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Torna “Nata viva“ di Zoe Rondini. A Roma, la presentazione della nuova edizione e la proiezione del corto

Fonte: ReteNear

Zoe Rondini con il suo romanzo  “Nata Viva“. Sabato 28 novembre, a partire dalle 19:00, la presentazione della seconda edizione e la proiezione dell’omonimo corto presso le Officine XN di San Lorenzo di Roma per una serata densa di novità. Il romanzo, nella sua seconda edizione, edita dalla Società editrice Dante Alighieri vedrà infatti la presentazione del cortometraggio, ispirato alla protagonista Zoe e alla sua opera prima.

Presenta l’opera Paolo Restuccia, codirettore della Scuola di scrittura Omero e della casa editrice Omero editore, regista del programma radiofonico «Il Ruggito del Coniglio» e autore. Intervegono, Lucia Pappalardo, regista , tra gli altri, del cortometraggio «Nata viva», autrice e giornalista e Stefano Viali, attore e regista, che interpreterà alcuni passaggi del romanzo.

“Tutti i dottori si affrettano a rianimarmi, ma rimango cinque minuti completamente senza respirare. Si tratta solo di cinque minuti, ma sono i primi della mia vita“.

Poi Zoe comincia a respirare. E a vivere. Quei cinque minuti dopo rispetto agli altri neonati, la costringeranno a confrontarsi fin dai primi mesi, con una vita che è cominciata più tardi ma che pian piano non tarderà a essere così tanto desiderata da consentire a Zoe di superare qualsiasi ostacolo. All’età di tredici anni, a causa di un lutto doloroso, Zoe intraprende l’avventura più importante: dare vita ad un racconto autobiografico, che l’accompagnerà per ben 16 anni. Lungi dall’essere un trattato o un saggio sulla disabilità, “Nata viva“ vuole essere un racconto appassionato e antipedagogico di una ragazzina e poi di una ragazza, che tra luci e tenebre ha saputo lottare per raggiungere e conquistare quella serenità che tutti bramiamo. Nel suo stile rapsodico, Zoe si fa cantore e testimone con la sua voce, dell’incontro sorprendente tra limite e prospettiva, civiltà e pregiudizio, presenza e invisibilità. Insieme a lei, anche noi riviviamo il nostro essere stati bambini o adolescenti incompresi. Nel suo romanzo di formazione Zoe costringe il lettore a non dimenticare mai lo scarto enorme che c’è tra vivere ed esistere, inchiodandoci all’idea che per nascere veramente, ad ogni occasione, bisogna sentirsi vivi, gridarlo e raccontarlo al mondo intero.Il volume “Nata viva“ nella sua prima stesura, ha ottenuto diversi riconoscimenti ai seguenti premi letterari:

€¢Finalista al Premio Firenze 2011 – Centro culturale Firenze Europa “Mario Conti“ – XXIX Premio Firenze sezione D -narrativa edita.

€¢Segnalata al concorso letterario “Premio nazionale di letteratura Prof. “Francesco Florio“ 23 edizione 2011 – Licata“ con un diploma di elogio, ottenendo il punteggio di 93/100.

€¢Menzione d’onore con diploma di merito al Premio nazionale di poesia, narrativa e fotografia “Albero Andronico“ V edizione.

€¢Semifinalista e Menzione d’onore con diploma di merito al XVIII Premio letterario internazionale “Trofeo penna d’autore“ nella sezione A: libri narrativa e saggistica.

PER SAPERNE DI PIU’:

Società Editrice Dante Alighieri

EVENTO:

Torna “Nata viva“ di Zoe Rondini. A Roma, la presentazione della nuova edizione e la proiezione del corto.

Data:

28 novembre 2015

Organizzatore:

Zoe Rondini

Luogo:

Officine XN

Indirizzo:
Via dei Dalmati 15, Roma

 SINOSSI DEL CORTO NATA VIVA:

È  la storia di Zoe Rondini una ragazza che per i primi 5 minuti della sua vita non ha respirato. Zoe ha scritto un libro che racconta la sua vita, allegra e faticosa (Società editrice Dante Alighieri). Il corto, in un certo senso, prosegue il romanzo, concentrandosi sulle difficoltà e le conquiste “nuove“ di una Zoe matura e consapevole,  contornata però da amici e familiari che sanno riconoscere la sua forza, la sua tenacia e la sua ironia anche nell’ età adulta.

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La mia prima esperienza di tirocinio-lavoro

Sono una ragazza che ha conseguito la laurea triennale in Scienze dell’Educazione e della Formazione con lode. Ho terminato il mio percorso di studi specializzandomi in Editoria e Scrittura  alla facoltà di Lettere della Sapienza, votazione 108 su 110.

