La differenza tra nascere vivi e sopravvivere

Ci sono molti genitori di persone con vari tipi di disabilità che trovano nei figli motivo di andare avanti, creando Associazioni per dar loro e a tante altre persone un aiuto concreto. Molti familiari fanno ciò anche per sopperire agli aiuti irrisori che lo Stato offre alle persone non autosufficienti e alle loro famiglie.

Spesso è il nucleo familiare, o uno dei due genitori, che si adopera per il rafforzamento delle capacità residue o che vince la rassegnazione ai limiti imposti forse dalla biologia. Sempre invece per problematiche o incapacità dei familiari, alcune persone con disabilità si ritrovano nelle tristi situazioni di qualche istituto fatiscente. Ho conosciuto da vicino queste realtà poco decorose di un importante istituto e di una casa-famiglia nel corso di due diversi tirocini…

Per fortuna ci sono molti genitori che, come dicevo, creano Associazioni e realtà di cohousing [residenzialità condivisa, N.d.R.], ciò comporta una speranza nel “Durante Noi” e per temere di meno il “Dopo di Noi”. Tutto queste non vuol dire che per tali famiglie la nascita di un bimbo o di una bimba con disabilità non determini rotture, sensi di colpa, paure e frustrazioni, ma alcune persone sono in grado di andare avanti e, per dirla in termini pedagogici, trovano la forza di trasformare un handicap in una risorsa, reagendo bene e potenziando al massimo le capacità residue del bambino che da grande dovrà e potrà, se pur con non poca fatica, trovare il proprio posto nel mondo.
C’è anche da considerare che i figli arrivano ad un certo punto della vita dei genitori che fino a quel momento era stata “normale”. Spesso, quindi, la vita di quei figli comincia nel peggiore dei modi e lascia delle conseguenze che si possono di certo migliorare, ma che non si potranno mai cancellare del tutto.

La mia nascita – avvenuta per sbaglio o per caso – è stato l’input di infinite reazioni e negazioni nei mie genitori e non solo.
In psicologia la negazione è diversa dalla rimozione, risultando essere «un meccanismo di difesa con il quale la mente si protegge da esperienze troppo dolorose, disconoscendo la portata affettiva o le conseguenze di quanto accaduto». Ecco, ad esempio, che mio padre ha trovato un “rifugio” in questo meccanismo e non è stato certo l’unico. Secondo l’AIGES (Associazione Italiana Genitori Separati), è ormai assodato che «dinanzi alla disabilità di un figlio molte famiglie si sgretolano. Non è una regola, ma si sa che purtroppo capita. Ovviamente, come per gli altri, anche i figli disabili soffrono e possono risentire della riorganizzazione della struttura familiare e delle relazioni che la rottura del rapporto sentimentale dei genitori comporta».
I figli, per altro, si possono abituare alla separazione e alla riorganizzazione dell’intera famiglia, mentre credo sia peggio vedere uno o entrambi i genitore insoddisfatti della loro vita e spesso questo costante malessere non è solo causato dalla disabilità del figlio/a e dalla separazione, ma alla lunga è l’assenza di un motivo costruttivo per essere appagati o per lo meno sereni, nel presente e in una prospettiva futura ad ampio raggio.
Purtroppo fare delle scelte sbagliate su persone e progetti a breve termine porta un sollievo effimero e di breve durata, ciò che vale per ogni persona. Ritengo infatti sia troppo facile “rinfacciare” periodicamente ai figli la loro disabilità,  la loro “condizione” e le loro scelte verso una maggiore autonomia e realizzazione.

Le mie scelte personali mi hanno portato ad avere un’autonomia, nonché a poter esercitare la professione che avevo sempre sognato e perseguito. C’è anche da sottolineare che la mia indipendenza ha tolto a molti il fatto di doversi occupare di me in modo giornaliero e costante in molte azioni quotidiane o il dover garantire o forse togliermi la fisioterapia e le visite specialistiche. Fortunatamente chi ha avuto una vita abbastanza positiva non si è mai sottratta e non si esime neanche oggi dall’aiutarmi.
Gli aiuti di chi ti vuole infinitamente bene vanno presi al volo, così come i consigli, il che non ci esonera dall’aiutarci da soli per migliorare in modo costruttivo il nostro stato. Non è facile per nessuno e ci sono sempre gli alti e bassi, i successi e soprattutto gli insuccessi, ma almeno, a volte… uno ci prova. Io sono la prima a cadere, rialzarsi per poi cadere di nuovo.

