i bambini hanno gli occhi

Questo articolo l’ho scritto basandomi su un intervista che ho avuto il piacere di fare con il regista Antonio de Palo e con Francesco Ruggieri, che interpreta il ruolo di Francesco.

La mia prima domanda è stata come mai ha scelto questo titolo? La risposta di Antonio, la posso sintetizzare e spiegare dicendo che il cortometraggio “i bambini hanno gli occhi“  vuole analizzare il dolore e l’affettività, in un contesto famigliare e quindi in chiave contemporanea.
I protagonisti sono i bambini.

Il dolore è l’elemento essenziale, forse la musa ispiratrice di tutto il lavoro, esso viene analizzato nel suo duplice significato: quello personale e universale.
“Il dolore è universale“ continua il reggista “in quanto tutti gli esseri umani, nel loro percorso di vita lo provano –ne fanno esperienza- e quindi da questa considerazione possiamo dire che esso ci accomuna tutti; in questo sta la sua universalità.
Il dolore personale, invece, è intimo ed intraducibile, cioè ognuno di noi elabora un proprio modo di provare dolore, e di reagire a questo in modo estremamente intimo e diverso da persona a persona.“ Il regista parte da queste sua analisi e dalle sue considerazioni sul dolore per tessere la trama dell’opera filmica.
Quando gli chiedo  come mai abbia scelto proprio un  titolo così strano, ed in un primo momento difficile da comprendere: “i bambini hanno gli occhi“ mi viene spiegato che in condizioni normali, non patologiche, i bambini hanno la possibilità di vedere/conoscere la realtà che lì circonda.
Ci sono però dei casi, nella vita reale, come in questa storia, nei quali l’adulto non si impegna a fornire gli strumenti ai più piccoli per vedere/conoscere la situazione ed il mondo che li circonda (partendo ovviamente dalla realtà che di norma è più vicina ad ogni bambino: il contesto famigliare). Sono le scelte di non volontà, di apatia, di chi dovrebbe aver cura dei propri figli che determina una cecità metaforica nei protagonisti del film: Angela e Francesco. Questo è bene spiegato a livello scenico, da tante porte che, nel corso di tutta la storia, il “padre-padrone“ le chiude in faccia ad Angela e Francesco. I due diventati ormai grandi, rivedono e rivivono quello sbattere di  porte che non permette loro di rielaborare il passato, ma glie lo fa solo rivivere con tutto il patos di quei momenti che non sono poi così lontani dalle loro vite presenti.

All’inizio del cortometraggio c’è una scena di vita reale: tanti barboni che dormono alla stazione Termini. Quei barboni non sono tanto diversi da alcune scene di vita di Francesco, questo “gioco“ tra realtà e narrato, riesce a far avvicinare la condizione  reale  dei barboni ai sentimenti dello spettatore.
Il cortometraggio si basa sulle scene e i dialoghi sono ridotti al minimo, all’essenziale; quindi i movimenti sono il linguaggio principale che danno un tocco di unicità o per lo meno di rarità all’opera.
A questo punto chedo: “D’accordo che lo sguardo  spesso, viene considerato, il mezzo di conoscenza più immediato che ci permette il primo contatto col mondo che ci circonda, però esistono altri “canali“; tu che ne pensi?“
Antonio risponde che il canale visivo non è l’unico canale di conoscenza, ma nel “i bambini hanno gli occhi“ si sottolinea la privazione dello sguardo rivolto al mondo, in un contesto famigliare negativo e problematico dove un padre, oltre a quello che si è già detto,  sceglie di essere assente nella vita e nella quotidianità del figlio. Questo porta a vivere nel figlio “sano“ una situazione di forte privazione che lo rende uguale ad una persona completamente non vedente. Naturalmente un non vedente può rafforzare gli altri sensi, imparare metodi  di scrittura e di apprendimento alternativi, ma anche qui torna la volontà dell’adulto di fornire, stimolare, far apprendere o negare l’uso di linguaggi, tecniche e strumenti alternativi.
Ho avuto anche il piacere di parlare con l’attore Francesco Ruggieri e di ascoltare la sua versione del significato del lavoro e l’esperienza che ne ha potuto trarre.
Francesco si è imbattuto in un personaggio difficilissimo da interpretare: lui giovane attore normodotato doveva interamente calarsi e quindi diventare in tutto e per tutto un non vedente. Come cammina una persona priva della vista che vive ai margini della società?
Come mangia?
Come scende le scale?
Come si siede per terra?
Come parla alle persone che incontra per strada? Ci sono voluti mesi e mesi di prove per trovare le risposte a queste domande. Mesi nei quali l’attore si è fatto crescere i capelli e la barba. Quest’ultima ha creato un forte stess all’attore e serie difficoltà a mangiare in presenza di altre persone. La metamorfosi fisica e il provare stress, vergogna, disagio ed anche una grande dose di sacrifici e di voler arrivare fino alla fine, hanno fatto si che il personaggio del cortometraggio si esprimesse fino alla fine, in tutto il suo essere “Francesco“.
Le poche battute del copione non erano per lui una facilitazione e una cosa in meno da dover affrontare, bensì un fattore che dava ad ogni singolo gesto un’importanza ancora maggiore. Per questo neanche un “battito di ciglia“ poteva essere lasciato al caso o non voluto dalla storia.
Anche la camminata della protagonista femminile: Angela, i suoi gesti, le sue espressioni, la sua pettinatura… è tutto studiato, misurato, fatto con la stessa cura e lo stesso metodo di Francesco.
La fine di questa storia non poteva essere che tragica, Francesco uccide il padre e si toglie la vita mettendosi due pezzi di vetro negli occhi. Angela scopre i due cadaveri e anche lei, a sua volta, si suicida. Secondo me la morte è l’unica soluzione per la fine della storia; è l’elemento catartico che libererà e rende giustizia a Angela e Francesco.
Questa storia, in particolare il finale, mi fa pensare allo schema delle tragedie greche dove la soluzione dei rapporti esasperati e disperati si risolveva quasi sempre con la morte di uno o più personaggi coinvolti; basti pensare al caso di Medea, dove la donna abbandonata per vendicarsi del marito uccide i propri figli. All’epoca la presentazione di dinamiche così forti e tragiche e la loro risoluzione sconvolgente serviva appunto a creare un sentimento di empatia del pubblico per i protagonisti delle storie, in modo da indurre i cittadini a non ripetere le azione viste sulla scena.
Anche se il cortometraggio ha molti elementi classici è comunque pieno di fonti, di trovate e di pensieri belli da una parte facilmente riconducibili alla realtà di tante famiglie di oggi; dall’altra parte ha tante idee assolutamente nuove e molto studiate se teniamo conto che si sta parlando di un cortometraggio e non di un film e quindi tutto è concentrato in un tempo ridotto.
 

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