Mentre studiavo ho pubblicato il mio primo libro, un romanzo di formazione dal titolo Nata viva.

Come tanti altri giovani, anch’io da  neolaureata ho cominciato ad inviare il curriculum ad un numero considerevole di enti sia privati sia pubblici. Molti di questi si sono congratulati per le mie esperienze pregresse, dicendomi che gli sarebbe piaciuto avermi nel loro organico, ma purtroppo non avevano possibilità di assumermi.

Dopo mesi di ricerche, mi si aprì un unico spiraglio per il curriculum inviato al comune di Roma, precisamente allo Sportello Disabili Adulti. Una dottoressa mi chiamò dicendomi che potevo iniziare un “tirocinio-lavoro”. Accettai. E fu così che scoprii la realtà del lavoro per disabili, una realtà che quando mi impegnavo per tenere alta la media dei tanti esami universitari, non avrei mai immaginato. Prima di una vera e propria assunzione bisogna fare un lungo tirocinio e non conta se hai un bel curriculum o meno, se hai una disabilità solamente fisica o un ritardo cognitivo, se sei plurilaureato o hai conseguito la licenza media… Il tirocinio dura sei mesi senza prospettive garantite per il dopo, ed è per tutti di basso livello. C’è chi sistema libri tutto il giorno, chi mette a posto le merci nel magazzino di un supermercato e chi come me dovrebbe catalogare le foto in un grande istituto  per disabili. E’ proprio in un istituto per disabili che mi sono trovata. Avendo una disabilità motoria mi è  stato offerto un “compito” al pc di catalogazione foto e di scrittura. Poca roba direte voi, ma si sa che all’inizio c’è la gavetta per tutti! Andavo lì ogni giorno come un vero par-time peccato che il pc era sempre occupato! Ho fatto pochissime ore di  lavoro effettivo, anche se dovevo andare lì comunque tutti i giorni in quanto avevo firmato un contratto con il comune di Roma, dal quale ho ricevuto un piccolo rimborso spese; mentre il pc serviva ad altro, ad altri o non era ancora stato formattato mi era stato detto che potevo sedermi al bar a prendere un caffè. Pensavo che sarebbe stata una cosa momentanea, invece passavano giorni, settimane,  mesi ed il mio posto sembrava essere solo al bar con altri handicappati che come me non facevano nulla. Non potevano fare nulla! Io attendevo senza rassegnarmi: raccontavo tutto alla psicologa del Comune di Roma che a  sua volta parlava con la mia tutor all’interno della struttura, ma l’unico computer disponibile o non era pronto o era occupato e nell’Istituto non c’era nessuna mansione più utile e gratificante da svolgere. La noia, l’accidia e l’inutilità incombevano, ma non i sensi di colpa. Non potevo sentirmi in colpa per il mal funzionamento dovuto ad altri.

Questa non era la mia prima esperienza all’Istituto, durante la laurea triennale avevo svolto un altro tipo di tirocinio, mi  ero trovata bene. Affiancavo una dottoressa, osservavo dei casi di bambini, disabili e non, con problemi scolastici. Sempre in quell’occasione avevo inoltre seguito un interessante corso sulla Comunicazione Aumentativa Alternativa. A conclusione di quell’esperienza formativa avevo anche tenuto una conferenza, per gli insegnanti, sugli ausili informatici per l’handicap. C’è stata anche un’altra occasione dove il mio vissuto è servito a dare lustro all’Istituto: in occasione della presentazione del mio romanzo autobiografico. In quell’occasione, oltre a parlare del libro, ho presentato la mia evoluzione professionale, all’interno dell’Istituto e all’esterno con un progetto pedagogico nelle scuole. Quest’ultimo progetto è stato molto gratificante: mi ha permesso di raccontare l’handicap a tanti ragazzi di medie e licei che mi hanno accolta e benvoluta anziché  negare la disabilità o non volerla capire come spesso avviene a quell’età.

Al bar vedevo altri disabili che passavano interminabili mattinate a guardare il vuoto, mi ha colpito un ragazzo la cui disabilità non gli permetteva di parlare, lo vedevo sonnecchiare in una posizione scomodissima, erano pochi i disabili non inseriti in qualche interessante laboratorio.

Mentre mi annoiavo feci amicizia con un ragazzo che come me  ha solo una disabilità motoria. Anche lui si annoia ed è molto critico verso l’Istituto. Ci siamo messi d’accordo e abbiamo iniziato a vendere il mio libro a tante persone che passavano per quel bar. Lo so che è sconcertante farsi i propri interessi sul luogo di lavoro, aspettavo  che la mia tutor mi dicesse qualcosa ed ero pronta a rispondere “lo so che non devo farlo ma qui continuo a non aver nulla da fare!” Gli affari andavano a gonfie vele, la mia tutor mi vide fare le dediche, prendere i soldi e non mi disse mai nulla. Le chiesi spesso se la biblioteca, con l’unico pc disponibile, si fosse liberata; mi rispondeva che era questione di pochi giorni.

