La disabilità è come il mare, sta a noi farci trasportare da esso – La disabilità nel rapporto tra fratelli.

Spesso i fratelli di bambini con disabilità vanno incontro ad un maggior carico: se da piccoli devono capire e rapportarsi con un bambino “diverso“ da grandi, specialmente se mancano i genitori o quando questi invecchiano, devono pensare ad un fratello “speciale”, ed in qual modo, a volte, devono fare le veci dei genitori.

Dopo aver parlato della mia personale esperienza di ragazza disabile con una sorella normodotata nell’articolo: Two is better than one – L’importanza di avere una sorella. Che troverete nel link: http://www.piccologenio.it/2014/08/19/two-is-better-than-one-limportanza-di-avere-una-sorella/ vorrei affrontare in modo più generale questa importante tematica e soffermarmi sul punto di vista del soggetto familiare non disabile.

Spesso le dinamiche che si istaurano tra bambini e fratelli “diversi“ sono varie e possono variare dal totale rifiuto ad un profondo amore, aiuto e complicità.  I bambini portatori di handicap possono dare un amore intenso ai fratelli  e sostegno morale e psicologico, tutto questo può creare tra di loro un’unione speciale e aiutare ambedue i fratelli ad ottenere dei risultati positivi nelle loro vite, ma può’ anche causare ansia, per esempio durante un momento di separazione.
Ci sono casi estremi nei quali la madre decide di ritirare la figlia maggiore da scuola per assistere la sorellina disabile in ospedale, come mi è capitato di leggere navigando sul web. Anche se ora sembrano felici, perché entrambe piccole, come sarà il loro rapporto in futuro segnato da rimorsi e sensi di colpa? Come si possono stravolgere così tanto le vite di due ragazzine che un domani saranno donne?

I libri, il vissuto, il sentito dire a volte servono a cambiare idea e quindi rotta. È fondamentale il ruolo dei genitori per creare l’armonia e attutire i sensi di colpa del disabile per non essere “normale“ e del figlio “normodotato“ per aver una sana voglia di farsi le sue normali esperienze di vita all’interno ed all’esterno del nucleo familiare d’appartenenza.

Fare rete, in qualche forma, in qualche modo – soprattutto nella totale assenza dello Stato – è un antidoto potente all’isolamento in cui tante persone disabili si ritrovano, spesso anche nei confronti delle proprie famiglie. Forse non salva, però aiuta: tante individualità che si trovano a superare insieme, ciascuno con le proprie capacità e forze, il dramma. Forse, con una provocazione, si potrebbe dire che la ferita lasciata nei famigliari è quasi una disabilità permanente. Ma essa si può affrontare se si vuole, se si è in grado di chiedere aiuto, se non si pensa solo alla propria ferita ed al lato negativo della cosa. Un figlio, un fratello speciale non sarà mai uguale agli altri, ma quanto saranno importanti le sue conquiste, le sue vittorie quotidiane? La disabilità può essere come il mare sta a tutti noi farci trasportare da esso.

In passato si credeva che il rapporto tra fratelli, dove uno di questi fosse portatore di handicap, sarebbe stato meno positivo e meno affettuoso. Ma, in alcuni casi si è riscontrato il contrario. Secondo lo studioso Stoneman il rapporto tra fratelli, dove uno di questi è portatore di handicap, è risultato più positivo del convenzionale rapporto tra fratelli, tuttavia quando sussistono delle discordie, queste sono più frequenti nei confronti di fratelli maggiori disabili.

Aldilà delle specifiche caratteristiche, il rapporto tra fratelli di cui uno è portatore di una disabilità è comunque diverso, alcune ricerche hanno osservato che nell’interazione tra fratelli, quando uno di questi ha disabilità, il bambino non disabile tende a prendere un ruolo d’aiuto e quindi un ruolo protettivo nei confronti del fratello disabile.

La disabilità, prima o poi, porta sempre ad un livello di solitudine più o meno accentuato, tanti genitori scappano tornando alla vita che svolgevano prima “dell’arrivo del figlio della discordia“ altri si rifugiano nell’alcol e nella depressione. I fratelli sono spesso in grado di rapportarsi meglio con gli insuccessi, i sensi di colpa, ma anche le sfide e le vittorie di una persona disabile perché nascono e crescono nella disabilità insegnando e imparando da essa.
E di solitudine parla anche Sandro Rizzi dalle pagine del Corriere della Sera (http://www.corriere.it/salute/cardiologia/13_ottobre_28/dopo-l-ictus-il-passo-diventato-lento-parole-hanno-ancora-piu-valore-0a12689a-3fdf-11e3-9fdc-0e5d4e86bfe5.shtml )descrivendo un “Prima“ dell’ictus che stenta a diventare un “Dopo“ perfettamente compiuto. Lo fa usando un’immagine di rara suggestione: “Gli anziani spesso si sentono isole, i disabili in più sono atolli. Sono lì da vedere, difficili da viverci“. “Ora che il passo è diventato lento, le parole hanno ancora più valore“ recita il titolo dell’articolo. Ed è vero che le parole sono ponti che permettono a tante solitudini diverse tra loro per origini, contenuti e protagonisti , di mettersi in comunicazione profonda,  così rendendo l’essenza della disabilità. Che non è altro che l’atollo descritto da Rizzi; un’isola con un buco in mezzo, una laguna  difficile da vivere, certo, ma tutta da scoprire. Un cerchio  imperfetto che non si perde come una tangente, piuttosto si curva, si chiude lentamente come un abbraccio e ridefinisce uno spazio dentro il quale si forma e vive un altro ecosistema, unico più che solitario.

 

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Una testimonianza su alcune ombre sulla situazione dei disabili in Italia.