Gli anni della scuola sono stati per me i più duri, avevo solo obblighi; dopo la licenza liceale, ho fatto delle scelte d’autonomia, e sono sì stata aiutata, ma è stato un mio desiderio rendermi il più possibile autonoma. All’inizio ero spaesata, non è stato affatto semplice, come si potrebbe erroneamente pensare, ma sono andata avanti vero si miei obiettivi e con il tempo ho trovato la mia dimensione.
Si tratta di scelte che purtroppo mi vengono ciclicamente rinfacciate, senza pensare, come dicevo, che la mia autonomia ha tolto molti pesi agli altri i quali comunque – presi da tumulti e frustrazioni – non è detto che avrebbero continuato a farsene carico, dal momento che per varie vicende non erano più presenti come fino alla fine del mio ciclo nella scuola elementare.
Ora, a quasi vent’anni di distanza, le scelte che ho fatto le rifarei e ringrazio ad esempio mia sorella che mi capisce, mi aiuta e che è sempre pronte a condividere tante esperienze con me. Sarò inoltre sempre grata ai miei nonni che mi hanno spinta verso l’università e non  verso un tirocinio di lavoro presso una piccola biblioteca, la prima alternativa agli studi trovata poco dopo la maturità. Forse sarei stata una bibliotecaria a vita, un lavoro certo interessante e utile, ma non per me, che a quel tempo non avevo ancora le idee chiare sul mio futuro. Con certezza sapevo solo che volevo scrivere, ma per poter raccontare dovevo ancora fare tante esperienze.

I molti sacrifici degli anni scolastici sono serviti dunque a fare delle scelte e a diventare in parte quello che ho sempre sognato: una persona che grazie alla scrittura aiuta gli altri e ha trovato il proprio scopo sociale tramite varie forme di comunicazione.
Nella vita di mia madre, purtroppo c’è stata un’infinità di accadimenti negativi, da figlia lo riconosco e mi addolora, ma detto questo, non significa che possa pretendere da me cose troppo grandi per farmene carico. Mi dispiace anche che i suoi progetti siano sempre a breve termine e che, per questo, la sensazione di insoddisfazione, che talvolta io stessa provo, ritorni con un carico sempre più pesante e pressante.

Ci sono anche genitori che non hanno paura e che sono del tutto capaci di non disprezzare una situazione di “non normalità”. È il caso dello scrittore Luca Trapanese, single, cattolico, gay, che ha adottato Alba, una bambina con sindrome di Down, sottraendola a un destino di ospedale o di istituto, visto che la neonata era stata già rifiutata dalla madre biologica e da numerose famiglie affidatarie. In seguito Trapanese ha scritto un libro per raccontare la propria versione dei fatti e sfidare i pregiudizi.
Anche Carla e Sante Campion di Mediglia, hinterland milanese, genitori di Benedetta, hanno raccontato all’«Avvenire» che la malattia della figlia era più grande di loro, ma che non si sono arresi, superando via via lo scoramento e la ribellione per la condizione di grave disabilità della loro terza figlia, oggi trentenne.
Benedetta – così come la sottoscritta – è venuta alla luce dopo una gravidanza complicata. «Solo quando nostra figlia ha avuto 9 anni – hanno raccontato i genitori -, le è stata diagnosticata la sindrome di Wolf-Hirschhorn, una patologia genetica dovuta a una gravidanza sofferta, che comporta un importante ritardo della crescita, del linguaggio, con anomalie degli organi interni. Per noi genitori è stato difficile adeguarci a questa situazione e la voglia di ribellarci alla realtà era sempre in agguato. […] Siamo stati aiutati dai tanti amici […] e dai genitori dell’AISIWH (Associazione Italiana Sindrome di Wolf-Hirschhorn), che hanno contribuito a fondare. Oggi abbiamo superato questa difficoltà e siamo convinti che Benedetta è bellissima, irripetibile e preziosa».
Anche Carla e Sante, come me e Luca Trapanese, hanno trovato nella scrittura un antidoto al dolore. Oltre infatti a raccontare una storia, quella di una bambina e/o adolescente con disabilità e le relative vicende familiari, i libri Nata per te di Luca Trapanese [e Luca Mercadante, N.d.R.]Benedetta, una dolce avventura di Carla e Sante Campion, e Nata viva della sottoscritta, cercano di essere di supporto non solo agli Autori e alle famiglie coinvolte nelle storie. L’intento è anche quello di aiutare altre famiglie affinché non ripetano gli stessi errori; o magari è solo un modo per sperare che la solitudine e il senso di colpa per non essere come si aspettano gli altri non invada chissà quante persone ancora.