-Nel  frattempo posso restare a casa? – le chiesi- Comincio a sentire la fatica di venire qui tutti i giorni.-

-Facciamo così: il lunedì sarà il tuo giorno libero, gli altri giorni vieni perché anche se l’esperienza non è come te l’aspettavi puoi firmare la presenza.-

Non capisco questa mentalità di volere vedere gli handicappati  impegnati in qualcosa, non importa cosa e se siano veramente impegnati.

Mi rendo conto della difficoltà di realizzare piani individuali, ma la frustrazione, la rabbia, l’aggressività e l’autolesionismo che possono  sfociare da questa marginalizzazione dei disabili nel mondo del lavoro, o nell’assistenzialismo, di questo sembra che, nella maggior parte dei casi, nessuno se ne preoccupi o se ne occupi nel modo giusto.

All’istituto mi ha colpito una ragazza con ritardo cognitivo e con un problema di udito molto accentuato. Con me era dolce, mi accarezzava, mi chiedeva se avevo una caramella, mi salutava sempre… con gli operatori che la richiamavano ai suoi compiti era aggressiva, urlava e diceva moltissime parolacce. Anche se noi tutti le  dicevamo che le parolacce non si dicono lei continuava: era l’unico modo che aveva per ribellarsi e mostrare i suoi stati d’animo.

Tornando alla spinosa questione del lavoro per le persone disabili, l’articolo 1 della Legge 68/99 recita: “La presente legge ha come finalità la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato”. La Legge 68/99 stabilisce che i datori di lavoro privati e pubblici con più di 15 dipendenti al netto delle esclusioni, siano tenuti ad avere alle proprie dipendenze lavoratori appartenenti alle categorie protette (disabili) iscritti in appositi elenchi gestiti dall’Agenzia del lavoro della provincia di riferimento.

Per le aziende che occupano più di cinquanta dipendenti la percentuale riservata all’assunzione delle persone disabili è il 7%. La legge prevede questo, ma nella prassi applicativa le cose sono molto diverse, molte aziende preferiscono pagare una multa piuttosto che assumere personale con varie invalidità. Inoltre è importante notare che la realtà imprenditoriale italiana è costituita in buona parte da piccole e medie imprese a conduzione familiare (si stima infatti che la dimensione media delle imprese italiane sia di 3,7 impiegati ) per cui è quanto meno residuale, se non irreale, l’obbligo di assunzione previsto dalla suddetta legge e riferito alle aziende con più di 15 dipendenti.

È riconoscibile un fenomeno di integrazione subalterna dei disabili, che prescinde dal titolo di studio e dalle attitudini personali.

Ci sono molte persone che non si arrendono a questa realtà, organizzano associazioni, convegni, bussano a tutte le porte possibili… ma la strada è ancora lunga e la rabbia  cresce di giorno in giorno.

L’esempio riportato dimostra come, ancora una volta, per ottenere il rispetto dei propri diritti si debba portare avanti una battaglia solitaria.

La mia riflessione non vuole essere un’accusa o una lamentela. Durante la recente esperienza sono stata affiancata da due persone, la mia tutor e la psicologa del Comune di Roma, valide, presenti e molto attente al loro lavoro, ma purtroppo impotenti di fronte ad un sistema in difetto.

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La Cantastorie Zoe: impressioni di uno spettatore

Il 31 maggio 2012, mi sono recato al teatro Abarico, di via dei sabelli, con una certa dose di perplessità e sopratutto perché Zoe (nome d’arte di Marzia) ci teneva a vedermi con lei, in prima fila.

A dire la verità, non avevamo quasi mai parlato di questa impresa – dopo una piccola recita avvenuta nella tarda estate del 2011, nella casa dei genitori di Matteo Frasca. Nemmeno conosco gli sforzi di preparazione che la necessità di “imparare la parte“ ha richiesto, ad ambedue i giovani attori – sotto la guida della brava e sensibile Tiziana Scrocca. Ebbene, mi sono trovato di fronte ad una vera sorpresa. Un racconto svolto nelle molteplici pagine di un libro annedottico, come “Nata viva ove ciascuno degli episodi ha valore di ricordo sentimentale di un passato che non tornerà più, ma ha inciso nella memoria ed ha costruito la sensibilità umana e la partecipazione alla vita sociale di una persona che “nel venire al mondo“ ha giocato il suo destinoè stato magistralmente tradotto nello spettacolo teatrale ove il “vedere“ dei gesti, “l’ascoltare“ di brevi frasi mozze; l’ostentare di giocattoli, collane e fotografie; il suono sempre coerente di brevi frasi musicali hanno racchiuso – quasi condensato –   circa trent’anni di vita nella simbologia di quei primi “cinque minuti di non respiro“.