In un’epoca come la nostra, l’epoca del fare, dell’agire in fretta ed efficacemente, spesso dimentichiamo la potenza delle parole, del dialogo, della trasmissione orale delle esperienze: in una parola l’importanza delle testimonianze. Dedicando qualche minuto del nostro scarsissimo tempo al dialogo, possiamo permette ai nostri interlocutori di aprire delle finestre nuove sulla realtà che noi conosciamo. In questo modo si alimenta la consapevolezza su tematiche e situazioni che altrimenti non emergerebbero. Dal seme della consapevolezza, certe volte, nasce un’azione convinta e profonda. Più circolano le informazioni, più cresce la probabilità di una reazione comune a ciò che non funziona.

L’articolo di oggi si basa appunto su una testimonianza di cui sono stata depositaria. La condivido con voi sperando di attivare una catena di consapevolezza e cambiamento.

Ciò che mi accingo a raccontare mi è stato riferito da un’operatrice di una cooperativa la quale si occupava dell’assistenza domiciliare ai disabili. Durante la sua carriera è stata mandata a fare assistenza ad una signora, circa cinquantenne, con sindrome di down, allettata a seguito di un incidente. Lo stato nel quale vivevano la madre e la figlia era a dir poco degradato e degradante. La figlia soffriva di allucinazioni in quanto viveva ormai a letto senza stimoli. In quel letto mangiava e faceva i bisogni, le lenzuola non venivano mai cambiate. Lei usava il catetere, una volta l’assistente domiciliare ha visto la madre che strappava con forza il catetere dalla vagina della figlia procurandole un forte dolore. Se l’assistente domiciliare voleva cambiare le lenzuola, la madre si opponeva e non c’era verso di farle cambiare idea. Anche la doccia alla signora down ,che chiamerò Rosa come nome di fantasia, doveva essere fatta assolutamente dalla madre, a modo suo. Quando Rosa veniva lavata urlava perché ormai associava quel gesto materno, o quando possibile delle operatrici, al dolore fisico. L’assistente domiciliare è riuscita, con garbo e premura, a tagliare le unghie della ragazza che erano talmente incolte che si erano ripiegate entrando nella carne delle dita.

Parlando a lungo con la madre della ragazza l’assistente aveva scoperto che da giovane lei rifiutava la figlia disabile. Prima dell’incidente Rosa lavorava, prendeva i mezzi pubblici da sola…  e sua madre stava giorno e notte al lavoro nel proprio ristorante in quanto non tollerava di avere una figlia disabile. Adesso con la vecchia erano arrivati i rimorsi di coscienza. Rimorsi che erano riusciti a segregare madre e figlia in una stanzetta umida, con le pareti scrostate ed una totale mancanza di igiene. Le due donne soffrivano di allucinazioni, ma sfido chiunque a vivere in una simile situazione e rimanere mentalmente lucido! Il medico di famiglia era al corrente della situazione e non faceva nulla. L’assistente domiciliare cercò di convincere la madre a rivolgersi ad una casa famiglia dove le avrebbero accolte entrambe, ma lei era troppo spaventata dal cambiare vita, temeva di perdere il totale controllo su Rosa, era terrorizzata dal cambiamento, in fondo in quella follia sentiva di avere tutto sotto controllo e per questo preferiva vivere in un tugurio, con i soldi per l’essenziale, e le sue assurde regole che le permettevano di tenere in pugno la figlia e le loro allucinazioni.

La madre faceva cose strane ad esempio spostava una pianta davanti la porta dando la colpa a gli spiriti maligni. Lasciava la figlia guardare il vuoto all’infinito.

L’assistente domiciliare aveva spiegato la situazione alla cooperativa dove lavorava, ma si era sentita rispondere che non erano fatti che competevano né a lei né a loro: meglio svolgere il proprio lavoro in silenzio. È così che vanno le cose in Italia, la regola dell’omertà e del silenzio vige ormai in molti ambiti. A mio avviso se ci fossero più denunce e maggior rispetto della dignità  umana si eviterebbero tanti episodi di cronaca nera.

Recentemente a Fermo si è verificati un caso a danni di bambini e ragazzi autistici fra gli 8 e 20 anni picchiati e tenuti sequestrati in una stanza di contenimento (cosa purtroppo non rara per la sindrome autistica). È  la pesante accusa che ha portato in carcere 5 educatori della struttura socio educativa e riabilitativa ‘Casa di Alice’ a Grottammare, in un’operazione condotta dai Carabinieri di San Benedetto del Tronto, e coordinata dalla procura di Fermo.

Si vede un uomo a torso nudo chiuso dentro e lasciato a terra da solo. Un ragazzino con una felpa che tenta disperatamente di farsi aprire la porta ma nessuno gli dà retta. Ad una ragazza vengono tolti i sandali con la forza. In un’altra stanza, arredata con tavolinetti e sedie colorate, ogni volta che un ragazzo cerca di alzarsi in piedi viene afferrato per le braccia e ributtato sulla sedia. I filmati sono stati girati dai carabinieri con telecamere nascoste.

C’è anche da aggiungere che questi episodi non sono nuovi alle forze dell’ordine in quanto dietro all’apertura di cooperative, case famiglie, ospizi… spesso ci sono interessi economici e non spirito di servizio o valori umani come dovrebbe essere. Ogni utente è una fonte di reddito per la casa famiglia, cooperativa sociale e/o casa di riposo per anziani, dunque perché non cercare di metterci le mani? In fondo si sa che molti disabili hanno problemi ad esprimersi, farsi capire o non vengono ascoltati, quindi perché non esercitare il potere e la propria volontà come insegnante, genitore, terapista o assistente?

Ovviamente non vorrei banalizzare e fare di tutta l’erba un fascio, ci sono anche strutture di eccellenza e persone che sono assistite nel modo migliore possibile vivendo da sole o con la propria famiglia. Queste situazioni dovrebbero diventare la norma per uno stato dell’Unione Europea.

 

 

 

 

 

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E’ ora il tempo del #DopoDiNoi

Cos’è il dopo di noi? Ci vuole urgentemente una legge che tuteli la qualità della vita per i disabili dopo la morte dei genitori. In Italia sono numerose le famiglie afflitte dal pensiero di cosa succederà al figlio disabile dopo la morte dei genitori. Ovviamente questo macigno è tanto più grande quando il disabile è figlio unico. Le famiglie spesso, si mettono a cercare strade e possibilità per dopo la loro dipartita, ma nella maggior parte dei casi in Italia le risposte –quando ci sono- sono tutt’altro che adeguate o soddisfacenti per i bisogni dei singoli disabili.

