aggionamenti del 18/5/2007

Scritto dalla redattrice Buongiorno a tutti i visitatori di questo sito,      

ho publicato 2 nuovi articoli: “come un soffio” e “intervista di Marzia a Giorgia”. In entrabi trovate l’e-mail di Giorgia per le vostre domande

oggi ho messo l’ultimo interessanse programma dell’ Englesh Theatre of Rome, all’interno ci sono tutti i recapiti per chi volesse prenotare i biglietti

POI HO MESSO LA MIA RELAZIONE DEL “PROGGETO CHANCE” SOTTO “PAGINE”, PRIMA STAVA IMMEZZO A TUTTE LE “CATEGORIE”.

CI SONO ANCHE DIVERSI ARTICOLI CHE SPERO POSSANO ESSERE UTILI A CHI COME ME HA UNA DISABILITA’ MOTORIA, MA SPERO INTERESSINO ANCHE CHI PER LAVORO O PER DEDIZIONE A QUOTIDIANAMENTE A CHE FARE CON PESONE CON HANDICAP FISICO E/O COGNITIVO ho anche creato 2 CATEGORIE DISTINTE: “ARTICOLI VOSTRI” DOVE METTO ARTICOLI SCRITTI DA VOI O PAGINE SCELTE E COMMENTATE, DA ME SU ALTRI SITI INTERNET L’ATRA CATEGORIA è “ARTICILI DELLA REDATRICE” DOVE METTO SOLO ARTICOLI SCRITTI DA ME

SE AVETE ARTICOLI DI CARATTERE SOCIALE CHE VOLETE PUBLUCARE IN “ARTICOLI VOSTRI” SEGNALATEMELI O MANDATEMELI PER E-MAIL A: info@piccologenio.it

COMUNQUE HO GIà MESSO DIVERSE PAGINE IN “ARTICOLI VOSTRI” CHE SPERO POSSANO ESSERE UTILI A CHI COME ME HA UNA DISABILITA’ MOTORIA, MA SPERO INTERESSINO ANCHE CHI PER LAVORO O PER DEDIZIONE A TUTTI I GIORNI HA CHE FARE CON PESONE CON HANDICAP FISICO E/O COGNITIVO. C’è ANCHE UN ARTICOLO SCRITTO DA UN’AMICA DI QUESTO SITO CHE RIGUARDA LA RETINITE PIGMENTOSA.

un’altra novità è l’apertura della CATEGORIA “temi pedagici” dove mettiamo articoli inerenti alla pedagogia e alla filosofia. GLI ULTIMI 2 ARTICOLI ISERITI SONO: UNO SU MARIA MONTESSORI, spero di ricevere i vostri commenti, e l’altro è: “INTERVISTA AL MIO PROFESSORE DI PEDAGOGIA…”.

Ho levato l’articolo del film BORAT perchè l’ho visto e non mi è piaciuto perniente, era demenziale ed esageratamente volgare. era uno di quei film che vogliono farti ridere a tutti i costi ma al massimo ti “stappano” in sorriso. voi che ne pesate? mi piacerebbe sapere la vostra opignone tanto se volete scivermi le e-mail sono anche ne logo del sito.

CI SONO GRANDI NOVITA’ NELLA “PARTE AUTOBIOGRAFICA”: L’HO ARRICCHITA CON TANTI CAPITOLI IN PIU’, QUINDI… BUONA LETTURA!!!!!!!!!   

ANCHE NELLE GATEGORIE “ARTICOLI DELLA REDATTRICE” E IN “RACCONTI” TROVATE DEI MIEI SCRITTI AUTOBIOGRAFICI.

IN “BIOETIECA” CI SONO DEGLI ARTICOLI INTERESSANTI, AD ESEMPIO L’ARTICOLO SCRITTO, SOTTO FORMA D’INTERVISTA, DA UN GRANDE DOCENTE DI QUESTA MATERIA, O ANCHE L’ARTICOSO SU “ANZIANI E BIOETICA” VI CONSIGLIO DI DARCI UNO SGUARDO. 

QUALCHE INDICAZIONE PIù GENERALE PER MUOVERSI MEGLIO NEL MIO SITO

Se siete nuovi in piccologenio.it consiglio di comiciare dalla pagina “VI SPIEGO IL SITO” per poi leggere le parti che vi interessano di più.

La pagina dei liks è sempre più ricca spero che vi troviate dei collegamenti che a vi siano utili e che vi interressiono. se volete fare un scambio di links mandatemi un e-mail, in genere rispondo nel giro di 24 ore.

Se vi interresano di più le rencenzioni allora potete cliccare su “films e libri“ che stanno sotto “pagine“  lì trovarete le recensioni che ho scritto l’anno scorso, mentre in “categorie- film e libri“ ci sono le ultime novità di quest’anno.

Il sito lo aggiorno un paio di volte a settimana, se piccologenio.it vi piace vi pregerei di passare parola. Tutte le voste critice, commenti, iniziative da publicizzare insomma tutto quello che vi passa per la testa e può avere anche una VAGA attinenza col mio sito, me lo potete mandare via mail ed io vi risponderò quanto prima.

 Che altro vi vorrei dire… Ah si, le categorie con l’asterisco sono gestite dal mio amico Merico Cavallaro.
.Comunque trovate i recapiti miei, di Merico e della Dottoressa Porri (la psicologa di questo sito) alla pagina “contatti”
Buona lettura a tutti.
                                                                                                                                             

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CARA SCUOLA, TI RICORDI DI ME ? Esperienze e delusioni di una scolara disabile

Quando sono nata, mamma aveva 27 anni ed erano le tre di pomeriggio del sedici settembre del 1981. Avevo sedici anni quando mamma, nonna e nonno mi hanno spiegato come sono andate realmente le cose quel giorno: quando mamma è entrata in sala parto stava andando tutto bene, era cominciato un normalissimo parto spontaneo. Intorno a “noi” c’erano tanti medici bravissimi fra cui zio e nonno, entrambi ginecologi. Stavo giusto uscendo quando qualcosa, non si è mai saputo cosa, è andato storto: il battito del mio cuore tutt’a un tratto era sparito! Sono rimasta per cinque minuti senza respirare, di conseguenza non è arrivato abbastanza ossigeno al cervello e questo mi ha provocato la morte di alcune cellule del sistema nervoso centrale: quelle che controllano i movimenti. E come se tutto questo non bastasse, il medico che mi ha intubata ha “sbagliato” e mi deve aver “sfondato un polmone”.
Il primo mese di vita l’ho passato in ospedale. Chi ben comincia è a metà dell’opera!!! Mamma e nonna mi sono sempre state vicine. Mamma, una volta uscita dall’ospedale veniva da me tutti i giorni a portarmi il latte. Ho delle foto dolcissime di quei giorni con mamma che mi tiene in braccio.
Anche nonna stava sempre lì con me, mi guardava attraverso il vetro.
Fin dai primi giorni di vita ho fatto tantissima fisioterapia e col passare del tempo ho recuperato molto bene. I medici che mi visitavano nei primi anni di vita, dicevano che non avrei mai camminato, invece adesso mi muovo da sola! Evviva l’onnipotenza della scienza medica!!!!!!
Quando avevo due anni e mezzo mamma e papà per qualche litigio che non si poteva risolvere in nessun altro modo decisero di separarsi e così fu!
Secondo me è stato meglio così perché, da quel che mi hanno raccontato, negli ultimi tempi litigavano di continuo. Tanta gente dice che i genitori devono rimanere uniti per il bene dei figli, ma io non sono d’accorto: penso che i figli soffrano meno ad aver i genitori separati che non quando i genitori vivono sotto lo stesso tetto e non fanno altro che litigare.

Quando papà si è trasferito nella sua nuova casa mi mancavano le favole che mi raccontava per farmi addormentare; le mie preferite erano “Occo ed Entola” come io pronunciavo “Pinocchio e Cenerentola”.