Questa “trovata“ degnissima ed efficace con la quale è stato costruito teatralmente il racconto ha consentito di narrare quasi una progressiva previsione da parte dell’istinto del sub conscio di Zoe di ciò che sarebbe successo, negli anni a venire, se la decisione fosse stata a favore del vivere.
La nota bassa e progressivamente ritmata con maggiore frequenza delle chitarra ha finalmente “espresso“ questa “scelta“ dal cuore noenatale di Zoe.

Nel guardare con ammirazione ciò che nel palcoscenico andava svolgendosi, mi è tornato alla memoria l’antico maestro liceale che mi insegnava cos’è il Teatro: azione.  E ripeteva la nota frase: ACTIO, ACTIO, ACTIO!

Tiriamo le conclusioni:  la piece recitata benissimo da ambedue i giovani attori/autori, è metafora di una possibilità di esistenza piena e reale con tutte le sue gioie e le sue pene; anche a dispetto di qualche difficoltà fisica – e questo è l’essenziale!

Fa pensare per le “potenzialità“ che presentano molti di questi “non fortunati“ colpiti nei primi minuti dopo la nascita ed anche, talvolta, nel tempo trascorso nel grembo materno. Ad essi non andrebbe attribuito solamente un sorriso di compassione, ma dovrebbe essere loro rivolta una solidarietà completa.

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La Cantastorie Zoe, spettacolo tratto dal romanzo “Nata Viva”

Zoe Rondini è Nata Viva

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Articolo ed intervista tratta da Letto e Bloggato: http://paneeparadossi.netsons.org/?p=2320

Salve a tutti, vi invito a leggere l’ultima intervista e articolo su “Nata viva“. In particolare potete  soffermarvi su: “LA MIA OPINIONE“ scritta dalla bravissima blogger di “Letto e Bloggato“ e le domande numero 3, 6, 7,

Buona lettura

Zoe Rondini 🙂

 

Sul libro:
“… Tutti i dottori si affrettano a rianimarmi, ma rimango cinque minuti completamente senza respirare. Si tratta solo di cinque minuti, ma sono i primi della mia vita“. Poi Zoe comincia a respirare. E a vivere. Quei cinque minuti dopo rispetto agli altri neonati, la costringeranno a confrontarsi fin dai primi mesi, con una vita che è cominciata più tardi ma che pian piano non tarderà a essere così tanto desiderata da consentire a Zoe di superare qualsiasi ostacolo. All’età di tredici anni, a causa di un lutto doloroso, Zoe intraprende l’avventura più importante: dare vita ad un racconto autobiografico, che l’accompagnerà per ben 16 anni. Lungi dall’essere un trattato o un saggio sulla disabilità, Nata Viva vuole essere un racconto appassionato e antipedagogico di una ragazzina e poi di una ragazza, che tra luci e tenebre ha saputo lottare per raggiungere e conquistare quella serenità che tutti bramiamo. Nel suo stile rapsodico, Zoe si fa cantore e testimone con la sua voce, dell’incontro sorprendente tra limite e prospettiva, civiltà e pregiudizio, presenza e invisibilità. Insieme a lei, anche noi riviviamo il nostro essere stati bambini o adolescenti incompresi. Nel suo romanzo di formazione Zoe costringe il lettore a non dimenticare mai lo scarto enorme che c’è tra vivere ed esistere, inchiodandoci all’idea che per nascere veramente, ad ogni occasione, bisogna sentirsi vivi, gridarlo e raccontarlo al mondo intero.

La mia opinione:
Per Arthur Bloch “la vita può essere capita solo all’indietro, ma va vissuta in avanti“ e “Nata Viva“ è una perfetta sintesi di questo pensiero. Questo romanzo autobiografico appare infatti rivolto sia all’indietro, al passato, così come lo è in avanti, verso il futuro. Ne esce un libro delicato e insieme crudo, scevro di pietismi, dove la voce limpida dell’io narrante mostra, con incedere penetrante, le avversità e insieme le rivincite di una vita nata con 5 minuti di ritardo. Pur essendo alla sua prima prova letteraria l’autrice riesce efficacemente a universalizzare la sua storia, non limitandosi a darne testimonianza, ma cercando di comprenderla ed interpretarla con occhi diversi, in differenti momenti della sua vita. Da questa iniziale esigenza di chiarezza, sui fatti passati e sui rapporti personali e familiari, si passa fluidamente alla denuncia dello stato di inerzia e di indifferenza che colpisce troppo spesso la scuola e chi si considera educatore. Nata viva è un libro forte e generoso la cui unica pecca è forse il poco spazio lasciato al vissuto dei tanti personaggi che lo popolano. Una conoscenza più approfondita del loro passato avrebbe potuto spiegare e contestualizzare alcune loro scelte e decisioni e renderli più accessibili al lettore. Un esordio comunque promettente e coraggioso che fan ben sperare per eventuali scritti futuri.