C’è urgenza di sostenere le tante famiglie in questa incresciosa situazione. L’autonomia dei disabili dovrebbe essere un diritto ed una garanzia per tutta la vita non una cosa labile che può venir meno mandando in fumo sforzi disumani sostenuti dall’intero nucleo familiare.

L’attualità e l’urgenza del tema hanno portato la deputata del PD Ileana Argentin –lei stessa ha una disabilità fisica degenerativa- a promuovere una proposta di legge sul “Dopo di noi“, supportata anche dai cittadini attraverso una petizione popolare lanciata dalla parlamentare stessa. La petizione non sarebbe necessaria, in quanto ogni parlamentare è dotato di un autonomo potere di iniziativa legislativa, ma è senza dubbio un utile strumento per fare pressione su senatori e deputati e per dimostrare quanto questo tema sia sentito e condiviso da una buona parte dei cittadini italiani.

Vi propongo qui di seguito il link della piattaforma su cui trovare il testo della proposta di legge e il modulo per sottoscrivere la petizione popolare.

http://www.change.org/it/petizioni/urgentemente-una-legge-sul-dopodinoi-2

http://www.youtube.com/watch?v=-sJemhFKBMU Dopo di noi.

 

 

 

 

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La mia prima esperienza di tirocinio-lavoro

Sono una ragazza che ha conseguito la laurea triennale in Scienze dell’Educazione e della Formazione con lode. Ho terminato il mio percorso di studi specializzandomi in Editoria e Scrittura  alla facoltà di Lettere della Sapienza, votazione 108 su 110.

Mentre studiavo ho pubblicato il mio primo libro, un romanzo di formazione dal titolo Nata viva.

Come tanti altri giovani, anch’io da  neolaureata ho cominciato ad inviare il curriculum ad un numero considerevole di enti sia privati sia pubblici. Molti di questi si sono congratulati per le mie esperienze pregresse, dicendomi che gli sarebbe piaciuto avermi nel loro organico, ma purtroppo non avevano possibilità di assumermi.

Dopo mesi di ricerche, mi si aprì un unico spiraglio per il curriculum inviato al comune di Roma, precisamente allo Sportello Disabili Adulti. Una dottoressa mi chiamò dicendomi che potevo iniziare un “tirocinio-lavoro”. Accettai. E fu così che scoprii la realtà del lavoro per disabili, una realtà che quando mi impegnavo per tenere alta la media dei tanti esami universitari, non avrei mai immaginato. Prima di una vera e propria assunzione bisogna fare un lungo tirocinio e non conta se hai un bel curriculum o meno, se hai una disabilità solamente fisica o un ritardo cognitivo, se sei plurilaureato o hai conseguito la licenza media… Il tirocinio dura sei mesi senza prospettive garantite per il dopo, ed è per tutti di basso livello. C’è chi sistema libri tutto il giorno, chi mette a posto le merci nel magazzino di un supermercato e chi come me dovrebbe catalogare le foto in un grande istituto  per disabili. E’ proprio in un istituto per disabili che mi sono trovata. Avendo una disabilità motoria mi è  stato offerto un “compito” al pc di catalogazione foto e di scrittura. Poca roba direte voi, ma si sa che all’inizio c’è la gavetta per tutti! Andavo lì ogni giorno come un vero par-time peccato che il pc era sempre occupato! Ho fatto pochissime ore di  lavoro effettivo, anche se dovevo andare lì comunque tutti i giorni in quanto avevo firmato un contratto con il comune di Roma, dal quale ho ricevuto un piccolo rimborso spese; mentre il pc serviva ad altro, ad altri o non era ancora stato formattato mi era stato detto che potevo sedermi al bar a prendere un caffè. Pensavo che sarebbe stata una cosa momentanea, invece passavano giorni, settimane,  mesi ed il mio posto sembrava essere solo al bar con altri handicappati che come me non facevano nulla. Non potevano fare nulla! Io attendevo senza rassegnarmi: raccontavo tutto alla psicologa del Comune di Roma che a  sua volta parlava con la mia tutor all’interno della struttura, ma l’unico computer disponibile o non era pronto o era occupato e nell’Istituto non c’era nessuna mansione più utile e gratificante da svolgere. La noia, l’accidia e l’inutilità incombevano, ma non i sensi di colpa. Non potevo sentirmi in colpa per il mal funzionamento dovuto ad altri.

Questa non era la mia prima esperienza all’Istituto, durante la laurea triennale avevo svolto un altro tipo di tirocinio, mi  ero trovata bene. Affiancavo una dottoressa, osservavo dei casi di bambini, disabili e non, con problemi scolastici. Sempre in quell’occasione avevo inoltre seguito un interessante corso sulla Comunicazione Aumentativa Alternativa. A conclusione di quell’esperienza formativa avevo anche tenuto una conferenza, per gli insegnanti, sugli ausili informatici per l’handicap. C’è stata anche un’altra occasione dove il mio vissuto è servito a dare lustro all’Istituto: in occasione della presentazione del mio romanzo autobiografico. In quell’occasione, oltre a parlare del libro, ho presentato la mia evoluzione professionale, all’interno dell’Istituto e all’esterno con un progetto pedagogico nelle scuole. Quest’ultimo progetto è stato molto gratificante: mi ha permesso di raccontare l’handicap a tanti ragazzi di medie e licei che mi hanno accolta e benvoluta anziché  negare la disabilità o non volerla capire come spesso avviene a quell’età.

Al bar vedevo altri disabili che passavano interminabili mattinate a guardare il vuoto, mi ha colpito un ragazzo la cui disabilità non gli permetteva di parlare, lo vedevo sonnecchiare in una posizione scomodissima, erano pochi i disabili non inseriti in qualche interessante laboratorio.