Quanto al mio presente e al mio futuro, ho tanti altri sogni che riguardano la scrittura, la condivisione con gli altri e in modo particolare la condivisione di tanti progetti con mia sorella.
Se mi soffermo a riflettere sulle aspirazioni, sui successi e gli insuccessi non solo personali, trovo calzante e di buon auspicio una frase dello scrittore giapponese Daisaku Ikeda: «Proprio come un fiore sboccia dopo aver sopportato il rigido freddo invernale, un sogno può avverarsi solo se si è preparati a sopportare i tormenti che ne accompagnano la realizzazione e a compiere tutti gli sforzi necessari».
Mi sembra una giusta riflessione sia per chi nasce con uno “svantaggio” che per le persone “normali” che si scontrano con sofferenze e problemi imprevisti e insospettati.

Articolo pubblicato su Superando

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Genitori di ragazzi “speciali”: un’occasione per essere utili e fare rete

Quante associazioni conosco di genitori con figli disabili: “l’Associazione Risveglio onlus, Oltre lo Sguardo Onlus, l’Associazione figli inabili, Fede e Luce, Genitori tosti, A.ge.di: Associazione genitori di bambini ed adulti disabili…” Nate tutte dall’esigenza di non sentirsi soli con la propria storia e darsi da fare.

L’Associazione Risveglio Onlus, prende vita dalla speranza che da un brutto incidente automobilistico potesse derivare una rinascita per la famiglia colpita e per molte altre famiglie. Così con costanza e tenacia la storia non è rimasta nell’ambito domestico. È stato creato il Centro Adelphi, un centro diurno di neuro-riabilitazione integrata di eccellenza e Casa Iride: un nuovo modello sociale unico in Europa, per le persone delle fasi di coma e post-coma.

Di recente ho partecipato alla messa a vent’anni dell’incidente stradale. È stato emozionante sentire le parole del padre del ragazzo che è rimasto disabile dopo un periodo di coma, periodo nel quale quel padre si è chiesto cosa vuole il signore da me? Ecco la risposta appare chiara oggi vedendo i progressi del ragazzo e la nascita dell’associazione e dei due centri all’avanguardia.

Il padre, nel suo toccante discorso ha ringraziato i tanti amici che gli stanno accanto ed il figlio che continua ad insegnargli molto. Concetti semplici, ma che ricordano che anche noi dis-abili possiamo insegnare qualcosa, che non siamo solo la somma di brutti ricordi e di esperienze da non ripetere. Anche l’amicizia   è stata esaltata, una cosa semplice ma che spesso viene dopo la fretta, il lavoro, i vari doveri, il successo, il non rimanere per ultimo e tagliato fuori.

L’esempio dell’Associazione Risveglio Onlus non è l’unico nel suo genere,  i genitori di figli disabili sono tanti, a volte si diventa disabili e la famiglia si trasforma altre volte la vita può essere contrassegnata fin dalla sua origine. A questo proposito riporto le parole di un articolo pubblicato sul sito dell’associazione Guarda con il Cuore Onlus: “La nascita di un figlio disabile lascia sempre una traccia e un senso di colpa. Magari a livello inconscio, ma pur presente. E questo condiziona l’atteggiamento di noi genitori nei confronti del piccolo”.  Detto ciò non è raro che i sensi di colpa e di inadeguatezza, passino da una generazione all’altra.

