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Amore e sessualità nelle persone con handicap fisico e/o cognitivo I parte

Ho tratto questo articolo dai sito www.diversamenteabili.it [1] L’ho voluto mettere nel mio sito perché lo ritengo interessante per genitori, insegnanti e tutti coloro che si relazionano con Persone con handicap fisico e/o cognitivo.  Potette mettere i vosrti commenti, domande… a piedipagina.

Introduzione: Le complesse problematiche che caratterizzano la sessualità delle persone handicappate mettono in evidenza alcune drammatiche contraddizioni del nostro atteggiamento educativo.
La prima contraddizione riguarda proprio le sue finalità. Come abbiamo già sottolineato, uno dei presupposti teorici e metodologici irrinunciabili dei programmi educativi per l’handicap si fonda sul concetto di massima autonomia possibile.
Tale concetto, che riconosce la necessità di restituire al disabile i più ampi spazi possibili di autodeterminazione, è tuttavia applicato con estrema difficoltà all’ambito sessuologico.
Quando infatti, all’interno di un progetto educativo diventa necessario affrontare il tema della sessualità, si tende solitamente a sostituire il principio della massima autonomia possibile con quello della minima autonomia indispensabile.
È come se qualcosa di non dichiarato ci confondesse all’ultimo momento. Probabilmente concedere una maggior autonomia sessuale alle persone disabili spaventa noi più di quanto sia un problema per loro.
La seconda contraddizione sul piano metodologico riguarda la tendenza a privilegiare interventi a carattere repressivo, finalizzati al contenimento delle spinte sessuali, rispetto ad interventi più propriamente educativi orientati, invece, all’acquisizione di adeguate modalità di vivere ed agire la sessualità.
Nella nostra esperienza, la maggior parte delle richieste di consulenza per problematiche connesse alla sessualità di persone con handicap sono, infatti, motivate dalla necessità di reprimere e contenere comportamenti disfunzionali, piuttosto che dal desiderio di aprire per queste persone nuove prospettive sessuali ed affettive.
Questo modo di procedere è chiaramente antitetico rispetto a quanto di norma avviene per gli altri ambiti di funzionamento della persona con handicap, per i quali la logica educativa prevede prima di tutto l’insegnamento di abilità e competenze che consentano l’accesso a più ampi spazi di autonomia e, solo in seconda istanza, qualora se ne presenti la necessità, il contenimento di comportamenti problematici che potrebbero limitare l’autonomia della persona stessa.
Esiste poi una terza, grave, contraddizione che riguarda la scelta del terreno sul quale lavorare.
La vita sessuale ed affettiva delle persone con handicap psichico è regolata da centri del SNC normalmente non compromessi dalla lesione cerebrale responsabile del deficit cognitivo. Nonostante l’handicap ponga a volte dei grossi limiti ad una sua adeguata espressione, il terreno dal quale nasce la sessualità è un terreno abitualmente «sano».
Ed è proprio qui che si genera il paradosso. Il buon senso ci suggerisce di coltivare per primi i terreni più fertili e poi, se resta il tempo, di dedicarci anche a quelli improduttivi. Eppure, nel caso dell’handicap tendiamo ad occuparci soprattutto della terra che da pochi frutti, trascurando quella più ricca di promesse.
A volte produciamo curricula di apprendimento sofisticatissimi, pur sapendo che, dati certi limiti biologici, i risultati saranno molto poveri, e ci dimentichiamo invece che esiste la sessualità, una
terra fertile e viva.
Addirittura, il recupero della dimensione affettiva e sessuale ha consentito, in molti casi, di ottenere risultati impensabili anche all’interno di curricoli per i quali erano già stati spesi anni di paziente ed improduttivo lavoro (Veglia, 1999c).
Se si trattasse della nostra vita, difficilmente sceglieremmo di imparare con fatica ad allacciare le scarpe o ad usare con perizia la forchetta, piuttosto che imparare ad utilizzare il nostro corpo per conoscerci e per scambiarci desiderio, piacere, amore. Ma dal momento che siamo noi a decidere per gli altri troviamo molto più rassicurante fare mille altre cose, piuttosto che provare a confrontarci con il mondo pericoloso della loro sessualità.
Si tratta di una crudeltà che le persone handicappate di sicuro non meritano. Non esistono, infatti, ragioni valide per giustificare questo tipo di atteggiamento, se non quelle che fanno capo alla nostra personale difficoltà e paura di affrontare l’argomento in termini educativi.
Una possibile ragione di questa difficoltà è collegata ai significati che, spesso in maniera inconsapevole, attribuiamo al rapporto tra handicap e sessualità. Tali significati riflettono, almeno in parte, la nostra personale idea di sessualità, ma anche le forme convenzionali attraverso le quali la nostra cultura definisce tale rapporto.
Eppure, nel 1993, l’Assemblea Generale dell’ONU ha pubblicato un documento nel quale veniva riconosciuto a tutti i portatori di handicap, sia fisico che mentale, il diritto di fare esperienza della propria sessualità, di vivere all’interno di una relazione, di avere dei figli, di essere genitori, di essere sostenuti nell’educazione della prole da tutti i servizi che la società prevede per i normodotati ed anche, non ultimo, il diritto a ricevere un’educazione sessuale.
L’ONU, nel suo documento, auspica inoltre che tutti gli Stati membri si rendano promotori del superamento degli stereotipi culturali che ostacolano il riconoscimento di questi diritti alle persone con handicap.
Benché i dettami contenuti nell’articolo 3 della nostra Costituzione siano in linea con questo principio, in Italia non sono ancora stati emanati provvedimenti legislativi che tutelino i diritti di cui sopra, né tanto meno è stata sollecitata la nascita di movimenti di opinione che sostengano la posizione espressa dall’ONU. L’organizzazione dei nostri servizi ne è la prova.