Mentre mi annoiavo feci amicizia con un ragazzo che come me  ha solo una disabilità motoria. Anche lui si annoia ed è molto critico verso l’Istituto. Ci siamo messi d’accordo e abbiamo iniziato a vendere il mio libro a tante persone che passavano per quel bar. Lo so che è sconcertante farsi i propri interessi sul luogo di lavoro, aspettavo  che la mia tutor mi dicesse qualcosa ed ero pronta a rispondere “lo so che non devo farlo ma qui continuo a non aver nulla da fare!” Gli affari andavano a gonfie vele, la mia tutor mi vide fare le dediche, prendere i soldi e non mi disse mai nulla. Le chiesi spesso se la biblioteca, con l’unico pc disponibile, si fosse liberata; mi rispondeva che era questione di pochi giorni.

-Nel  frattempo posso restare a casa? – le chiesi- Comincio a sentire la fatica di venire qui tutti i giorni.-

-Facciamo così: il lunedì sarà il tuo giorno libero, gli altri giorni vieni perché anche se l’esperienza non è come te l’aspettavi puoi firmare la presenza.-

Non capisco questa mentalità di volere vedere gli handicappati  impegnati in qualcosa, non importa cosa e se siano veramente impegnati.

Mi rendo conto della difficoltà di realizzare piani individuali, ma la frustrazione, la rabbia, l’aggressività e l’autolesionismo che possono  sfociare da questa marginalizzazione dei disabili nel mondo del lavoro, o nell’assistenzialismo, di questo sembra che, nella maggior parte dei casi, nessuno se ne preoccupi o se ne occupi nel modo giusto.

All’istituto mi ha colpito una ragazza con ritardo cognitivo e con un problema di udito molto accentuato. Con me era dolce, mi accarezzava, mi chiedeva se avevo una caramella, mi salutava sempre… con gli operatori che la richiamavano ai suoi compiti era aggressiva, urlava e diceva moltissime parolacce. Anche se noi tutti le  dicevamo che le parolacce non si dicono lei continuava: era l’unico modo che aveva per ribellarsi e mostrare i suoi stati d’animo.

Tornando alla spinosa questione del lavoro per le persone disabili, l’articolo 1 della Legge 68/99 recita: “La presente legge ha come finalità la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato”. La Legge 68/99 stabilisce che i datori di lavoro privati e pubblici con più di 15 dipendenti al netto delle esclusioni, siano tenuti ad avere alle proprie dipendenze lavoratori appartenenti alle categorie protette (disabili) iscritti in appositi elenchi gestiti dall’Agenzia del lavoro della provincia di riferimento.

Per le aziende che occupano più di cinquanta dipendenti la percentuale riservata all’assunzione delle persone disabili è il 7%. La legge prevede questo, ma nella prassi applicativa le cose sono molto diverse, molte aziende preferiscono pagare una multa piuttosto che assumere personale con varie invalidità. Inoltre è importante notare che la realtà imprenditoriale italiana è costituita in buona parte da piccole e medie imprese a conduzione familiare (si stima infatti che la dimensione media delle imprese italiane sia di 3,7 impiegati ) per cui è quanto meno residuale, se non irreale, l’obbligo di assunzione previsto dalla suddetta legge e riferito alle aziende con più di 15 dipendenti.

È riconoscibile un fenomeno di integrazione subalterna dei disabili, che prescinde dal titolo di studio e dalle attitudini personali.

Ci sono molte persone che non si arrendono a questa realtà, organizzano associazioni, convegni, bussano a tutte le porte possibili… ma la strada è ancora lunga e la rabbia  cresce di giorno in giorno.

L’esempio riportato dimostra come, ancora una volta, per ottenere il rispetto dei propri diritti si debba portare avanti una battaglia solitaria.

La mia riflessione non vuole essere un’accusa o una lamentela. Durante la recente esperienza sono stata affiancata da due persone, la mia tutor e la psicologa del Comune di Roma, valide, presenti e molto attente al loro lavoro, ma purtroppo impotenti di fronte ad un sistema in difetto.

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Dalla scuola alla rete: cyberbullismo e dintorni