Nello stesso articolo, Michelle Diament noto giornalista americano, fratello di una persona con handicap, afferma che: “il modo con cui i genitori interagiscono ed educano i loro bambini disabili è direttamente legato a quanto poi questi saranno indipendenti, ma anche capaci di relazionarsi con gli altri, nella loro vita futura. In una analisi comparata degli studi esistenti che analizzano l’influenza della genitorialità sui bambini con bisogni speciali, i ricercatori hanno scoperto che quando le mamme e i papà adottano uno stile genitoriale positivo, i loro bambini acquistano più facilmente una maggiore indipendenza, facilità di esprimere emozioni e un temperamento più aperto.”

Certo non è semplice per nessuno crearsi una propria indipendenza, non avere rimpianti, non dare la colpa a qualcuno o semplicemente al fato per una serie di disgrazie, ma c’è chi trova la forza, l’interesse, sente la missione di fare qualcosa per se e per gli altri e chi questi interessi ed esigenze proprio non li sente.

La mamma di una bambina disabile si definisce felice anche se racconta: “mia figlia avrà sempre bisogno di me perché da sola non può fare nulla. Sono le sue gambe, le sue braccia e il suo pensiero. Sono la mamma di una bambina eternamente piccola ma con un corpo che la farà diventare adolescente e poi donna.

Ogni fase della crescita non è altro che un crudele segnale dei progressi che lei non ha raggiunto, non ha imparato a camminare, a parlare, a mangiare e non lo farà mai.

La mia bimba rimane piccola ma è grande e cambiare il pannolino a una ragazza non è la stessa cosa che farlo a chi ha le dimensioni di un neonato e sai che prima o poi non ne avrà più bisogno. (…)”.

A volte vedo più serenità di fronte ad una disabilità molto accentuata e ciò mi sembra un ossimoro, una cosa che nella sua complessità ha dell’enigmatico.

Oggi nell’era delle reti, dove abbondano le associazioni, i siti, i gruppi di sostegno… per persone e famiglie con bisogni speciali, dove ci sono  molti psicologi, medici e personale preparato per aiutare l’intero nucleo famigliare… è triste vedere la solitudine, il distacco, il disinteresse di quei genitori che si sentono le maggiori vittime anche nel confronto con le situazioni degli altri…  e si leccano le ferite senza riuscire ad affrontare le situazioni per essere d’aiuto a se stessi (prima di tutto) ed agli altri.

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Indivisibili, ma libere

sorelle

Il film Indivisibili di Edoardo De Angelis, con Marianna Fontana, Angela Fontana, Antonia Truppo, Massimiliano Rossi, Toni Laudadio è ispirato a due gemelle siamesi realmente vissute tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti, nella prima metà del 900.

Daisy e Viola invece sono nate a Castelvolturno. Unite fin dalla nascita all’altezza del bacino, non hanno organi in comune. Un’altra prerogativa le distingue dagli altri: le loro voci neomelodiche le fanno esibire ad ogni cerimonia del paese e dintorni, tanto da creare due star. Due persone quasi sante già in vita, in quanto toccare la loro menomazione, il loro punto di giuntura sembra di buon auspicio.

Le vicende narrate si snodano quando le due ragazze hanno compiuto la maggior età. Gli equilibri, sino a quel momento, si basavano sulle esibizioni delle gemelle come se fossero un fenomeno da baraccone. Ma che succede quando un medico dice loro che può dividerle? Ecco sulla scena rappresentato il profondo legame di due sorelle, sole di fronte alla possibilità di una vita normale. Per entrambe in fondo, ma apparentemente per una  più dell’altra, il desiderio di normalità è forte, la voglia  di magiare un gelato, viaggiare, ballare, bere vino senza temere che l’altra si ubriachi… fare l’amore. “Perché sono femmina”.

Nella realtà famigliare e sociale delle due protagoniste, come spesso avviene con le persone disabili, ruotano personaggi diversi con connotazioni molto forti, a tratti magistralmente esasperati in un crescendo  di patos. Il padre pieno di sensi di colpa che ripete, a se stesso e alla famiglia di volerle bene e di voler il massimo per le figlie. La madre che non riesce a proteggerle dal padre ma scappa… Gli zii che escono dal quadro famigliare, si dissociano dall’andarle a cercare e riportarle a casa quando le sorelle fuggono… Il parroco del paese che trova nell’handicap fisico un pretesto per ammaliare  le folle di fedeli e tenerle vicine ad una chiesa che si basa sui simboli.