Per me la scuola non è stata affatto semplice. Ne ho un ricordo terribile fin dall’asilo: mentre gli altri bambini giocavano, io sedevo nel mio banco e mi esercitavo a scrivere per imparare a controllare i movimenti.
Ricordo come un incubo tutte quelle ore trascorse a cercare di riempire pagine e pagine di quaderno.
Un altro brutto ricordo di quegli anni, ancora oggi chiarissimo nella mia memoria, sono le ore del mattino che io passavo con la maestre di sostegno tentando di camminare: con quanta invidia guardavo i miei compagni giocare! Un giorno durante uno di questi disperati tentativi sono caduta e mi sono tagliata il mento. Lo ricordo ancora abbastanza chiaramente. La suora e Daniela, la mia maestra di sostegno, mi hanno messo subito l’acqua fredda e mi hanno portata in segreteria; da lì hanno chiamato mamma e quando è arrivata mi ha portata subito in ospedale. Appena ho capito che mi dovevano mettere i punti ho avuto tantissima paura, ma fortunatamente, mi hanno fatto l’anestesia totale e, quando mi sono svegliata, mi avevano messo ben cinque punti!!!!!
L’ultimo anno d’asilo la mia maestra di sostegno mi aveva messo il terrore dell’elementari: mi aveva detto che si studiava molto di più e che la suora era molto più esigente! Ero semplicemente terrorizzata: già gli anni dell’asilo erano stati anche troppo difficili, e non volevo certo finire dalla padella alla brace!
Speravo con tutte le mie forze che l’elementari arrivassero il più tardi possibile! Di tutto questo ne parlavo col mio “migliore amico”: Titti; all’epoca avevo cinque anni e mio ero creata una compagnia immaginaria: “Titti” era un curioso animaletto con zampe di cane e corpo di coniglio, agile come uno scoiattolo, tutto bianco, ma la sua caratteristica fondamentale era quella di essere invisibile per tutti, tranne che per me. E’ significativo che io che mi muovevo con una certa difficoltà, gli avevo attribuito una capacità irrefrenabile di correre, arrampicarsi e saltare dovunque – sottolineo che non era affatto un gioco.
Titti per me è stato un compagno reale, una proiezione di qualcosa che sentivo dentro di me, era il mio confidente, non mi giudicava mai e la pensava sempre come me.
Quando andavo a scuola, o a fare una visita medica, lui mi restava vicino. I miei frequenti momenti di tristezza erano bilanciati dalla sua inalterabile allegria e vitalità.
E’ stata una lunga amicizia la nostra, penso che sia durata sette anni; poi crescendo ho trovato altri modi e altre forme per le mie fantasie
Forse da piccola nei miei pensieri volevo essere un’altra e forse questo potrebbe spiegare molte cose.
Il mio cartone animato infatti si chiamava “Milly un giorno dopo l’altro” ed era la storia di una bambina che viveva in campagna in un grande casale con la nonna: lei era “libera”; poteva fare quello che voleva, non aveva la bambinaia, poteva uscire dal casale, girare da sola e fare tante altre piccole cose che io non potevo fare ma le desideravo molto.
Quando le elementari sono arrivate tutte le mie paure hanno avuto conferma. Ancora oggi non ho certo un bel ricordo dei miei anni di asilo e delle elementari ho, se possibile, un ricordo ancora peggiore: la suora era brava, ma molto esigente!! Io andavo male, facevo una gran fatica a leggere e memorizzare!!! Mi facevano scrivere a mano e per me era veramente un’impresa!
In quegli anni andavo malissimo a scuola: mi ricordo che quei cinque anni mi sembravano un’eternità. Il tempo non mi passava mai; ancora oggi se ci ripenso mi sembra che le elementari siano durate un’infinità di tempo!!!! Mamma sapeva che la mia situazione scolastica era disastrosa: andavo male in tutte le materie soprattutto in matematica ma non ne faceva un dramma… tutto questo mi rendeva già infelice e tesa.
Avevo imparato ad usare la macchina da scrivere all’età di otto anni ma la suora non voleva che la usassi e si ostinava a farmi scrivere a mano
Alle medie la situazione migliorò sotto certi aspetti: ero più seguita, avevo sempre la professoressa di sostegno ed a casa ero molto aiutata.
Dopo varie lotte sostenute della mia famiglia con la preside ho avuto il permesso di usare la macchina da scrivere.
Intanto all’età di dieci anni mamma e nonna mi regalarono un computer e con l’aiuto di Luigi Marotta ( un logopedista molto in gamba che mi segue tuttora) imparai ad usarlo. Lo potei usare in classe solo in terza media: la legge prevedeva che le persone con problemi motori potessero usare la macchina da scrivere ma non diceva niente riguardo ai computer così ci vollero due anni di battaglie per portelo usare a scuola!!!!
Eppure anche le medie non sono “scivolate via” senza lasciare qualche “simpatico” ricordino (ovviamente dico “simpatico” ora che ho diciotto anni e ho terminato i sinonimi di “orribile”).
In seconda media, infatti, mi è successo un fatto che tuttora mi sembra inverosimile: un giorno a settimana dovevo mangiare un panino a scuola e rimanere un’ora in più. All’ora di pranzo io dovevo andare in bagno. Prima di allora non avrei mai immaginato che una semplice pipì potesse comportare un problema di dimensioni mastodontiche!
Né la professoressa di sostegno né la bidella volevano “prendersi” la responsabilità di accompagnarmi in bagno perché, a quanto pare, se fossi caduta, per loro sarebbero stati guai seri! All’inizio veniva mia mamma all’una e mezza, mi portava un panino e mi accompagnava al bagno. Dovevo andare a quello dei maschi perché quello delle femmine era al piano disopra. Per me non era un problema fare un piano di scale: se qualcuno mi avesse dato una mano ci sarei riuscita benissimo ma, a quanto pare, per la preside non era così semplice perché me lo aveva proibito!!
Inutile dire che a ricreazione tutti potevano uscire tranne la sottoscritta che doveva rimanere seduta al proprio banco perché nessuno voleva prendersi la responsabilità di farmi fare quattro passi fino al cortile!!! Quest’arduo compito non competeva a nessuno: non era compito né della professoresse, né nella bidella, né dell’ insegnante di sostegno. Le uniche che sarebbero state felici di passeggiare con me erano le mie compagne di classe, ma gli fu severamente proibito!!!
Logicamente tutta questa situazione cominciò ben presto a pesarmi. Non capivo né il come né il perché di questi problemi insormontabili; era tutto paradossalmente assurdo: da una parte la mia famiglia che combatteva per cose che fino a quel momento mi erano sembrate ovvie, tutti gli alunni di questo mondo hanno il diritto di rimediare ai loro bisogni fisici e non capivo perché io fossi esclusa dal club, dall’altra presidi e professori iscritti al girone dei torturatori infernali.
Se fare pipì o sgranchirmi le gambe era severamente proibito partecipare alle gite scolastiche era qualcosa di diabolico, talmente grave da meritare nell’al di là e nell’al di qua condanne indicibili. Per una classe formata da tredici ragazzi dovevano esserci due professoresse a cui si aggiungeva la mia professoressa di sostegno; è ovvio che non era ancora sufficiente: la scuola voleva che andassi accompagnata! Quel periodo è stato un incubo! Avevo una professoressa di sostegno (e paradossalmente ero io a far da so-stegno a lei per come era limitata) e una preside che non ne voleva sapere delle mie richieste di andare in bagno, anche accompagnata. Mia madre a cui avevo riferito tutto, una mattina chiese alla bidella se gentilmente mi poteva accompagnare lei; lei il primo giorno lo fece, poi, disse, che non se la sentiva di prendersi questa responsabilità, poiché c’è la professoressa di sostegno – e così si ricominciava.
La mattina, in classe, ero abbastanza integrata; la maggior parte delle mie amiche mi conosceva dalle elementari e quindi “la mia figura…” non li metteva a disagio; perché mi chiedevo, allora, fuori della scuola per loro ” ero quasi inesistente”?! Io mi sentivo uguale a loro: avevo gli stessi interessi, la stessa voglia di divertirmi, di non studiare e di far danni!