E ora l’intervista con l’autrice:

1) Che ne dici di iniziare raccontandoci qualcosa di te?
Le mie esperienze sono state condizionate da una nascita difficile e diversa da come avviene generalmente; ho un handicap motorio dovuto ad una anossia neonatale che ha comportato la lesione di alcuni neuroni che controllano i movimenti. Con il tempo e tantissima terapia riabilitativa ho imparato a camminare, a parlare, a controllare i movimenti delle mani così detti “fini“; oggi guido la macchina, sono laureata in “scienze dell’educazione e della formazione, vado spesso al cinema… ho una vita normale!
Da pochi mesi ho coronato il sogno della mia vita: vedere la mia autobiografia pubblicata! Ora sto svolgendo degli incontri nelle scuole medie per raccontare a gli adolescenti dei fatti di vita reale; è bello sentirli interessati e partecipi e sono contenta di rispondere alle tante domande che loro mi pongono! È stata anche una piacevole sorpresa che tanti alunni, di loro iniziativa mi hanno chiesto dove potevano acquistare il libro.
Dopo la laurea triennale in “scienze d’educazione e della formazione“ mi sono iscritta alla laurea magistrale in “editoria e scrittura“ nella speranza che una buona preparazione teorica mi possa agevolare nella scrittura e che questa mia passione si trasformi, prima o poi, in un lavoro. Tutto il mio corso di studi si è svolto a La Sapienza.
Sto anche scrivendo una sceneggiatura di uno spettacolo teatrale ispirato al libro che andrà in scena a Roma tra qualche mese. Più in là pubblicherò tutte le informazioni al riguardo sul mio sito internet www.piccologenio.it .

2) So che “Nata Viva“ ha richiesto diverso tempo e più revisioni prima che tu decidessi di pubblicarlo. Quando e come è maturato in te il progetto per questo libro?
Parliamo anche del particolare e significativo titolo che vorrei tu ci spiegassi.

A nove anni è iniziata la mia passione per la scrittura: io bambina avevo iniziato una fiaba, speravo di scrivere per altri bambini in un linguaggio, quello delle favole, che conoscevo bene. Dopo poco ho capito che ero ancora troppo piccola per un’impresa così ardua ed rinuncia.
A tredici anni iniziai una lunghissima ed importante avventura: narrare la mia vita e fissare sulla carta i ricordi, le vicende tristi dolorose ma anche quelle belle ed importanti. L’idea mi è nata in seguito ad un episodio doloroso: era l’estate 1994 quando Rickie, il secondo marito di mia madre è venuto a mancare. Avevo l’esigenza di ricordate tutto di lui e degli anni nei quali mi ha fatto da padre.
Crescendo ho continuato la mia autobiografia: mi sono resa conto che volevo narrare un po’ tutta la mia vita in quanto ritenevo (e ritengo ancora oggi) che c’erano dei fatti importanti legati alla mia nascita, alla mia famiglia, al vissuto scolastico e alle enormi difficoltà che avevo superato ai bellissimi viaggi che ho avuto fortuna di poter fare, ai sogni realizzati e da realizzare. Tutte esperienze condivisibili da tante persone disabili e non.
Per quanto riguarda il titolo del mio breve romanzo di formazione “Nata viva“ possono esserci due significati: il primo è quello più letterale, più esplicito, in riferimento a tutto quello che mi è capitato nel momento della mia nascita, nella quale sono rimasta quasi cinque minuti completamente senza respirare. Il secondo significato è più celato e metaforico, ma credo ugualmente comprensibile dalla lettura. Riguarda la vita di tutte le persone e la volontà di affrontare a testa alta le difficoltà e i momenti di sconforto con la volontà di vivere la vita in maniera dignitosa e attiva, senza lasciarsi sopraffare dalle vicissitudini e senza permettere che la vita scoora via lasciandoci inerti, passivi e lamentandoci e basta, senza far nulla per cambiare le cose, ma passare gran parte del tempo a piangersi addosso.