Quante volte queste dinamiche famigliari si mettono in atto più o meno coscientemente di fronte al diverso, alla persona che risulta errata; per fortuna spesso sono proprio le sorelle ad accettarsi ed aiutarsi vicendevolmente. Forse il legame tra sorelle disabili e normali esula dal senso di colpa che troppo spesso, invade e si dilaga nei genitori, nei parenti e nel disabile stesso, come se fosse  indispensabile  dimostrare di essere bravo e adoperarsi, anche davanti ad un palese senso di rifiuto e di negazione.

Nel loro viaggio, le gemelle, ormai sole e presenti una per l’altra, chiederanno aiuto a persone poco raccomandabili. Veritiera la loro ingenuità, per due persone che fino a diciotto anni non hanno avuto neanche il cellulare, che si trasformerà in forza per entrambe.

Ma di chi si possono fidare? Daisy si vuole dividere, il motivo è semplice e veritiero, si innamora di un uomo che lavora in ambito musicale e le promette chissà cosa fin quando non si svela per quello che è realmente. La sorella più debole fino a quel momento, diventa la più forte salvando entrambe le ragazze. Ecco due facce della stessa medaglia che si sovrappongono, si scambiano i ruoli,  si rendono conto dei pericoli che ci sono fuori. 

La conquista della libertà però si rileva più complessa di come Daisy e Viola si aspettano, la corsa le sfianca e le ragazze sembrano ricadere nella rete del padre e del parroco, che le riportano a casa. Le due sorelle ancora fisicamente unite, sono in balia del padre sopraffatto dalla rete da lui stesso costruita per non perdere le ragazze e sfruttare al meglio le loro doti. La madre delle ragazze lo ha abbandonato, e lui  è l’unico rimasto per loro e con loro. Le prepara e le porta in processione, ma la crescita e il desiderio di libertà e normalità non può essere messo in trappola.

La pellicola dura 100 minuti durante i quali, lo spettatore è portato a ragionare sul senso del limite, sull’amore viscerale che però non impedisce di essere libere, di camminare con le proprie gambe pur capendo che la sorella è, e rimarrà, un pezzo importante della propria vita, tutto ciò con una colonna sonora sublime.

Indivisibili è un film sulla separazione e sul dolore che comporta. 
Traspare l’idea, che nella maggior parte dei casi, per crescere e rendersi autonomi per quanto possibile, bisogna mettersi in gioco e spesso soffrire.

Il regista Edoardo De Angelis, ci rivela:  “ho cercato un’immagine che rappresentasse al meglio questo concetto e l’ho trovata: due gemelle siamesi appena maggiorenni che scoprono di potersi dividere. Due ragazze attaccate per il bacino che, guardate singolarmente, dovevano essere belle per permettermi di realizzare quell’equilibrio tra attrazione e repulsione che è la linea guida estetica di ogni inquadratura che compongo.
Io vedo il mondo così: sempre in bilico tra la bellezza e la bruttezza. La frequentazione assidua di questo bilico mi ha portato ancora una volta a Castelvolturno. (…) Quel territorio è un simulacro straziato di una bellezza passata, materiale perfetto per costruire la gabbia dalla quale i miei uccellini vogliono disperatamente scappare. Il loro sogno è la normalità.”

Nella disperata ricerca della normalità, ammesso che quella di Daisy e Viola non lo sia, ci possiamo ritrovare un po’ tutti, sia come persone che vogliono raggiungere quella che è la vita adulta, sia desiderosi di una vita senza handicap inteso come impedimento/problema che porta a percepirci diversi, colpevoli… non degni di affetto e di essere apprezzati. Oggetto di discordie tra persone, famiglie e generazioni che si rapportano tra loro e con la disabilita in una gara estenuante a chi è più presente, più bravo, chi accetta la disabilità, chi lo fa a volte,  chi fa solo finta e chi fugge convinto di essere stato portato a farlo. Spesso in tutto ciò il problema sembra solo degli altri… come se la persona con disabilità non se ne accorga e non soffra per la sua condizione e quella di chi gli sta o gli dovrebbe stare accanto 

Tutto ciò impedisce, alle molte persone, coinvolte di rientrare nella classificazione positiva, rassicurante e ben accettata dalla società… di normalità.