di Zoe Rondini 

Parolacce, offese e “prese in giro“, ma anche minacce, botte e danni alle proprie cose. Sono queste gli atti di bullismo che i ragazzi hanno denunciato più frequentemente. Da una prima indagine in Italia sul “bullismo“ alle superiori, un ragazzo su due subisce episodi di violenza verbale, psicologica e fisica. Il bullismo è una forma di violenza minorile che ormai è diventato una vera e propria calamità sociale.
Osservandone alcuni episodi, si evince che le prepotenze di natura verbale prevalgano nettamente rispetto a quelle di tipo fisico: il “bullismo verbale e psicologico“ consiste in minacce, prese in giro, offese e calunnie da parte di gruppi di ragazzi prevalentemente di sesso maschile anche se non mancano esempi di gruppi “misti“. Per quanto riguarda le violenze di tipo psicologico, molte vittime denunciano l’isolamento di cui è stato oggetto, alcuni di loro hanno subito anche delle minacce verbali. Le prepotenze di natura fisica risultano essere più frequenti tra i ragazzi, mentre tra le ragazze e tra i più giovani, “si rimane“ nell’offesa ed aggressione di tipo verbale.
Spesso le complesse dinamiche che si sviluppano tra adolescenti, non permettono a tutti di sentirsi parte del gruppo-classe: i ragazzi più timidi o considerati diversi in quanto omosessuali, disabili o semplicemente perché non seguono le mode del momento… possono diventare bersagli di atti d’emarginazione e bullismo a scuola e via web. Molti adolescenti sono spinti ad atti estremi perché non trovano il coraggio di ribellarsi e denunciare. Troppo spesso il gruppo predomina sul singolo che si trova isolato e smarrito.
Anche se si presenta in una forma diversa, il cyberbullismo o bullismo online è un fenomeno che non deve essere sottovalutato. Si potrebbe dire che questo rappresenti la nuova frontiera della prepotenza, più labile e indefinita della prima e quindi anche più sfuggente rispetto a sanzioni e prese di responsabilità. Nell’era digitale, gli individui sono dotati di una duplice personalità: una virtuale e una reale. Paradossalmente spesso accade che il nostro io digitale ci rappresenti più fedelmente e spontaneamente. Ne deriva che un’offesa, una soppressione o un’aggressione di questa personalità colpisca tanto quanto una presa in giro o un atto di bullismo tradizionale. Insistenti prese in giro sui social network, diffusione di foto spiacevoli, o e-mail contenenti materiale offensivo possono ferire più di un pugno o un calcio. Se analizziamo queste due forme di bullismo, “reale e virtuale“ possiamo affermare che vi è una differenza sostanziale: il cyber-bullo agisce non tanto per esercitare una violenza su qualcuno, bensì per attrarre su di sé tutte le attenzioni possibili ed avere visibilità oppure per scaricare le proprie ansie frustrazioni sul così detto nemico adatto, un incubatore di rabbia e insicurezza che può essere incarnato da chiunque sia diverso, più debole o più esposto.
L’ obiettivo del cyber-bullo non è tanto essere violento, piuttosto attrarre su di sé l’attenzione di molti utenti della rete, e, qualora sia possibile, essere “protagonista“ anche su altri mezzi di informazione. Questa ambizione di visibilità spesso cela insicurezza, poca autostima ed il bisogno di trovare nel mondo esterno quelle attenzioni che mancano da parte degli adulti di riferimento.
Lo sviluppo di siti per la condivisione di file, come quelli video (vedi You Tube), ha infatti dato un contributo notevole a rinforzare il fenomeno del cyber-bullying. Evitare che tali siti diffondano i video di bullismo sarebbe certamente un passo importante per contrastare il fenomeno, ma come ci insegna la prassi è ancora difficile individuare coloro che si macchiano del reato della diffamazione online. Non è semplice stabilire da dove sia partito l’insulto, chi sia il server ospitante e anche una volta individuati si pone il problema del tribunale competente. Morale della favola chi diviene vittima di bullismo on line non vede ancora riconosciuta una tutela della sua reputazione e dignità pari a quella riconosciuta alla vittima di diffamazione su carta stampata o altri mezzi audiovisivi. Tale disparità di tutela tuttavia non trova alcuna giustificazione, poiché come dice il giurista Rodotà “quello che è illegale offline, è illegale anche online“.

ARTICOLO PUBLICATO ANCHE SULLA RIVISTA “NEAR, Più VICINI Più UGUALI”:

http://www.retenear.it/2013/10/dalla-scuola-alla-rete-dalla-rete-alla-scuola-il-cyberbullismo/ 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Cara scuola ti ricordi di me? Esperienze e delusioni di una scolara disabile

Articolo pubblicato sulla rivista cartacea dell’Opera Montessori intitolata “La vita dell’infanzia“, uscita nel numero di maggio-giugno 2000

 

Quando sono nata, mamma aveva 27 anni ed erano le tre di pomeriggio del 16 settembre del 1981. Avevo sedici anni quando mamma, nonna e nonno mi hanno spiegato come sono andate realmente le cose quel giorno: quando mamma è entrata in sala parto stava andando tutto bene, era cominciato un normalissimo parto spontaneo. Intorno a “noi“ c’erano tanto medici bravissimi fra cui zio e nonno, entrambi ginecologi. Stavo giusto uscendo quando qualcosa, non si è mai saputo cosa, è andato storto: il battito del mio cuore tutt’a un tratto era sparito! Sono rimasta per cinque minuti senza respirare, di conseguenza non è arrivato abbastanza ossigeno al cervello e questo mi ha provocato la morte di alcune cellule del sistema nervoso centrale: quelle che controllano i movimenti. E come se tutto questo non bastasse, il medico che mi ha intubata ha “sbagliato“ e mi deve aver “sfondato un polmone“.

Il primo mese di vita l’ho passato in ospedale. Chi ben comincia è a metà dell’opera!!! Mamma e nonna mi sono sempre state vicine. Mamma, una volta uscita dall’ospedale veniva da me tutti i giorni a portarmi il latte. Ho delle foto dolcissime di quei giorni con mamma che mi tiene in braccio.

Anche nonna stava sempre lì con me, mi guardava attraverso il vetro.

Fin dai primi giorni di vita ho fatto tantissima fisioterapia e col passare del tempo ho recuperato molto bene. I medici che mi visitavano nei primi anni di vita, dicevano che non avrei mai camminato, invece adesso mi muovo da sola! Evviva l’onnipotenza della scienza medica!!!!!!

Quando avevo due anni e mezzo mamma e papà per qualche litigio che non si poteva risolvere in nessun altro modo decisero di separarsi e così fu!

Secondo me è stato meglio così perché, da quel che mi hanno raccontato, negli ultimi tempi litigavano di continuo. Tanta gente dice che i genitori devono rimanere uniti per il bene dei figli, ma io non sono d’accordo: penso che i figli soffrano meno ad avere i genitori separati che non quando i genitori vivono sotto lo stesso tetto e non fanno altro che litigare.

Quando papà si è trasferito nella sua nuova casa mi mancavano le favole che mi raccontava per farmi addormentare; le mie preferite erano “Occo ed Entola“ come io pronunciavo “Pinocchio e Cenerentola“.

Per me la scuola non è stata affatto semplice. Ne ho un ricordo terribile fin dall’asilo: mentre gli altri bambini giocavano, io sedevo nel mio banco e mi esercitavo a scrivere per imparare a controllare i movimenti.

Ricordo come un incubo tutte quelle ore trascorse a cercare di riempire pagine e pagine di quaderno.