3) Per qualunque autore è sempre difficile dare “in pasto“ al pubblico la propria opera, soprattutto se, come nel tuo caso, ha profonde connotazioni biografiche. Vuoi raccontarci come sei giunta a questa coraggiosa scelta per il tuo esordio narrativo?
Veramente nel mio caso avevo una gran voglia di condividere con il cosiddetto “pubblico“ tante vicende ironiche, drammatiche, sconfortanti come entusiasmanti, difficili, semplici, legate a persone della mia famiglia e “personaggi“ esterni incontrati durante il mio tortuoso percorso di vita, soprattutto durante la mia infanzia e la mia adolescenza. E con questo pallino dentro di me, per molti anni ho temuto di essere alle prese con un’opera in divenire, visto che alcuni scrittori hanno trasformato il loro unico libro per molte volte nel corso della loro esistenza, senza scrivere mai le conclusioni né mettere un punto definitivo. Fortunatamente per me, due anni fa mi sono accorta, con l’aiuto di un mio amico e assistente letterario Matteo Frasca, che il desiderio più grande che avevo era effettivamente concludere la mia autobiografia e vederla pubblicata, lasciando ad altri autori il piacere o la condanna di scrivere un’opera letteraria aperta, scomponibile, non lineare e in divenire! Ad esempio Glas di Deridda e Composition number one di Marc Saporta sono due testi esemplari in questa direzione.

4) Come ti trovi, nella veste di scrittrice? Raccontaci della tua esperienza come autrice e di come sei riuscita a veder pubblicato il tuo libro. E’ stato tutto come ti aspettavi?
Dopo tanti anni di fatiche e nei quali ho temuto di non diventare mai una vera scrittrice, oggi ancora non mi sembra vero che realmente lo sono diventata. Come per Calvino e molti altri autori, lo scrivere apre infinite finestre sulla fantasia e sulle possibilità di narrare il mondo. È vero che la scrittura mi ha aiutato a superare tanti momenti difficili, soprattutto nell’età adolescenziale. Oggi Zoe Rondini è una ragazza di trent’anni felice perché ha conquistato diverse mete che si era prefissata negli anni.
Di certo, il traguardo più importante che mi ha gratificata moltissimo è stata la pubblicazione di questo romanzo. L’esperienza editoriale mi ha consentito e mi consente tuttora di organizzare e diversificare le presentazioni, a seconda dei destinatari e del tipo di pubblico. Mi offre l’opportunità di conoscere altri scrittori esordienti, frequentare ambienti letterari, partecipare a concorsi e premi nazionali di letteratura, ottenendo anche dei riconoscimenti concreti da esperti del settore. E naturalmente, non per ultimo, rilasciare interviste in televisione, radio o via web. A proposito di importanti apprezzamenti, sono stata particolarmente colpita dal leggere una bella recensione del mio libro su una rubrica de “L’Avvenire“!
Prima ancora di pubblicare con il Gruppo Albatros, avevo provato anche con altre case editrici, piccole e medie. Nessuna di queste si è dimostrata interessata a pubblicare l’opera di un autore esordiente. In Italia, credo ci sia ancora molta chiusura rispetto al valorizzare un’opera letteraria, e all’atteggiamento sincero – da parte delle casi editrici – di diffusione e promozione della stessa, quando si tratta di un esordiente. Ho voluto pubblicare con il Gruppo Albatros, perché è una delle poche case editrici a scommettere sugli esordienti, chiedendo in cambio un investimento iniziale. Mi è poi capitato più di una volta, quando inviavo la lettera di presentazione dell’opera a riviste letterarie e simili, di sentirmi rispondere che la loro scelta era quella di non recensire libri di autori che avevano pubblicato la loro opera a pagamento. Nessuno si è preoccupato e credo si preoccupi di valutare il curriculum e i contenuti dell’opera letteraria, a prescindere da questa scelta di campo un poco ideologica.
Fortunatamente Nata viva è riuscita in poco tempo ad avere un buon successo di vendita e di critica, arrivando finalista a diversi concorsi letterari.

5) Secondo Calvino “scrivere è sempre nascondere qualche cosa in modo che poi venga scoperto.“ Cosa vorresti che i lettori scoprissero con la lettura del tuo libro?
Spero che il lettore si rispecchi nelle tante vicende e nei vari sentimenti che Zoe ha narrato e descritto. Quello che ho voluto un po’ celare in Nata viva è che l’idea che anche davanti alla drammatica prospettiva di una vita sulla sedie a rotelle o peggio ancora su di un passeggino senza avere nessun controllo su qualsiasi movimento, c’è la possibilità di accorgersi di essere vivi e di combattere anche a costo di fatiche che lasciano il segno e delle quali non ho voluto parlare.