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E se foste disabili?

 

“Provate a immaginarvi Disabili. Come cambierebbe la vostra vita? Riuscite a immaginarvi Disabili? Avreste voglia di raccontarvi? Tempo fa proposi alla mia rete LinkedIn di rispondere a una semplice domanda: «Come immaginereste la vostra vita lavorativa se diventaste Disabili non autosufficienti?». Il quesito l’ho poi reso più conciso ed è venuto fuori un bel punto di domanda: «Se diventassi Disabile anche io?», ovviamente siete voi che vi dovete rispondere in quanto io – come molti nostri lettori – sono già Disabile”.

Queste le parole di un giornalista che mi hanno aperto tutta una serie di riflessioni sulla mia situazione e i legami con il mondo dei normodotati che da sempre mi circonda.

La domanda era posta ai così detti normali e forse c’è stato stupore leggendo su Facebook la mia reazione. Tante volte ho sentito e sento come un rimprovero il fatto che io non mi sforzo di capire gli altri, e devo ammettere che per me gli altri oggi come oggi, si dividono in chi mi capisce al volo: senza bisogno di parlare, queste persone forse mi capiscono più di quanto mi capisco io stessa, poi c’è chi mi capisce con poche parole, chi mi capisce a volte, e chi proprio non vuole capire.

La mia vita è caratterizzata da un handicap motorio cominciato quando avevo la testa in questo strano mondo ed il corpo ancora al calduccio dentro il ventre di mia madre. Quindi ho avuto un trauma, mi è stato giustamente spiegato che questo fa la differenza tra me ed una persona che si è formata diversa fin dalle sue origini nel grembo materno. A quanto pare essere disabile a causa di un trauma (durante la nascita o in un qualsiasi momento della vita), fa una grande differenza. 

Tornando ad interrogarmi sul quesito del giornalista “provate a immaginarvi disabili. Come cambierebbe la vostra vita?“ Io da disabile penso che per alcune persone sarebbe una catastrofe. Più che la vita gli cambierebbe innanzi tutto il carattere… che già non è dei migliori senza l’aggravante di un handicap certificato e palese. Conosco persone così detti normodotati che si fanno problemi immensi per un non nulla… Allora se handicap è il termine inglese per indicare un problema queste persone hanno un handicap/problema. Forse è proprio per questo che si dice handicap cognitivo e non handicap mentale, o giustamente si specifica persona con disabilità fisica e/o cognitiva.

Tornando a me, alla mia disabilità e a quanto questa interferisca, o a me sembra che interferisca, tra me e gli altri; spesso gli altri preferiscono evitarti, non vederti perché sono o forse mi fanno sentire… colpevole di avere qualche esigenza in più perché sono disabile. Sono colpevole di essere disabile. Sembra come se al momento del parto qualcuno mi avesse chiesto:

-Senti un po’ ma tu come vuoi essere?

-Eih dici a me?

-Si!

-Ammazza cominciamo con le domande difficili!

– Aoh non ti lamentare: ne dovrai prendere tante altre di decisioni difficili… Beh allora? Si può sape’?

– Beh io vorrei essere diversa, muovermi in modo anarchico, con un bel handicap motorio… che dici di questa idea?

– Contenta te! Non ti faccio respirare per 5 minuti e sei a posto per tutta la vita!

-Ma perché mi trovo qui?

-Ahahah il destino a volte si diverte, ma non ti preoccupare capirai tante cose crescendo!

Mi sa che non è andata proprio così…!