Un altro brutto ricordo di quegli anni, ancora oggi chiarissimo nella mia memoria, erano le ore del mattino che io passavo con la maestra di sostegno tentando di camminare: con quanta invidia guardavo i miei compagni giocare! Un giorno durante uno di questi disperati tentativi sono caduta e mi sono tagliata il mento. Lo ricordo ancora abbastanza chiaramente. La suora e Daniela, la mia maestra di sostegno, mi hanno messo subito l’acqua fredda e mi hanno portata in segreteria; da l’ hanno chiamato mamma e quando è arrivata mi ha portata subito in ospedale. Appena ho capito che mi dovevano mettere i punti ho avuto tantissima paura, ma fortunatamente, mi hanno fatto l’anestesia totale e, quando mi sono svegliata, mi avevano messo ben cinque punti!!!!!

L’ultimo anno di asilo la mia maestra di sostegno mi aveva messo il terrore delle elementari: mi aveva detto che si studiava molto di più e che la suora era molto più esigente! Ero semplicemente terrorizzata: già gli anni dell’asilo erano stati anche troppo difficili, e non volevo certo finire dalla padella alla brace!

Speravo con tutte le mie forze che le elementari arrivassero il più tardi possibile! Di tutto questo ne parlavo col mio “migliore amico“: Titti; all’epoca avevo cinque anni e mi ero creata una compagnia immaginaria: “Titti“, era un curiosa animaletto con zampe di cane e corpo di coniglio, agile come uno scoiattolo, tutto bianco, ma la sua caratteristica fondamentale era quella di essere invisibile per tutti, tranne che per me. È significativo che io che mi muovevo con una certa difficoltà, gli avevo attribuito una capacità irrefrenabile di correre, arrampicarsi e saltare dovunque – sottolineo che non era affatto un gioco.

Titti per me è stato un compagno reale, una proiezione di qualcosa che sentivo dentro di me, era il mio confidente, non mi giudicava mai e la pensava sempre come me.

Quando andavo a scuola, o a fare una visita medica, lui mi restava vicino. I miei frequenti momenti di tristezza erano bilanciati dalla sua inalterabile allegria e vitalità.

È stata una lunga amicizia la nostra, penso che sia durata sette anni; poi crescendo ho trovato altri modi e altre forme per le mie fantasie. Forse da piccola nei miei pensieri volevo essere un’altra e forse questo potrebbe spiegare molte cose.

Il mio cartone animato preferito infatti si chiamava “Milly un giorno dopo l’altro“ ed era la storia di una bambina che viveva in campagna in un grande casale con la nonna: lei era “libera“; poteva fare quello che voleva, non aveva la bambinaia, poteva uscire dal casale, girare da sola e fare tante altre piccole cose che io non potevo fare ma le desideravo molto.

Quando le elementari sono arrivate tutte le mie paure hanno avuto conferma. Ancora oggi non ho certo un bel ricordo dei miei anni di asilo e delle elementari ho, se possibile, un ricordo ancora peggiore: la suora era brava, ma molto esigente! Io andavo male, facevo una gran fatica a leggere ememorizzare!!! Mi faceva scrivere a mano e per me era veramente un’impresa!

In quegli anni andavo malissimo a scuola: mi ricordo che quei cinque anni mi sembravano un’eternità. Il tempo non mi passava mai; ancora oggi se ci ripenso mi sembra che le elementari siano durate un’infinità di tempo!!!!

Mamma sapeva che la mia situazione scolastica era disastrosa: andavo male in tutte le materie soprattutto in matematica ma non ne faceva un dramma…tutto questo mi rendeva già infelice e tesa.

Alle medie la situazione migliorò sotto certi aspetti: ero più seguita, avevo sempre la professoressa di sostegno ed a casa ero molto aiutata.

Dopo varie lotte sostenute dalla mia famiglia con la preside ho avuto il permesso di usare la macchina da scrivere.

Intanto all’età di dieci anni mamma e nonna mi regalarono un computer e con l’aiuto di un logopedista molto in gamba che mi ha seguita imparai ad usarlo. Lo potei usare in classe solo in terza media: la legge prevedeva che le persone con problemi motori potessero usare la macchina da scrivere ma non diceva niente riguardo ai computer così ci vollero due anni di battaglie per poterlo usare a scuola!!!!

Eppure anche le medie non sono “scivolate via“ senza lasciare qualche “simpatico“ ricordino (ovviamente dico “simpatico“ ora che ho diciotto anni e ho terminato i sinonimi di “orribile“).

In seconda media, infatti, mi è successi un fatto che tuttora mi sembra inverosimile: un giorno a settimana dovevo mangiare un panino a scuola e rimanere un’ora in più. All’ora di pranzo io dovevo andare in bagno. Prima di allora non avrei mai immaginato che una semplice pipì potesse comportare un problema di dimensioni mastodontiche!

Né la professoressa di sostegno né la bidella volevano prendersi la responsabilità di accompagnarmi in bagno perché, a quanto pare, se fossi caduta, per loro sarebbero stati guai seri! All’inizio veniva mia mamma all’una e mezza, mi portava un panino e mi accompagnava al bagno. Dovevo andare a quello dei maschi perché quello delle femmine era al piano di sopra. Per me non era un problema fare un piano di scale: se qualcuno mi avesse dato una mano ci sarei riuscita benissimo ma, a quanto pare, per la preside non era così semplice perché me lo aveva proibito!

Inutile dire che a ricreazione tutti potevano uscire tranne la sottoscritta che doveva rimanere seduta al proprio banco perché nessuno voleva prendersi la responsabilità di farmi fare quattro passi fino al cortile!!! Quest’arduo compito non competeva a nessuno: non era compito né delle professoresse, né della bidella, né dell’insegnante di sostegno. Le uniche che sarebbero state felici di passeggiare con me erano le mie compagne di classe, ma fu loro severamente proibito!!!

Logicamente tutta questa situazione cominciò ben presto a pesarmi. Non capivo né il come né il perché di questi problemi insormontabili; era tutto paradossalmente assurdo: da una parte la mia famiglia che combatteva per cose che fino a quel momento mi erano sembrate ovvie, tutti gli alunni di questo mondo hanno il diritto di rimediare ai loro bisogni fisici e non capivo perché io fossi esclusa dal club, dall’altra presidi e professori iscritti al girone dei torturatori infernali.