Ancora non ho capito l’utilità della ” mia accompagnatrice” visto che non avevo bisogno di cose particolari!!! Ma tutto sommato.. la vita è troppo breve per perdere tempo e fatica con questi grandi misteri!!!!
Tutte queste esperienze negative hanno lasciato in me un segno indelebile: ancora oggi, a distanza di dieci anni, mi capita spesso di ripensare ai primi anni della mia scuola e ci soffro, ma è anche vero che tutto questo mi ha dato una “formazione interiore” che poche persone possiedono, e nessuno potrà mai levarmela.

Vita dell’infanzia – Maggio-Giugno 2000

Scritto dalla redattrice

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LETTERA A …

Quanto segue è una lettera che ho scritto dieci mesi dopo il mio esame di maturità. Stavo male: ero ancora arrabbiata, avevo delle cose da dire a due persone, quindi l’ho scritta per una mia esigenza. Non ho mai ricevuto una risposta, ma non mi importa scrivere mi ha aiutato a superare delle esperienze ed a essere pronta a farne di nuove. In questo spazio trovate la lettera così come l’ho scritta nel 2002, con l’unica differenza che metterò delle sigle al posto dei nomi propri.

Care X e Y,
E’ passato un anno dalla mia licenza liceale ed ancora ripenso con dolore e tristezza ai cinque anni trascorsi al Istituto Z ed in modo particolare all’ultimo. Per raggiungere il grande traguardo della maturità ho dovuto faticare più degli altri ragazzi. L’anno scorso ero determinata a studiare come non lo ero mai stata in vita mia, ne ho pagato un prezzo molto alto: mi sono privata di cose per me altrettanto importanti come la fisioterapia, la logopedia, lo scrivere, uscire con le mie amiche, il corso di teatro del quale ho fatto lo spettacolo a giugno ma ho dovuto rinunciare agli incontri durante l’anno. La mia giornata era scandita solo da ore di studio delle diverse materie, per questo ho fatto degli sforzi troppo grossi per le mie possibilità, compromettendo anche la mia salute fisica. L’esame è andato bene: ho preso ottanta su cento. Durante l’esame orale il prof. d’italiano (che era un membro esterno), invece di lasciarmi ripetere la tesina mi ha fatto tante domante su tutto il programma, quindi mi sento di poter dire che quello che ho ottenuto me lo sono meritata. A tutte le persone che complimentandosi con me, mi chiedevano se ero soddisfatta del come era andato il mio esame; rispondevo con le lacrime agli occhi ed una rabbia che mi cresceva dentro mai provata prima, che non ero affatto contenta, anzi che mi sentivo sconfitta. Tutti dicono che la scuola deve servire per educare i ragazzi e prepararli ad affrontare la vita che viene dopo la scuola. Invece io al Istituto Z ho “imparato” aver paura di affrontare le difficoltà. In tutta la mia vita poche persone sono riuscite a farmi sentire “diversa” come c’ è riuscita lei professoressa X, non mi riferisco solo al suo comportamento in occasione della gita di Burri (anche se quello secondo me, è stato il fatto più eclatante e scorretto), ma ai numerosi tentativi di nascondere il suo disagio nei miei confronti. Io sono cresciuta circondata da persone che hanno sempre creduto veramente che, nonostante il mio handicap fisico, io sia una ragazza esattamente uguale alle persone normodotate. Lei era l’unica a ripetermi ossessivamente che io sono uguale alle persone che non hanno un handicap fisico. Ho sempre pensato che il suo ossessivo bisogno di ripetermi verbalmente questo concetto derivava dal fatto che non mi abbia mai accettato come una persona “normale” mi ha sempre visto come un persona diversa e il “diverso” si sa, fa paura. E lei y; io l’avevo messa al corrente di quello che stava succedendo tra me e la vice y, ma lei non ha saputo prendere una posizione fra noi due Ogni volta che venivo a raccontarle quello che stava accadendo lei mi tranquillizzava dicendo che avrebbe parlato con la X poi di fatto non faceva nulla, per questo mi sono sentita presa in giro. Mi chiedo come è possibile che in una scuola privata religiosa accadano certe cose. Mi sembra assurdo che nel vostro istituto si dia una grandissima importanza a cose formali come la divisa, le messe, le due feste della scuola e poi se c’è un’alunna con qualche difficoltà in più, invece di aiutarla secondo i principi religiosi dei quali l’istituto si vanta molto, non fate altro che accentuare le sue difficoltà. Dallo scorso giugno ad oggi, grazie all’aiuto e al sostegno della mia famiglia e delle persone che mi stanno vicino, sono riuscita in parte a superare i traumi da voi creati ed ho fatto molte cose: ho seguito un corso di scrittura della rinomata scuola Omero, durante il quale ho scritto un racconto che è stato lodato dall’insegnante stesso, ho fatto un corso d’inglese della British ed uno di informatica che terminerò tra due settimane prendendo il patentino europeo, ho “ritrovato” i miei amici ed ho conosciuto molti ragazzi simpatici che mi accettano per quella che sono. A distanza di un anno, nel ripensare a tutto il periodo del liceo, in particolare l’ultimo anno, provo ancora tanta amarezza. Penso che tutte queste prove mi hanno formata ed ho voluto scrivervi questa lettera perché non mi piace tenermi dentro questi “rospi” e così spero di andare avanti serenamente attivamente e con coraggio.

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MEMORIE DI UNA GITA SCOLASTICA

Quanto segue è il racconto o forse una relazione di una cosa che mi è successa nel 1999. l’ho scritta subito dopo l’ accaduto. Non ne ho fatto ne un articolo ne una lettera: l’ho scritta per me, per non dimenticare, e per farla leggere a parenti e amici. Prima di metterla su questo sito ho levato i nomi, ed ho sostituito le ripetizioni con i puntini.