6) Quali scrittori e quali libri sono stati e sono ancora guide per il tuo lavoro? Cosa hanno suscitato in te? Come ti hanno cambiato?
Sant’Agostino come filosofo e non come religioso, mi ha ispirato e ho rivisto in alcune suoi pensieri, in collegamento con le vicende che contemporaneamente volevo narrare nell’ opera. Per questo alcune sue massime sono inserite all’inizio dei vari capitoli di Nata viva.
Calvino mi ha permesso di pensare che si può tirare in ballo il lettore, dialogando direttamente con lui, chiamando in causa la sua complicità e addirittura scrivere alcune parti della propria opera… con lui! E con questa funzione, il lettore compare come personaggio del libro, nelle Conclusioni, come se avessi avuto bisogno di materializzare la sua presenza e la sua pazienza nell’essere riuscito a seguirmi e a interessarsi di me e della mia vita, dall’inizio alla fine, appunto.
Giuseppe Pontiggia con il libro Nati due volte durante la stesura del romanzo, l’ho sentito vicino e affine, sia per i contenuti, sia per la scelta stilistica di alternare capitoli brevi ad altri più lunghi.
Thomas Bernhard in particolare il suo libro un bambino questo autore è per me un grande maestro per lo stile ironico e leggero con il quale racconta le vicende serie ed anche quotidiane della sua vita e dei suoi personaggi.

7) Trovi che la crescita dei nuovi media ( blog, social network, ecc.) o la decisione di Amazon di pubblicare autori tagliando fuori dall’equazione gli editori, possano rendere più accessibile ai nuovi autori quell’universo un po’ chiuso ed elitario che fino ad ora è stato il tradizionale e tradizionalista mondo letterario italiano? Infine il dilemma più discusso: E-book o non e-book?
Con le nuove “tecnologie sociali“ a disposizione tutti possono scrivere e pubblicare. Bisogna impegnarsi davvero per non vedersi alla fine pubblicata la propria opera. E se questo da una parte rende accessibile la scrittura anche ai cosiddetti esordienti, cioè a chi si affaccia per la prima volta in questo universo, dall’altra c’ è il rischio che tutti si considerino scrittori. Ma diventare scrittori è la sfida più interessante e più onesta, in campo intellettuale. L’antica abitudine di scrivere ogni giorno, scegliendo le parole giuste, scoprendone delle nuove con il dizionario a portata di mano, impegnarsi perché la forma risulti elegante, densa, chiara, nuova, impegnata, rigorosa è – a mio avviso – l’unica strada sicura per fare della scrittura una professione o quantomeno un aspetto professionale della propria vita. Sono a favore di qualsiasi mezzo contemporaneo, tecnologico che si preoccupi di diffondere la cultura della buona scrittura, con rigore e passione, senza facili scorciatoie che più che altro sono spesso sinonimi di quel bisogno di avere riflettori puntati a tutti i costi su quel che si fa, con qualunque “pressappochismo“ possibile.

8) Stai lavorando ad altri progetti attualmente? C’è qualche novità in arrivo?

In seguito alla pubblicazione di Nata viva io e Matteo, stiamo portando avanti due progetti molto interessanti: il primo consiste in una serie di incontri in due scuole medie in provincia di Roma. In questi incontri raccontiamo dei fatti di vita reale e leggiamo dei brani tratti dal libro.
È entusiasmante vedere il grande interesse e la partecipazione dei ragazzi che si manifesta prima nella loro completa attenzione e disposizione all’ascolto, e poi, nelle molte domande alle quali ho sempre risposto in piena onestà e senza esitazione. È stata anche una piacevole sorpresa che tanti alunni, di loro iniziativa mi hanno chiesto dove potevano acquistare il libro; questi incontri infatti non volevano avere uno scopo divulgativo per il libro, erano più mirati a sensibilizzare i ragazzi su alcune tematiche e far capire che con la volontà si possono abbattere non tutti, ma parecchi limiti!
Il secondo progetto al quale mi sto dedicando, sempre insieme a Matteo, consiste nella stesura di una sceneggiatura teatrale ispirato al libro che andrà in scena a Roma fra circa un mese. Anche qui c’è la speranza che da due repliche ci sia la richiesta di farne altre a scopo pedagogico per gli alunni di due scuole superiori di Roma. Per ora sono un po’ scaramantica e non mi sbilancio a parlare del nostro spettacolo ma presto pubblicherò le date e tutte le informazioni sul mio sito internet www.piccologenio.it

9) Ci lasci con una citazione dal tuo libro?
Quando ero piccola tutti mi dicevano ero uguale agli alti bambini. Poi crescendo mi è venuto qualche dubbio.
Eppure la vita riserva inaspettate sorprese alle persone che nonostante tutto… nascono vive!