Se fare pipì o sgranchirmi le gambe era severamente proibito, era qualcosa di diabolico, talmente grave da meritare nell’al di là e nell’al di qua condanne indicibili. Per una classe formata da tredici ragazzi dovevano esserci due professoresse a cui si aggiungeva la mia professoressa di sostegno; è ovvio che non era ancora sufficiente: la scuola voleva che andassi accompagnata!

Quel periodo è stato un incubo. Avevo una professoressa di sostegno (e paradossalmente ero io a fare da sostegno a lei per come era limitata) e una preside che non ne voleva sapere delle mie richieste di andare in bagno, anche accompagnata. Mia madre a cui avevo riferito tutto, una mattina chiese alla bidella se gentilmente mi poteva accompagnare lei; lei il primo giorno lo fece, poi, disse, che non se la sentiva di prendersi questa responsabilità, poiché c’è la professoressa di sostegno – e così si ricominciava.

La mattina, in classe, ero abbastanza integrata; la maggior parte delle mie amiche mi conosceva dalle elementari quindi “la mia figura…“ non le metteva a disagio; e perché mi chiedevo, allora, fuori della scuola per loro “ero quasi inesistente“?! io mi sentivo uguale a loro: avevo gli stessi interessa, la stessa voglia di divertirmi, di non studiare e di far danni!

Ancora non ho capito l’utilità della “mia accompagnatrice“ visto che non avevo bisogno di cose particolari!!! Ma tutto sommato…la vita è troppo breve per perdere tempo e fatica con questi grandi misteri!!!!!

Tutte queste esperienze negative hanno lasciato in me un segno indelebile: ancora oggi, a distanza di dieci anni, mi capita spesso di pensare ai primi anni della mia scuola e ci soffro, ma è anche vero che tutto questo mi ha dato una “formazione interiore“ che poche persone possiedono, e nessuno potrà mai levarmela.

 

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Domenica 3 febbraio al museo del sottosuolo: dal buio alla luce

C.S. DOMENICA 3 FEBBRAIO 2013 ORE 11.00 AL MUSEO DEL SOTTOSUOLO: DAL BUIO ALLA LUCE A CURA DI BARBARA BETH E CINZIA CAPUTO.

Riprendono gli appuntamenti, in un’atmosfera suggestiva, con il Museo del Sottosuolo.

 

L’appuntamento è per domenica 3 febbraio 2013 alle ore 11 per festeggiare insieme la Festa della Luce, accompagnati da suoni, danze, giochi di luce e intrecci di parole.

 

Dall’antro situato a piazza Cavour 140 sarà possibile scendere nelle viscere della terra, accompagnati da Persefone, la sposa di Ade, dalla triplice natura. Una discesa nell’oscurità per poi riemergere dal suo ventre a nuova vita.

 

Infatti, originariamente in questo periodo dell’anno si usava purificare la città e si onoravano i defunti e gli dei degli Inferi.  Inizialmente si celebravano anche riti per    propiziare la fertilità della terra.

Le donne giravano per le strade recando tra le mani candele accese a simboleggiare il ritorno della luce. Infatti,  la festa celebrava  la fine dell’anno, che cadeva nel mese di febbraio secondo il ciclo agreste-vegetativo, e preparava ai successivi riti di primavera. Un momento di transizione, a metà tra due stagioni e due mondi… quello dei morti e quello dei vivi.

 

Non a caso un famoso detto popolare a riguardo recita:

 

“Quando vien la Candelora

de l’inverno semo fora;

ma se piove o tira il vento

de l’inverno semo dentro.“

 

E’ quindi un momento di passaggio, tra “l’inverno-buio-morte” e la “primavera-luce-risveglio“. Questo passaggio viene celebrato con un doppio saluto: di addio all’anno che si chiude e di benvenuto ad un nuovo ciclo, con la purificazione e la preparazione alla nuova stagione.

 

In base al processo di cristianizzazione degli antichi riti connessi ai cicli della natura, la Candelora coincide con il momento in cui Maria viene riammessa al tempio, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù. Infatti, per gli Ebrei, dopo il parto di un maschio, una donna era considerata impura per un periodo di 40 giorni.

 

SULLA SCENA

 

Collaborazioni:

 

ideazione: Cinzia Caputo  psicoanalista Junghiana e Barbara 

Beth storica dell’arte e ricercatrice in questo campo

musicale: Carla Punzo, Gustavo de Lutio, France

Guarracino, Giuseppe Schiattarella,

danzante:  Elisabetta Surico

canora: Massimo Rispoli,

poetica: Vanda Marasco,Tullia Bartolini, Angela 

 Schiavone, Sabina Siracusano, Ester Basile, Rita Felerico

pittorica: Marcella Rodriguez

 

 

La quota di partecipazione per l’evento e di 7 euro. E’ consigliabile un abbigliamento adeguato ( scarpe comode e borse poco ingombranti).

 

Per i partecipanti è previsto anche uno stuzzicante aperitivo.

 

La prenotazione è obbligatoria fino ad esaurimento dei posti disponibili. Per prenotare telefonare o inviare un sms ai numeri  328-5397375 oppure 333-2877718.