Ho diciannove anni. (…….) riesco a fare tante cose da sola, ma a quanto pare non posso partecipare alle gite scolastiche a meno che non venga mia madre o una persona da lei delegata. (…) Era così anche alle medie, ma più passa il tempo più la richiesta della scuola mi sembra sempre assurda. L’anno scorso mia madre e mia nonna sono andate a parlare di questo problema con la vicepreside, che è anche la mia professoressa d’inglese e, prima di allora, si era sempre dimostrata aperta e disponibile nei miei confronti. In un primo momento sembrava che la situazione si fosse appianata ma poi abbiamo visto che i problemi continuavano ad esserci, anzi la situazione andava di male in peggio: col passare del tempo la vice preside assumeva un comportamento sempre più freddo ed antipatico nei confronti miei e della mia famiglia. Si è arrivati al punto che quando i professori organizzavano una gita sembrava quasi che la organizzavano per tutta la classe tranne che per la sottoscritta, tanto questo non era un problema loro ma solo mio, della mia famiglia e di chi mi doveva accompagnare. (…) Una mattina, ci dissero che le professoresse di due classi stavano programmando una gita scolastica di un’intera giornata in Umbria. Appena l’ ho saputo ho chiesto alla prof X come mi dovevo organizzare; se dovevo essere accompagnata volevo saperlo con un po’ d’anticipo… lei mi ha risposto: “sarebbe meglio venisse qualcuno con te almeno la gita ce la goderemmo di più tutti quanti.” Come risposta era un po’ troppo acida per fargliela passare liscia. Se prima io e la mia famiglia eravamo abbastanza determinate a farmi partecipare alle gite da sola, perché infondo è anche un mio diritto, adesso eravamo irremovibili. Quando sono tornata a casa, ho raccontato a mia madre e a nonna quello che era successo, lei era dalla parte mia, ma allo stesso tempo mi lasciava carta bianca: quando ero piccola ci pensavano loro a questi problemi, invece ora ero pronta e desideravo affrontare certa gente da sola. La gita era fissata per un venerdì, il lunedì precedente io stavo tranquillamente seduta a mio banco, stavo mettendo a posto i libri. La professoressa X e una collega entrano in classe e la prof x ha cominciato a parlare; in un primo momento non gli ho dato molta importanza fin quando non ha fatto il mio nome; precisamente ha detto che avremmo usato quell’ora per parlare di problemi che si erano creati tra me e la classe. Io mi sentivo veramente spaesata: a me non risultava di aver mai avuto particolari problemi con nessuno in classe. Comunque la discussione andò avanti, le mie compagne, incitate dalla prof. X mi dicevano che non se la sentivano di “prendersi la responsabilità morale” di aiutarmi; tutto questo “gravoso aiuto” consiste nel darmi il braccio quando c’è da camminare. Per “difendermi” tentavo di spiegagli che fuori dalla scuola ho una vita “normale”: vado in giro da sola, ho tante amiche in parrocchia ed con loro ho sempre fatto tantissime cose, ho partecipato a feste, gite e pernotti senza aver problemi e quindi proprio non riuscivo a capire come mai loro mi stavano creando tutte quelle difficoltà. Il pomeriggio ero arrabbiatissima. Dopo tanti ragionamenti e lunghi discorsi con mamma; ho deciso che il giorno dopo, all’ora di inglese avrei chiesto alla professoressa se mi dava un po’ di tempo per parlare con lei e con la classe di quello che era successo; non me l’ha permesso, mi fatto parlare con lei a quattr’occhi e per pochi minuti. Il giorno prima lei mi aveva messo in difficoltà davanti a tutta la classe, poi non mi ha neanche dato la possibilità di dire “la mia”. Comunque le ho detto che avevo intenzione di partecipare alla gita come tutte le mie amiche e che mi sarei organizzata per essere autosufficiente. Lei si “arrese” ed io finalmente stavo per partecipare alla gita senza l’accompagnatore. Nei giorni precedenti alla gita ho contattato il museo, mi sono informata se c’erano barriere architettoniche. Anche se mi hanno detto che non ce ne erano, ho richiesto l’assistenza: se avessi avuto bisogno di un aiuto preferivo rivolgermi alla persona addetta, piuttosto che a qualcuno di scuola mia.(…) Il venerdì sono arrivata sul luogo dell’appuntamento attrezzatissima ed in perfetto orario; mi ero portata la mia sedia a rotelle (la uso solo quando viaggio o quando devo fare lunghe camminate) non volevo usarla per stare seduta, bensì volevo camminare spingendola perché in questo modo ho un po’ più d’equilibrio e non devo dare il braccio a nessuno. Appena sono arrivata la professoressa Y mi ha detto che per qualsiasi cosa avessi avuto bisogno potevo rivolgermi a lei; l’ho ringraziata e le ho spiegato che mi ero organizzata per essere il più possibile autosufficiente. Ero felice che in quella gita ci accompagnassero due professori diversi dalle prof del “dibattito“ in classe. Ancora oggi mi domando perché la professoressa X aveva creato quella strana situazione se poi non toccava a lei venire alla gita. Per tutta la giornata le mie compagne di classe hanno fatto finta che io non ci fossi ed io ho fatto lo stesso con loro perché ero “troppo impegnata” a socializzare con le ragazze e i ragazzi delle altre classi. Al mio arrivo al museo ho trovato “l’assistenza” che avevo richiesto. La signorina ha girato la mostra con noi. Io camminavo spingendo la sedia a rotelle proprio come avevo deciso di fare. Durante la visita, mentre guardavo le varie opere d’arte di Burri, che non erano poi tanto entusiasmanti, chiacchieravo e mi divertivo a fare amicizia con gli altri ragazzi delle altre classi. Dopo questa visita siamo andati a vedere Città di Castello, il pullman ci ha lasciato vicini al centro. Io ed il professore abbiamo pensato che era meglio lasciare la mia sedia in pullman: per arrivare nel paese dovevamo prendere una scala mobile e quindi la sedia sarebbe stata solo d’impiccio. Dopo poco ci siamo incamminati verso il paese; io camminavo da sola, il professore era avanti, si girava spesso per controllare se ce la facevo, ed io gli facevo cenno che andava tutto bene. Mentre stavamo camminando una ragazza, che non era di classe mia, si avvicina a me e mi offre il braccio io ho accettato e siamo andate insieme fino al paese antico, poi da lì ci siamo divise io sono andato con una classe e i due professori al ristorante. (…) Subito dopo pranzo siamo ripartiti per Roma. Dopo questa gita sono cambiate molte cose a scuola: quando camminavo per i corridoi salutavo e scambiavo due parole con tantissime persone. Purtroppo però ci sono stati anche molti risvolti negativi: la mattina seguente stavo aspettando l’ascensore per andare in classe quando è arrivata la professoressa X con in mano la solita pila di libri, anche lei voleva prendere l’ascensore così siamo entrate in tre in ascensore, io, lei e una ragazza che si era fatta male a un piede. La prof X, in ascensore mi ha dato in mano tutta la sua montagna di libri. Non ho capito questo gesto, prima di allora non me l’aveva mai fatto perché sapeva benissimo che questo mi avrebbe messa ancor più in difficoltà. In quei giorni mi sono resa conto che lei non aveva la minima idea di come si doveva comportare con me e che la mia presenza a scuola la metteva molto in imbarazzo. la situazione all’ interno della classe era diventata insostenibile: le mie amiche seguitavano ad ignorarmi, nessuna di loro mi diede più il braccio per camminare. (…)Un giorno sono caduta le mie amiche stavano pochi metri più avanti, mi hanno visto benissimo, ma hanno continuato ad andare dritte, nessuna di loro si è fermata a darmi una mano, l’unica che l’ho ha fatto è stata la professoressa d’italiano che stava dietro di me, ci stava raggiungendo per venire al bar con noi. La preside era perfettamente al corrente della situazione perché in quel periodo io, per mia iniziativa, andavo da lei quasi tutti i giorni ad informarla di quello che stava accadendo all’interno della classe e con la professoressa X. ho più volte chiesto alla preside di fare qualcosa per aiutarmi, ma ci volle quasi un mese prima che la preside si decidesse a parlare con la famosa professoressa. Intanto io continuavo ad andare a scuola; per la verità in quel periodo non ho fatto nemmeno un giorno d’assenza perché non volevo dargliela vinta. Un giorno le mie amiche mi hanno chiesto se a ricreazione potevo rimanere in classe perché loro mi volevano parlare, ho accettato; siamo rimaste in classe senza neanche un professore. Loro mi hanno chiesto perché in quel periodo ero fredda nei loro confronti, (bisogna riconoscere che hanno avuto un bel coraggio a farmi una domanda del genere!) io gli ho risposto che veramente ero io che volevo sapere come mai dal giorno della gita si stavano mi ignoravano completamente; loro mi hanno risposto che era “colpa mia” che me l’ero cercata perché avevo combattuto tanto per partecipare alle gite da sola e quindi ora dovevo arrangiarmi. Hanno continuato la discussione dicendo che erano arrabbiate con mia madre e mia nonna perché non le avevano mai ringraziate per l’ aiuto che mi avevano dato negli ultimi cinque anni, e ancora: “secondo noi le tue amiche della parrocchia sono gentili con te per puro spirito di volontariato“. Io cercavo di difendermi, ma quando mi hanno detto quelle cose sulle mie amiche della parrocchia mi sono veramente arrabbiata, gli ho detto che non si dovevano permettere di parlarmi in quel modo e sono uscita dalla classe. Ho telefonato a mamma, le ho detto che ero veramente arrabbiata… e che volevo tornare a casa, lei ha capito e mi ha dato il permesso di uscire da scuola a quell’ora. Quando sono tornata in classe le altre mi hanno detto che era tutto a posto, che avrebbero ricominciato ad aiutarmi. Non ho risposto, ho preso le mie cose e me ne sono andata, anche se avrei voluto dirgli: “grazie mille della compassione”. Pochi giorni dopo tutta questa storia è finita senza un motivo particolare, proprio come è iniziata. L’altro giorno, ho sentito al tele giornale che la mamma di una bambina sorda ha scritto una lettera al Presidente Ciampi per informarlo che d’improvviso alla figlia li hanno tolto l’insegnante di sostegno. Ciampi ha risposto pubblicamente: “bambini difendete i vostri diritti”, Io penso che sia gravissimo che nella scuola accadano certe cose perché la scuola dovrebbe servire ad educare i ragazzi, ma a me sembra che accada tutto il contrario: sono proprio i professori che danno il cattivo esempio. Per me la responsabilità non è solo dei docenti, ma è anche del governo, in quanto sostiene che la scuola è un diritto ed un dovere di tutti i cittadini ma forse ancora non ci sono abbastanza leggi a favore degli studenti diversamente abili.

