed infondo alla stanza c’è un divanetto che s’intona perfettamente al resto dell’arredamento.
Sopra disteso con la testa appoggiata su un grande cuscino c’è Luca, sta aspettando la sua psicologa che è uscita un momento.
capitava praticamente ad ogni seduta che Luca dovesse aspettare un po’ prima di poter cominciare. Quelle attese lo infastidivano: ogni volta che andava in quello studio non vedeva l’ora di cominciare a parlare. Aveva tantissime cose da raccontare, si sentiva intimamente capito da quella donna anche se si conoscevano solo da pochi mesi. Fin da piccolo aveva desiderato fare psicoanalisi, ma ogni volta che esprimeva quest’esigenza alla sua famiglia, rimaneva deluso: i suoi inventavano sempre qualche pretesto per respingere questa richiesta. Un giorno la famiglia si dovette ricredere: quell’estate Luca era scappato di casa e non aveva dato notizie alla famiglia per una settimana, fu proprio con questa stupida bravata che riuscì a manifestare il suo disagio. Così a settembre cominciò una lunga serie di rapidi colloqui con la dottoressa.
Mentre aspettava la psicologa, era assorto in mille pensieri che gli affollavano nella mente. Forse era a causa del suo rapporto con il padre che aveva fatto tante scelte più o meno consapevolmente. Neanche lui sapeva bene perché non aveva finito la scuola ed adesso viveva facendo qualche lavoretto e stando sempre insieme al suo gruppo d’amici. Praticamente viveva giorno e notte in compagnia di quei ragazzi che lo conoscevano meglio di chiunque altro e lo capivano perché, infondo anche loro non avevano ancora combinato nulla di buono nella vita.
Luca ripensava agli anni della sua infanzia quando dopo il divorzio dei suoi genitori era andato a vivere con suo padre perché la madre beveva e non aveva nessuna intenzione ad occuparsi del bambino, dopo il divorzio non aveva mai voluto passare del tempo col figlio. Al contrario lui e suo padre avevano un bellissimo rapporto, il padre era attento e affettuoso col bambino tutti i giorni lo accompagnava all’asilo e poi all’elementari. Quando avevano del tempo libero stavano sempre insieme. Nelle
belle giornate di primavera andavano spesso in campagna il padre lo portava a visitare posti interessanti e gli raccontava storie fantastiche su quelle campagne.
Col passare del tempo il rapporto tra padre e figlio si era rovinato: Luca amava profondamente suo padre, ma allo stesso tempo faceva di tutto per cercare di sottrarsi alle sue continue imposizioni. Non accettava che il padre lo costringesse a fare il liceo scientifico per poi farlo diventare un’importante medico come lui, lo vedeva come un rivale, non più come un compagno, così Luca era diventato un ragazzo ribelle. D’altro canto anche il padre era cambiato: pensava sempre più alla sua carriera e, forse senza rendersene conto, si stava allontanando dal figlio che per questo motivo cercava rifugio nei suoi amici.
Il rapporto tra i due si rovinò definitivamente il giorno in cui il padre ebbe un incarico importante per la propria carriera: doveva andare in un centro di ricerca in una famosa università americana. Era la meta che sognava ormai da molti anni, per la quale aveva fatto molti sacrifici. Di certo non ci avrebbe rinunciato per nessun motivo. Quando Luca ebbe la notizia fu felice: sapeva benissimo quello che significava per suo padre, poi era un occasione anche per lui: aveva sempre sognato di vivere in America; certamente quel paese avrebbe potuto offrigli molte più possibilità di quelle che avrebbe avuto rimanendo in Italia. Purtroppo il suo entusiasmo durò poco, ben presto si dovette svegliare da quel del sogno che lo vedeva felice in un college americano: il padre gli disse che sarebbe andato prima lui, e quando si era organizzato il lavoro e avrebbe trovato sistemazione in una villetta comoda per solo due persone Luca lo avrebbe raggiunto. Ingenuamente il ragazzo pensò che il padre stesse facendo la cosa più giusta per entrambi, credete che avesse accantonato i contrasti che avevano avuto negli ultimi anni e volesse recuperare quel tipo di rapporto che gli legava quando lui era piccolo.
Ben presto il padre partì; all’inizio e due si sentivano spesso Luca lo chiamava tutti i giorni: era impaziente di sentire la sua voce, di sapere come stava. Aveva calcolato che se lo chiamava subito dopo pranzo poteva dargli il buongiorno, lui aspettava quel momento con ansia: era contento di poter svegliare il padre raccontandogli quello che aveva fatto durante la mattina. Purtroppo con il passare del tempo cambiò tutto: il padre era troppo preso dalla sua vita, dal suo lavoro, la sua giornata era piena di impegni che proprio non aveva tempo per un figlio. I contatti telefonici divennero sempre più rari. Luca continuava a chiamarlo, ma le poche volte che riusciva a parlare con lui, si sentiva ripetere che non era il caso che lo raggiungesse, che era troppo impegnato nel suo lavoro ed altre scuse di questo cenere.
Luca non riusciva a rassegnarsi al fatto che il padre si era fatto una nuova vita e non voleva più saperne di lui. Col passare del tempo il ragazzo capì che lo stava perdendo per sempre, di lui li rimanevano solo dei ricordi come delle fotografie,
si ricordava chiaramente di quando il padre lo portò per la prima volta nell’ospedale dove lavorava, allora era molto piccolo, il padre lo prese in braccio e
lì fece visitare l’ospedale; si ricordava quei corridoi lunghissimi bianchi, illuminati da grosse lampade a neon e poi c’era quell’odore di disinfettante tipico degni ospedali.
ecco siamo arrivati, questa è la stanza dove lavora papà
quant’è piccola; che sono tutte queste cose?
Ti faccio vedere guarda, guarda qui dentro
È tutto rosso e sotto che una luce
Quello che vedi è un coccia di sangue ingrandita migliaia e migliaia di volte
Tu guardi questo quando sei a lavoro?
Anche, papà studia molte cose quando lavora, vieni, andiamo a visitare il resto del reparto.
Quando il padre gli presentò i suoi colleghi Luca rimase molto colpito dalla stima che avevano tutti gli altri medici per suo padre, lo descrivevano come un ottimo ricercatore ed una persona sempre attenta agli altri. Luca non riusciva a rassegnarsi si continuava a domandare com’era possibile che un uomo così stimato da tutti aveva rinunciato coscientemente ad un figlio.
Un giorno, dopo tanto tempo che Luca non riusciva ad avere notizie del padre, lo chiamò a casa quando oltre l’oceano erano le undici di sera; rispose una donna:

-hello
-emh pronto…
-si chi parla a quest’ora
-sono Luca
-Luca chi?
-Sono… vorrei parlare con il dottore
-Adesso non è in casa, siamo tornati questa mattina dal viaggio di nozze ed è già corso a studiare i suoi topi, comunque non lo troverà per parecchi giorni dice che è rimasto indietro con il lavoro, se vuole posso lasciarli un messaggio
Luca non rispose.
-pronto è ancora in linea?

Pochi istanti di silenzio, un tempo interminabile per Luca durante il quale sentì i batti del cuore rimbombarli velocissimi nel cervello, aveva gli occhi infuocati, un terribile ronzio nelle orecchie ed un nodo in gola che li impediva di respirare, li sembrava di avere la febbre a quaranta, improvvisamente si sentì un enorme vuoto all’altezza dello stomaco, era una sensazione sconosciuta, non si era mai sentito così neanche da piccolo quand’era malato e gli saliva improvvisamente la febbre. Riagganciò la cornetta, capì che il padre lo aveva cancellato per sempre dalla sua vita ed anche lui doveva fare la stessa cosa ma perché, pensò, infondo non glie l’ho
chiesto io di venire al mondo, fare un figlio non è un obbligo e neanche un passa tempo quindi poteva pensarci prima, perché si è stufato di me? Che cosa gli ho fatto?
Poco dopo la dottoressa entrò nella stanza, Luca le sorrise, fece un grande sbadiglio che lo aiutò ad uscire dal torpore datogli dalla concentrazione e cominciò a parlare. Quel giorno con l’aiuto della dottoressa, si rese conto che lui era molto più forte e maturo dei suoi genitori, in un certo senso era lui il padre dei suoi, doveva compatirli: non erano abbastanza forti per prendersi cura di lui; non erano pronti ad affrontare i problemi che Luca, come tutti i ragazzi al momento della crescita, gli aveva creato. Così tutti e due, se pur in maniera diversa avevano preferito fuggire: la madre aveva trovato rifugio nella sua depressione divenuta ormai cronica. Pensò che lui poteva fare ben poco per i suoi, loro ormai erano grandi, poteva solo compatirli per la loro immaturità. L’importante era che cominciasse a pensare al suo futuro, decise che avrebbe ricominciato a studiare per ottenere almeno il diploma, capì che non poteva continuare a vivere alla giornata insieme ai suoi amici, ma che doveva cominciare a costruirsi una sua indipendenza; questo era l’unico modo che aveva per affrontare la situazione.

                                             

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