 

Il Museo del Sottosuolo è situato a piazza Cavour 140. Le visite ordinarie si svolgono di sabato e domenica con partenza alle 10- 12 – 15.30 – 17.30 (www.lamacchinadeltempo.infoinfo@lamacchinadeltempo.info)

 

Addetto Stampa: Dr.ssa Tania Sabatino

Mobile: 320-5741842

E-mail ufficiostampalmdt@gmail.com

 

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Il disabile e lo Stato

Nel 2001 l’Organizzazione mondiale della sanità propose un nuovo punto di vista per il concetto di disabilità. Questo infatti viene definito come “la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di un individuo e i fattori personali e i fattori ambientali che rappresentano le circostanze in cui vive l’individuo“. La definizione appare notevolmente ampia e inclusiva di diverse situazioni, rivelando un’ottica moderna. Accogliere tale affermazione (nella pratica ed in tutto il suo profondo e complesso cambiamento) nel nostro paese significherebbe andare contro e superare le profonde convinzioni culturali che portano a trattare l’handicappato con pietismo e a sostituirsi a questo in tutte le mansioni, anche in quelle che sarebbe in grado di svolgere autonomamente con un po’ più di tempo, pazienza e impegno.
In Italia una cultura arcaica indissolubile e radicata, impermeabile a riforme di legge e cambiamenti sociali, impedisce una reale integrazione del disabile nella società. Questo avviene sia sotto un’ottica di sostegno economico e sanitario, sia in un’ottica di emancipazione e autonomia. Molte persone normodotate credono nella teoria di accettare la disabilità, ma quando si trovano di fronte alle vere e piccole esigenze che un disabile pone loro si rivelano incapaci e indifferenti.
A questo proposito vorrei ora riportare uno stralcio dell’ articolo: http://www.cprogettosud.it/editoria/una%20possibile%20autonomia/3.html. Nel testo viene condotta un’analisi comparata delle situazioni dei cittadini disabili in alcune città europee. L’ipotesi di partenza è che vi sia un nesso molto stretto tra contesto socio-economico, contesto culturale e condizioni di vita dei disabili. I paesi presi in considerazione sono: Albania, Serbia, Olanda e Finlandia. Dalle testimonianze riportate nell’articolo si evince chiaramente che nei paesi, come Serbia e Albania, attraversati da crisi economiche e politiche, le persone disabili arrivano a dimenticare il loro handicap per lavorare e sopravvivere. Lo stato non è in grado di fornire loro alcun diritto speciale. Nei paesi del Nord Europa, invece, dove lo Stato è al servizio dei cittadini, troviamo testimonianze di perfetta integrazione o di significativo sostegno economico. Bisogna comunque riconoscere l’esistenza di più fattori che incidono sulla presenza dello stato nella vita di una persona con disabilità: la densità degli abitanti nei diversi stati, le origini culturali e l’evoluzione stessa della cultura di un determinato paese e le diverse situazioni economiche nazionali. A questi macro fattori se ne aggiungono altri dettati dalla mentalità delle singole persone, famiglie e comunità.
Passando ora ad analizzare il rapporto tra Stato e disabile nel nostro paese, l’Italia, lo scenario che ci si presenta non è dei più confortanti. Basti vedere alcuni dati rinvenuti dalla pagina «La disabilità in cifre» dell’Istat: in Italia i disabili «sono 2 milioni 600 mila, pari al 4,8% circa della popolazione di 6 anni e la maggior parte vive in famiglia. Considerando anche le 190.134 persone residenti nei presidi socio-sanitari si giunge a una stima complessiva di poco meno di 2 milioni 800 mila persone.“ A farsi carico dell’assistenza delle persone non autosufficienti sono, in misura sempre maggiore, le famiglie. In particolare sono le donne, figlie, mogli, nuore, le indiscusse protagoniste del lavoro di cura. Si è assistito, negli ultimi anni, ad un notevole passo indietro dello Stato nel sussidiare le famiglie in questione. Pochi numeri, presi da un’inchiesta del «Sole 24 Ore», dicono tutto. Rispetto al Pil, l’Italia spende molto più della media dell’Europa a 15 per le pensioni (16,1% contro 11,7%), come gli altri nel totale del welfare (26,5% contro 26%) ma nettamente meno per la non autosufficienza: 1,6% contro 2,1%. Un quarto di meno. Basti vedere, in un’analisi di Antonio Misiani, il taglio delle due voci che più interessano l’handicap. Dal 2008 al 2013 il Fondo per le politiche sociali precipita nelle tabelle del governo Berlusconi da 929,3 milioni di euro a 44,6. Quello per la non autosufficienza da 300 a 0: zero! Numeri che da soli confermano il giudizio durissimo del Censis: «La disabilità è ancora una questione invisibile nell’agenda istituzionale, mentre i problemi gravano drammaticamente sulle famiglie, spesso lasciate sole nei compiti di cura». Peggio:«L’assistenza rimane nella grande maggioranza dei casi un onere esclusivo della famiglia».
Pietro Barbieri, presidente della Fish, la Federazione italiana del sostegno all’handicap, traccia il seguente quadro: «Da noi si spende meno della metà della media europea a 15 per la non autosufficienza. E il dato comprende sia l’indennità civile che l’assistenza domiciliare pagata dai Comuni. Qui non si tratta di prendere provvedimenti più equi, qui si dice alle famiglie “arrangiatevi!”» E a quel punto sapete cosa accadrà? «Che le famiglie cominceranno a chiedere il ricovero per un congiunto non autosufficiente. E a quel punto avremo una maggiore segregazione di persone che non hanno fatto nulla di male e un costo molto più alto per il Paese. (1)
Lo  scarico di responsabilità da parte dello Stato, registrato nelle analisi riportate sopra, può essere attribuito a diverse variabili. A cominciare dalla crisi economica che affligge ciclicamente il nostro Paese, all’affermarsi indiscusso di un capitalismo senza freni e senza scrupoli che ha portato ad un dilagante individualismo: ognuno deve pensare per sé, e se riesce gli è consentito scavalcare gli altri nella distribuzione di beni e diritti. Le famiglie composte anche da persone disabili non si salvano da tale vortice. Il Welfare State va lasciando il posto ad un Welfare State privato, composto da badanti, parenti e amici. Tale fenomeno lascia l’amarezza e il senso di tanti nuclei familiari di sentirsi completamente abbandonati dal proprio governo. Alla fine dei conti ci si organizza e tristemente rassegnati si rinuncia a rivendicare attenzioni pubbliche verso cittadini bisognosi. L’assuefazione all’assenza dello Stato è totale.

(1) “I disabili (veri) dimenticati dallo Stato , In Italia 2 milioni 800 mila di persone non autosufficienti. E tutto il carico ricade sulle spalle delle famiglie.“ Di Gian Antonio Stella fonte: www.corriere.it

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