Sono nata, crescita e tanta gente è fuggita da me, dal mio handicap e soprattutto ha preso le distanze, in vario modo, dalla mia famiglia. La serie qui sarebbe bella lunga… recenti, meno recenti, uomini soprattutto, ma a anche donne… persone importanti e meno importanti (a seconda del grado di parentela, affettività, conoscenti, insegnanti, persone che per fortuna appartengono al passato. Un passato che spero si riproponga il meno possibile…) Io li divido in ordine di importanza e cronologico, ma questa sono io…! Forse altri fanno ancora di tutta l’erba un fascio, e questo è un handicap/problema, qualcosa che toglie la serenità con se stessi, con me, con gli altri.

A volte io stessa devo capirmi, capire la realtà e prendere delle decisioni. In prima battuta sbaglio perché tendo a fare una scelta piuttosto che un’altra per compiacere l’altro poi con fatica emerge la mia decisione, e con il passare del tempo questa prende forma, per me e per chi non si sforza di capirmi.

L’altra mattina ho fatto un incubo: ero rifiutata da un uomo, ciò ha rovinato un momento importate e magico… proprio perché lui pensava “ah ma  è disabile” (il sogno era più lungo ma posso anche non dilungarmi.) Le cose brutte si ricordano di più, i brutti sogni rimangono impressi per giorni e giorni. Comunque faccio finta di niente “per far star bene gli altri”, per non litigare, e funziona! Si funziona ma solo per poco tempo…! Anche se dentro hai una rabbia che spacceresti il mondo, non si vede, e funziona fino ad un certo punto! Poi arriva un pretesto banale e esplodi come una bomba ad orologeria, o implodi da sola a casa come un palazzo che viene giù all’ improvviso.

Ma poi i traumi ce li hanno sempre di più gli altri, c’è chi dice: “Mi sono rotto di tutta la famiglia, mollo tutto e tutti perché non accetto la disabilità di Zoe.“ Oppure “Zoe vieni così chi ti accompagna mi da una mano… tanto tu non puoi!” Si però poi gli altri capiscono questo meccanismo e non va bene.

Poi capita che non posso guidare e ti aiutano a patto che lo sappiano tre, quattro giorni prima, se vuoi fare dei giri di punto in bianco rinunciaci! Oppure lo schiribbizzo di fare una commissione all’improvviso fattelo venire giorni prima in modo programmato, o se no cavatela da sola e pagati il taxi. Se non trovi il taxi ed hai un impegno… arrivi in ritardo!

Cito le parole di una persona da me molto stimata che ha provato a darmi delle risposte al mio post su Face-book: “qualsiasi disabilità è sì immaginabile, ma non la si può sperimentare; perchè la realtà e la vita ha senso solo se è vera; e la vita, qualsiasi essa sia, è bella e non la si può barattare con nessuna condizione di (dis)abilità. Zoe Rondini questo lo sa; e sulla sua “esperienza” ha scritto un libro fantastico “Nata Viva” che consiglio di leggere a tutti, abili e disabili, normodotati e superdotati, piccoli e grandi, maschi e femmine. Una lettura che farà ricredere chi è convinto che la (dis)abilità è… barattabile o, comunque, una condizione esistenziale di cui sbarazzarsi.”

È bello che tante persone da me stimate, tante scolaresche, alcuni professori universitari abbiano capito tanto di me con la lettura di quel libro, il rapporto con nonno, mia sorella, gli amici… è migliorato grazie al romanzo e questo è più bello dei tanti progetti portati avanti con successo e soddisfazioni.

Delle altre persone che dire? Nel poema pedagogico di Anton Semenovyc Makarenko, uno dei fondatori della pedagogia sovietica, nato a fine 800, parla dei ragazzi moralmente handicappati, niente di più attuale e convincente a mio avviso, fa riflettere che nell’800 era una cosa riconosciuta ed assodata, oggi non si può dire altrettanto.

In conclusione non auguro a nessuno di essere disabile, ne alla gente in gamba: perché lo dovrebbero essere/diventare? Ne alla gente che forse lo è… ne alla gente che ha già un carattere particolare perché augurarli l’aggravante? Poi ci sono quelli che probabilmente hanno paura di esserlo veramente o diventarlo ma già lo sono e non lo dico io, ma Makarenko. Infine non lo auguro ai bambini che nasceranno perché la disabilità è uno svantaggio, spesso è indelebile a volte ma solo per periodi di tempo rapidi e ben determinati è una risorsa.

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