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“che bel viso peccato” presentazione del libro di Ileana Argentin

Scritto dalla redattrice

Ieri giovedì 29 marzo 2007 al sono andata alle presentazione del romanzo autobiografico: “Che bel viso… peccato“ di Ileana Argentin.
Il titolo del libro, come ha spiegato l’autrice stessa, è la frase che più spesso si è sentita rivolgere dai suoi interlocutori. Perché sembra quasi un peccato che si possa avere un bel viso, una straordinaria voglia di vivere e una grande autoironia se si è disabili. Oppure si pensa che si debba essere necessariamente buoni o intelligenti proprio perché disabili.  Con pungente ironia ed auto ironia Ileana ha più volte detto “come peccato? Ma perché, dovrei essere anche brutta?“
In questo piccolo volume Ileana Argentin, consigliere delegato per l’Handicap del Comune di Roma, racconta, attraverso un percorso umano e biografico, una storia di impegno e di lotte per il riconoscimento dei diritti delle persone portatrici di handicap fisici o mentali, per l’abbattimento delle barriere architettoniche ma soprattutto di quelle culturali.
Inoltre Ileana si mette nella testa e ne sentimenti della mamma, del papà, del suo compagno e del suo cane: fa raccontare a loro la sua nascita, la sua disabilità, la sua vita sentimentale e sessuale. Questa tecnica di scrittura l’ho trovata molto toccante e appassionante per il lettore ed è anche scorrevole e molto curata nei dettagli, nelle descrizioni di vicende, personaggi, battaglie, stati d’animo  e… odori.
“Vorrei tanto far capire alla gente che la disabilità è uno status di vita, non una malattia“. Così Ileana si impegna, nel suo lavoro ed anche con questo romanzo per  sottrarre la condizione del disabile agli atteggiamenti di indifferenza, pietà, compassione o  imbarazzo. Ileana ritiene giustamente che le differenze fanno parte del mondo. Ogni disabile è diverso da un altro disabile, gli uomini e le donne sono molto diversi gli uni dagli altri, le persone si differenziano per l’abilità nel fare una cosa piuttosto che un’altra, chiudi conclude l’Argentin “la diversità tocca tutti, per fortuna.“

Ileana Argentin è consigliere delegato del Comune di Roma per l’Handicap. È stata presidente dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare, sezione di Roma.

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Maria Montessori: l’educazione del bambino in età prescolare

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Pedagogista ed educatrice, fu la prima donna in Italia a conseguire la laurea in medicina, questo fu senza dubbio un traguardo importante per lei e per il paese stesso che prima d’allora non ammetteva le donne all’università. I suoi studi e il suo carattere tenace e deciso la portarono a viaggiare molto nei paesi poveri, dove operò come medico, e nel resto del mondo dove fu conosciuta come pedagogista. Fece molti congressi per portare le sue idee ed il suo metodo educativo. Ho letto dei libri dove c’erano molte relazioni dei congressi fatti. La Montessori sosteneva che l’adulto non ricorda più il suo essere “puro e fanciullo“, quindi è ormai incapace di capire e assolvere le necessità dei più piccoli. Secondo me questa visione è troppo netta ed esasperante, in quanto vede il bambino solo vittima, e l’adulto solo incompetente ed incapace. Ho letto tante relazioni dei suoi congressi, dove non si tiene mai in considerazione che certi bambini sono più scontrosi e capricciosi di altri e dunque l’educatore dovrebbe dire un bel “no“ autoritario.
Oltre a viaggiare molto, la Montessori lavorò anche a Roma nel quartiere di san Lorenzo. Ai primi del 1900 questo quartiere era molto povero, è proprio qui che la Montessori si dedica a bambini con problemi psichici, convincendosi che con il trattamento educativo otteneva maggiori risultati che con l’uso di cure mediche tradizionali. Da questa esperienza la Pedagogista pensò che se il suo metodo avrebbe dato dei buoni risultati sui bambini con handicap mentale, ed avrebbe potuto essere anche applicato con successo ai bambini normodotati, da qui viene l’idea di aprire le scuole montessori. Nel 1906 fonda “la casa dei bambini.“
La Montessori fu anche criticata per la sua volontà di trasferire su tutti i bambini un metodo che nasceva per aiutare bambini con handicap e che quinti partivano da un livello di scolarizzazione, percezione di se e della realtà circostante completamente differente da un coetaneo normodotato. Un’altra critica, che condivido, è relativa alle questioni economiche, ai costi elevati che hanno sempre avuto le scuole montessoriane, raprpesentando fonti di grande discriminazione tra bambini nati in realtà sociali diverse. La Pedagogista frequentava la nobiltà romana e proprio da questa cerchia si era fatta dare dei locali all’interno di Palazzo Taverna, è ovvio che i primi e unici utenti di questi locali furono i figli delle famiglie benestanti.
Il metodo che si è sempre applicato, dagli albori delle scuole montessoriane a oggi, consiste in giochi manipolativi, stimolando ad andare da soli verso la scoperta, la conoscenza, la crescita; ma esulava da comminazioni di punizioni e conferimento di premi, ritenendo che l’autonomia e la serenità che raggiungevano potesse essere una ricompensa ben più adeguata. Il fanciullo doveva avere un ambiente adatto a lui adatto: i materiali (sedie, tavoli, utensili per pulire la casa e fare giardinaggio) dovevano essere piccoli e leggeri per permettere al bambino di svolgere da solo le attività che vedeva svolgere dalle persone che gli stavano intorno. Ritengo sia sbagliato pensare di ricreare, a scuola ed in famiglia, un ambiente apposta per il piccolo spendendo soldi, tempo e energie. Trovo più giusto preoccuparsi di accogliere un bambino nella serenità e nell’amore. Queste
La maestra montessoriana deve avere particolari qualità che consistono nel dover “regolarizzare“ il bambino che arriva all’asilo da un ambiente per lui caotico e quindi lui stesso è agitato e con poca capacità di concentrazione. Dopo questa prima fase, la maestra deve essere “umile“, capace di tirarsi indietro e lasciare libero il bambino di autogestirsi. Infine anche la maestra, dopo aver osservato le attività svolte dalle classe, deve rielaborarle e scriverle sul registro di classe che viene usato anche al giorno d’oggi ma risale proprio alla Montessori.
Tornando alle mie idee critiche sul metodo montessoriano ho avuto modo di confrontare delle situazioni: la testimonianza di una madre che ha fatto educare il figlio alla Scuola Montessori e una giovane che ha frequentato questa Scuola. Nel primo caso, la mamma ha lamentato l’ingombro dei materiali didattici ed il permissivismo delle insegnanti; mentre nel secondo caso la giovane ha vissuto un impatto traumatico nel passare alle scuole ordinarie.
 

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“Poema Pedagogico” di A.S. Makarenko: dialogo col professor Nicola Siciliani de Cumis

  1. Anton Semenovyč Makarenko

    Professore, potrebbe aiutarci a comprendere meglio il significato dell’espressione “moralmente handicappato” che troviamo nel “Poema pedagogico” di Anton Semenovič Makarenko?

Per provare a spiegare con qualche attendibilità il concetto di “moralmente deficiente”, nel poema makarenkiano, mi ci vorrebbero molto tempo e diverse ricerche. Potrebbe essere addirittura il tema di un corso per la laurea specialistica. Ma provo a dirti almeno questo: il concetto non è, almeno in prima battuta, riferibile a Makarenko (al Makarenko personaggio del Poema pedagogico); è invece, al suo primo apparire nel romanzo (capitolo terzo della prima parte), una definizione dei ragazzi della colonia “Gor’kij” coniata da altri: e precisamente dai componenti del Comitato provinciale dell’alimentazione o da quelli della Commissione Rifornimenti della Prima Armata. Bisognerebbe quindi capire cosa intendessero precisamente loro, quegli “altri”, con quella definizione.

Rimane tuttavia il fatto che, nel suo romanzo, Makarenko recepisce per esplicito quella definizione. Una definizione che assume, a mio parere, un forte valore pedagogico, meglio un forte valore antipedagogico (e drammaturgico): nel senso che, quella definizione “di partenza” collabora direttamente al processo che sta al centro dell’esperienza educativa e letteraria makarenkiana e che sta alla base della formazione “dell’uomo nuovo”.

In altri termini, la mia ipotesi di lettura è questa: che lo handicap morale e sociale dei ragazzi della colonia, nel corso dei fatti vissuti e raccontati da Makarenko, si traduca gradualmente nel suo contrario, cioè in una risorsa morale e sociale per tutti. Ed è ciò che vediamo sia nella prima, sia nella seconda, sia nella terza parte del Poema, che mi piacerebbe rileggere di nuovo, pagina per pagina, per individuare le prove di ciò che dico…

2) Secondo lei, al giorno d’oggi ci sono persone che si possano definire “handicappati morali?

 Dovessi rispondere con una battuta (non è solo con una battuta “ad effetto”), direi: tutti. Tutti noi esseri umani, in quanto tali, siamo in qualche modo dei “moralmente deficienti”. Nel senso che la sproporzione tra come siamo e come vorremmo e dovremmo essere è enorme. Di più, Makarenko ci ha insegnato due cose importanti: il senso di responsabilità individuale è un valore supremo, ma che deve fare variamente i conti con il “collettivo” e diventare, quindi, senso di corresponsabilità. Il presente si alimenta di “futuro”, di “gioia del domani”, di “prospettiva”: il che vuol dire che, oggi come oggi, nel presente, nessuno può essere moralmente soddisfatto di se stesso. Tuttavia, dobbiamo convivere con le nostre contraddizioni, con le nostre insufficienze e deficienze, deficienze morali per l’appunto… Fare quello che ci riesce, pur nei nostri limiti umani, nella direzione di un “dover essere” insoddisfatto.

3) Nel “Poema pedagogico” si parla della possibilità di trasformare un handicap in una risorsa, è davvero possibile trarre del vantaggio da una situazione disagiata?

 Più che parlare di handicap che diventa risorsa, Makarenko rappresenta la vicenda di una situazione umana di “deficienza morale” che si trasforma nel suo opposto: in un’altissima proposta morale. La cosa più importante è questa: la risorsa non riguarda soltanto il deficiente morale, l’handicappato sociale in quanto tale, ma tutti: soprattutto chi handicappato non sembra essere. In altre parole, la straordinarietà della proposta di Makarenko consiste nel fatto di lavorare a più livelli. Da un lato, per il recupero degli svantaggiati morali, per il loro inserimento nella società; da un altro lato, in funzione della formazione di “uomini nuovi”: uomini-pilota, uomini-modello, uomini-esperimento, che esperimentano valori morali e sociali inediti. Valori morali e sociali più alti, rispetto a quelli di senso comune. Pertanto, i ragazzi delle colonie di rieducazione dirette da Makarenko, nell’attingere per se stessi ad una umanità “altra”, finiscono per elaborare un modo inedito di essere uomini, di cui tutti possono giovarsi. Gli ultimi diventano i primi. Il negativo dell’esistenza è la condizione necessaria per concretizzare una positività prima inesistente. La deficienza morale di alcuni rimane alle spalle, trasformandosi in risorsa morale per tutti. Il passato dei ragazzi si azzera di fronte al futuro che ne prende il posto.

4) Al giorno d’oggi, l’handicap fisico può rappresentare davvero una risorsa per la famiglia, per le Istituzioni e finalmente per la società?

 Quando si parla di esseri umani, è impossibile separare nettamente gli aspetti fisici dalla unicità complessiva della persona: intelligenza, bontà, motivi estetici, generosità, equilibrio, senso pratico, progettualità, volontà, capacità di socializzazione, senso degli altri, competenze tecniche. Tutte qualità che non solo “riducono” l’handicap, ma anche e soprattutto fondano risorse. D’altra parte, non si può parlare di handicap in maniera indifferenziata: c’è handicap e handicap; ci sono combinazioni infinite tra questo specifico handicap e le altre qualità della persona; c’è la determinazione del soggetto che può promuovere un esito piuttosto che un altro; c’è il grado di cultura che ciascun portatore di handicap riesce a raggiungere, a decidere dove stare, come collocarsi in mezzo agli altri, quale risorsa rappresentare per sé e per il prossimo.

Voglio dire, in altre parole, che rispetto alle entità collettive che sono la famiglia, la scuola, la società, l’individuo con handicap vale esattamente quanto un individuo senza (apparenti) limitazioni. Tutto sta nel riuscire a fare o tendere a fare la “cosa giusta”; nel riuscire a “farsi valere” come quello o quella che fa e farà la cosa “più” giusta, la cosa “migliore”, la cosa più “apprezzabile”, la cosa “che gli altri non sanno fare”, la “cosa-risorsa” non solo per se stessi, ma per tutti.

Di qui la necessità, per così dire, di educarsi agli altri; di curare il proprio “io”, in funzione di un criterio di retroattività dialogica, cooperativa, sociale, ai limiti delle proprie possibilità umane complessive. Insisto su questo: se una persona è convinta in se stessa di quello che positivamente fa, prima o poi, finirà con l’imporre se stessa anche agli altri (a casa propria, a scuola, nella società); e ad imporlo come qualcosa di necessario, di indispensabile e, per l’appunto, come una insostituibile risorsa.

5) Negli ultimi anni il vocabolario italiano ha inserito il termine “diversamente abile” come possibile sostituzione al termine “handicappato”. Secondo lei, quale vocabolo si addice di più ad una persona che ha un problema motorio e verbale?

 Ma è proprio necessario legare qualcuno ad una parola? Non c’è il rischio che “questa” o “quella” parola siano inadeguate a connotare la complessità e la mutevolezza di una condizione psico-fisica? Definendo isolatamente l’elemento fisico, non finiremmo col deprivarlo di ciò che caratterizza unitariamente l’intera personalità umana che abbiamo di fronte, e, dunque, con dare ad esso un “credito” assoluto che non ha? Non è meglio spostare tutto il ragionamento, e le parole che ne conseguono, verso l’“abilità” tout court, quale che sia: blogger, giornalista, scrittore-scrittrice, attore-attrice, regista, operatore-operatrice culturale, insegnante, direttore-direttrice di un’istituzione?

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UNO SPECCHIO DIFETTOSO

ESERCIZI DI SCRITTURA FATTI PER IL LABORATORIO MENSILE DELL’ASSOCIAZIONE CULTURALE “BOMBA CARTA“

 racconto della redattrice.

Mi trovavo nel giardino dell’università, avevo appena finito le lezioni. Da lontano vidi una persona di spalle, la notai perché camminava male, feci più attenzione; camminava proprio come me. Stava andando al bar. Accelerai il passo ed entrai anch’io. C’era tanta gente dopo poco l’ho riconosciuta. Era di spalle. Aveva i capelli arruffati, una maglietta, dei jeans consumati e un grossa bisaccia piena di libri di studio: perfetta moda anni 70-pensai- quella che non ho mai seguito-.
Sono riuscita ad avvicinarmi a lei piegando le ginocchia e facendomi lentamente spazio per camminare. Non è facile camminare in questo modo ma funziona sempre!
Beveva un cappuccino usando la cannuccia mentre con le mani e gli avambracci, si aggrappava al bancone. Finalmente le misi una mano sulla spalla, ci guardammo in faccia con stupore: eravamo uguali. Qualche secondo di silenzio poi lei accenna una rissata ed io:
– ciao, come ti chiami?
– Marzia.
– mi prendi in giro?
– Perché?
– anch’io mi chiamo Marzia.
Bevve un sorso del cappuccino, poi con calma mi disse:
-senti, perché non ci sediamo su una panchina e tentiamo di capirci qualche cosa.
– buon’idea.
Ci sedemmo all’ombra di un grande albero pieno di fiori, d’improvviso mi sembrò che in tutta la facoltà c’eravamo solo io e lei, o forse dovrei dire solo io.
Ripresi a parlare
-non ti chiederò come mai cammini così: scommetto che anche tu, quando sei nata non hai cominciato subito a respirare…
-già.
-quindi hai una lesione celebrare
-proprio cosi.
Rispose lei senza nessuna espressione, come se la cosa non la riguardasse.
-bene allora parliamo d’altro; immagino che stai al secondo anno di scienze dell’educazione.
Lei ebbe uno scatto che le coinvolse tutto il corpo, poi esclamò:-no sono al terzo. Come è possibile, allora non siamo uguali.
Si bloccò, non sapeva più che dire, ma mi fissava. Anch’io per qualche instante me ne stetti in silenzio poi ripresi
-calma, calma, io sono indietro perché mi sono fermata un anno per digerire l’esperienza della scuola privata.
-“scuola privata“ disse con tono deciso, mi fa ribrezzo soltanto la parola.
– a chi lo dici!
– fin da piccola avevo delle idee ben precise: dalla finestra di camera mia vedevo le bambine che uscivano da un asilo di suore, avevano tutte la gonna a pieghe e i cappelli legati. Mi facevano tanto ridere. Crescendo poi, ho continuato a seguire le mie idee. Sono arrivata per fino a scappare di casa. I miei genitori erano arrabbiatisi… dopo qualche giorno poi, lì ho chiamati e gli detto che sarei tornata solo se mi lasciva libera di fare le mie scelte. È passato del tempo e molti litigi, ma alla fine mi hanno detto “fa come ti pare, peggio per te, la vita è tua!“
Rimasi a pensare, eravamo uguali, ma in fondo tanto diverse. Chi era lei, perché mi raccontava, le sue cose.
Comunque le chiesi:
-non pensi che sia più giusto accettare i consigli degli altri e cercare di evitare i problemi invece di crearli?
– perché, per essere una “bambina ubbidiente“ e dire di si a tutto e tutti?
– che centra. Accettare i consigli significa essere intelligenti, pronti a farli propri per arricchirsi.
– anche fare delle scelte porta ad arricchirsi, bisogna essere intelligenti.
– anche, forse si, forse ai ragione tu… no ansi forse abbiamo ragione tutt’e due.
Avevo freddo: si era alzato il vento, ero stordita. Mi chiusi bene la giacca e faci un grande sbadiglio. Mi accorsi che nel giardino non c’era più nessuno, il cancello della facoltà si stava chiudendo; riuscii ad uscire appena in tempo.
Tornando a casa ripensavo a quella giornata, ricordavo di aver seguito le lezioni, ma non sapevo di quali materie; ricordavo di essere stata al bar, ma non sapevo cosa avevo mangiato; ricordavo di aver parlato con qualcuno, ero sicura di aver parlato con qualcuno, ma non ricordavo nient’altro.
-non vedo l’ora di arrivare a casa sono stanca e ho fame.

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Handicap e bioetica: considerazioni del professor Adriano Bompiani

In questa intervista Adriano Bompiani, chirurgo, ginecologo, politico e primo Presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, che affronta la questione delle disabilità in Italia a partire dalla legge-quadro 104/1992. Bompiani ribadisce la necessità di avviare processi significativi di integrazione nella società del portatore di handicap e sottolinea il fondamentale ruolo che può avere la bioetica nel perseguire questo fine.

1) Quali rapporti intercorrono fra la bioetica e la disabilità?

 La risposta non è facile, ed occorre distinguere. Di per sé, la bioetica è un movimento culturale che – a partire dagli ultimi tre decenni del secolo scorso – ha voluto riconsiderare le questioni fondamentali della vita sotto il profilo moderno e della società tecnologica, che ha profondamente modificato l’azione possibile dell’uomo nel nascere e nel morire, oltre ciò che è “naturale”. Poiché ha un forte contenuto di “filosofia morale”, la bioetica non è apparsa subito in forme nei suoi principi e nelle conseguenze, ma si è presentata differenziata in tante correnti di pensiero quante sono le correnti filosofiche.

2) Cosa si intende per contenuti di “filosofia morale” nella bioetica?

  Significa che per gli autori che seguono il “personalismo”, si ha molto rispetto per il disabile e lo si sostiene nelle sue funzioni vitali, lo si aiuta a conseguire capacità sempre maggiori delle sue performance. Oggi la medicina riabilitativa può molto, ma il ripristino completo di tutte le funzioni è ben raro: rimane sempre uno spazio in cui è necessaria l’integrazione nella società del disabile così come è, senza praticare esclusioni, ma anzi considerarlo come un “fratello”. Questa concezione non è la medesima per gli “utilitaristi”, o i “contrattualisti”.

Per alcuni filosofi che militano in queste correnti, e si sono chiaramente espressi, ad esempio la disabilità per cause genetiche che può essere prevista prima della nascita stessa dell’embrione o del feto che porta stigmate genetiche di alterazioni che lo renderanno disabile. Qualcuno di questi filosofi arriva anche a sostenere l’opportunità che i nati non solo malformati, ma anche quelli sani ma venuti al mondo in epoca troppo precoce – prima di 23 settimane di gestazione – non debbono essere “rianimati” (e cioè sottoposti a quelle cure strumentali che li aiutano a sopravvivere) poiché hanno un alto rischio di sviluppare disabilità del sistema nervoso, disabilità motorie, quozienti intellettivi estremamente brevi e così via – cioè debbono essere lasciati morire.

3) Come le Istituzioni, soprattutto tramite lo strumento normativo, possono intervenire a sostegno delle persone con disabilità?

 Dobbiamo riconoscere che la situazione è molto diversa fra Paesi occidentali, ad elevato reddito, e sistemi sanitari e sociali avanzati, e Paesi in via di sviluppo o fortemente depressi, privi di ogni assistenza.  Tutti i Paesi occidentali, e quelli Europei in particolare, si sono dotati di leggi che partendo dal concetto della “pari dignità umana” del disabile, sviluppano adeguato sostegno sia nel campo sanitario che educativo, nella scuola sociale e – almeno in parte – nel settore dell’impiego e del lavoro. Per l’Italia, la legge-quadro (che ormai risale a circa 15 anni fa) è la legge 104/1992; ad essa sono seguite varie leggi sempre più specifiche per l’applicazione a livello regionale e locale di questo principio, che comporta la solidarietà e la sussidiarietà nella gestione del disabile.

4) In Italia, come prima accennava, la legge 104/1992 si pone a tutela dei diritti delle persone disabili; potrebbe illustrarci come è articolata?

 Volentieri. È una legge composta di 44 articoli. Una prima serie di articoli a carattere generale è dedicata alle finalità, ai principi sostenuti dalla legge e a individuare i soggetti che ne possono usufruire (1-8). Sono appunto i “portatori di handicap”, come all’epoca venivano denominati quelli che oggi si preferisce definirli “disabili”.

Una seconda serie riguarda l’inserimento sociale, i servizi di cui la persona con handicap può usufruire, gli interventi previsti dalla legge, l’integrazione scolastica, la formazione professionale, l’integrazione nel lavoro con i relativi accertamenti e le procedure per l’assegnazione della sede (9-22).

Questa prima parte della legge si riferisce ai diritti della persona, che coincidono con i principi dei diritti dell’uomo (già affermati anche nella Costituzione Italiana).

A partire dall’articolo 23 la legge si rivolge più direttamente alle Amministrazioni nazionali, regionali e locali, per dettare norme che servono ad attuare in pratica i diritti. Cioè: la rimozione degli ostacoli che impediscono le attività sportive, turistiche, ricreative; l’eliminazione delle barriere architettoniche; l’accesso all’informazione e alla comunicazione, la mobilità personale e collettiva, facilitazioni per veicoli adatti alle persone handicappate (23-28).

Poi vengono gli articoli diretti a facilitare la pratica dei diritti civili: il diritto di voto, la partecipazione sociale, riserva di alloggio; agevolazioni fiscali; provvidenze per i minori handicappati in caso di ricovero ospedaliero; tutela giurisprudenziale dell’handicappato (29-37).

I compiti che spettano alle Regioni sono indicati all’articolo 39; quelli che spettano ai commi all’articolo 40; le competenze del ministro degli Affari Sociali al 41; infine articoli di copertura finanziaria, abrogazione, entrata in vigore (42-44).

La 104 è, logicamente, una legge-quadro, che richiede poi molte norme applicative, alcune nazionali, altre regionali. In effetti, queste sono state emanate nei 15 anni che hanno seguito la promulgazione della legge; il problema è quello finanziario per una ampia e reale applicazione, il miglioramento della competenza degli operatori e soprattutto la costante volontà di attuare solidarietà e sussidiarietà verso le persone con disabilità.

5) E qual è la situazione europea?

In Europa si cerca di rendere sempre più uniformi le provvidenze previste dai vari Paesi, ravvicinando in primo luogo le legislazioni nazionali, ma sviluppando anche programmi comuni sia per la riabilitazione, sia per l’inserimento a pieni diritti nella società attiva. Oggi si parla di “inclusione” per meglio sottolineare l’essere dentro, pienamente contenuti nel sistema sociale dei disabili come cittadini di uno spazio morale ed economico unitario, senza discriminazioni.

6) La bioetica può fare qualcosa?

 Certamente. Se si ragiona con il criterio del personalismo, a “pari diritti fondamentali”, che si applicano all’essere umano in quanto tale. Il godimento dei beni essenziali che deriva dai “diritti fondamentali” deve essere assicurato di conseguenza anche al disabile, che va – anzi – sostenuto per concorrere con le sue forze, e le sue capacità, al buon esercizio della vita comunitaria. Deve poter lavorare, come tutti i cittadini, anche se nelle forme e nella misura delle sue capacità.

Come vede, c’è molto da insegnare anche alle giovani generazioni al riguardo, e questo modello “personalistico” della riflessione bioetica (che è poi quello della stessa nostra Costituzione Nazionale) può essere un veicolo molto convincente per raggiungere l’obiettivo.

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intervista su bioetica ed handicap II parte

Con riferimenti alle legge 104

D Può spiegare meglio cosa comporta la legge 140/1992?
R Volentieri. E’ una legge composta di 44 articoli.
Una prima serie di articoli a carattere generale è dedicata alle finalità, ai principi sostenuti dalla legge e a individuare i soggetti che ne possono usufruire (ART 1-8).
Sono appunto i “portatori di handicap“, come all’epoca venivano denominati quelli che oggi si preferisce definirli “disabili“.
Una seconda serie riguarda l’inserimento sociale, i servizi di cui la persona con handicap può usufruire, gli interventi previsti dalla legge, l’integrazione scolastica, la formazione professionale, l’integrazione nel lavoro con i relativi accertamenti e le procedure per l’assegnazione della sede (ART 9-22).
Questa prima parte della legge si riferisce a diritti della persona, che sono correnti con i principi dei diritti dell’uomo (già affermati anche nella costituzione Italiana).
A partire dall’art. 23 la legge si rivolge più direttamente alle Amministrazioni nazionali, regionali e locali, per dettare norme che servono a attuare in pratica i diritti.
Cioè: la rimozione degli ostacoli che impediscono le attività sportive, turistiche, ricreative; eliminazione delle barriere architettoniche; accesso alla informazione e comunicazione, la mobilità personale e collettiva, facilitazioni per veicoli adatti alle persone handicappate (art. 23-28).
Poi vengono gli articoli diretti a facilitare la pratica dei diritti civili: il diritto di voto, la partecipazione sociale, riserva di alloggio; agevolazioni fiscali; provvidenze per i minori handicappati in caso di ricovero ospedaliero; tutela giurisprudenziale dell’handicappato (art. 29-37).
I compiti che spettano alle Regioni sono indicati all’art. 39; quelli che spettano ai commi all’art. 40; le competenze del Ministro degli Affari Sociali al 41; infine articoli di copertura finanziaria, abrogazione, entrata in vigore (42-44).
La 104 è, logicamente, una legge-quadro, che richiede poi molte norme applicative, alcune nazionali, altre regionali. In effetti, queste sono state emanate nei 15 anni che hanno seguito la promulgazione della legge; il problema è quello finanziario per una ampia e reale applicazione, il miglioramento della competenza degli operatori e soprattutto la costante volontà di attuare solidarietà e sussidiarietà verso gli handicappati.

D Ed in Europa?
R In Europa si cerca di rendere sempre più uniformi le provvidenze previste dei vari Paesi, ravvicinando in primo luogo le legislazioni nazionali, ma sviluppando anche programmi comuni sia per la riabilitazione, sia per l’inserimento a pieni diritti nella società attiva. Oggi si parla di “inclusione“ per meglio sottolineare l’essere dentro, pienamente contenuti nel sistema sociale dei disabili come cittadini di uno spazio morale ed economico unitario, senza discriminazioni.

D Lei ha nominato la “parola chiave“ perversa che oggi suscita ancora tante proteste e polemiche
R Certamente, questo è il problema più delicato, difficile a controllare, anche nell’atteggiamento quotidiano verso i disabili.
E’ pur vero che la sensibilità spontanea, popolare, ha fatto molta strada nel cammino della “integrazione“ del disabile nelle attività comuni, e fenomeni di manifesta e plateale intolleranza sono ormai rari (e comunque sono repressi). Ma rimangono forme più subdole di discriminazione, sostenute da pretestuose affermazioni di mancate attitudini e determinati impieghi, o da incompatibilità con i tempi di lavoro e così via.

D La bioetica può fare qualcosa?
R Certamente! Se si ragiona con il criterio del personalismo, a “pari diritti fondamentali“, che si applicano all’essere umano in quanto tale. Il godimento dei beni essenziali che deriva dai “diritti fondamentali“ deve essere assicurato di conseguenza anche al disabile, che va – anzi – sostenuto per concorrere con le sue forze, e le sue capacità, al buon esercizio della vita comunitaria.
Deve poter lavorare, come tutti i cittadini, anche se nelle forme e nella misura delle sue capacità.
Come vede, c’è molto da insegnare anche alle giovani generazioni al riguardo, e questo modello “personalistico“ della riflessione bioetica (che è poi quello della stessa nostra Costituzione Nazionale) può essere un veicolo molto convincente per raggiungere l’obiettivo.

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