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Intervista a Zoe Rondini, autrice del romanzo Nata Viva, su www.associazionelibroaperto.it

Oggi vi presentiamo una scrittrice che ha pubblicato il suo primo romanzo Nata Viva, una storia dai tratti biografici con un tema forte e attuale: le difficoltà legate ad un problema alla nascita e ad un grave lutto, difficoltà che hanno condizionato la sua vita. A lei la parola.

– Ciao Zoe e ben venuta nel nostro sito; prima di formulare le domande prendo sempre informazione sui nostri autori, cerco di scoprire almeno in parte la persona che potrei avere di fronte. La tua vita non è stata di certo facilissima, da qui nasce il tuo libro Nata Viva, vuoi essere tu a parlarci di questo libro e del perché di questa scelta?
Ciao Tiziana e grazie di avermi “ospitato“ nel tuo sito con questa intervista.
Il mio libro “Nata viva“ è un breve romanzo di formazione, non è un saggio pedagogico  sulla disabilità. E’ vero che parlo anche del mio handicap ma non è l’argomento principale.

Lo stile di scrittura è rapsodico, semplice, minimalista, spesso ironico ed autoironico, a volte volutamente pungente, ma sempre leggero e scorrevole. Questo, penso,  lo rende adatto a tutti: lo possono leggere i ragazzi dalla scuola media in poi, le maestre, le insegnanti di sostegno, i genitori, i nonni.
Ci sono molte tematiche serie ed anche altre più leggere e divertenti che appartengono a molte persone, non solo a i disabili; ne cito volentieri alcune: l’esperienza della scuola ed episodi che oggi si possono definire di “bullismo“ (quando andavo a scuola io ancora non si usava questa parola), la voglia di gestirsi da sola il tempo libero, proprio come tutti i miei coetanei.  Parlo delle vacanze al mare, del  viaggio più bello che ho fatto – quello a New York – , c’è la mia famiglia,  c’è raccontato il rapporto con i parenti, l’intesa speciale tra me e la mia nonna materna. Ci sono i giochi e le favole di mia madre, la complicità tra me e mia sorella Fiore ed il rapporto di quando eravamo bambine. C’è la scoperta che ho fatto pian piano da grande di un nonno attento, premuroso e simpatico con il quale ho trovato sempre più argomenti per arricchire il nostro dialogo. Ci sono io, i miei pensieri, le cose che a voce non ho mai detto. C’è tanto da leggere tutto di un fiato.
Poco prima di mandare il libro a varie case editrici, ho fatto una scelta che si è rivelata molto importante: cambiare tutti i nomi dei personaggi con dei nomi inventati; anche il mio è un nome d’arte! Così facendo ho potuto raccontare tutto quello che pensavo senza preoccuparmi di offendere alcune persone o limitarmi per paura delle conseguenze. Questo escamotage mi ha fornito un’incredibile libertà per raccontare tantissime vicende dal mio punto di vista; ritengo di non aver mai espresso la verità assoluta su certi avvenimenti ma ho sviscerato  i miei pensieri, la mia visione su fatti e persone che mi circondano senza limitazioni o preoccupazioni e già diversi lettori mi hanno confermato che sono riuscita a rendere il racconto universale, in quanto anche loro si sono ritrovati nel loro essere stati bambini pestiferi, adolescenti a volte incompresi, adulti con molti sogni già realizzati e molti ancora da realizzare. È stato bello ascoltare queste impressioni da persone normo-dotate: sono riuscita a parlare di tanti personaggi della mia vita – non solo di me  – e non solo di chi ha un handicap motorio!
Nata viva è edito dal Gruppo Albatros nella collana Nuove Voci, è stato scritto da Zoe Rondini, la prima edizione risale ad aprile 2011. È possibile ordinarlo presso tutte le librerie d’Italia o comprarlo on-line su tutti i siti che vendono libri

– C’è un messaggio che intendi trasmettere con la tua storia?
Il titolo Nata viva secondo me ha due significati: il primo è legato alla mia nascita che è stata difficile e diversa dai normali parti; infatti ho avuto un’asfissia neonatale di quasi cinque minuti: quasi miracolosamente sono sopravvissuta e sono viva.
Il secondo – che è anche il messaggio del mio racconto-  a mio avviso vuole testimoniare  che nella vita non basta vivere o sopravvivere.  Ogni persona deve impegnarsi al massimo per superare gli ostacoli, la noia, la depressione, i lutti che spesso avvengono nella vita di tutti. Ma con fatica, tenacia, riuscendo anche a ridere dei propri limiti e  problemi,  si riesce a vivere la vita e non semplicemente a restare vivi!

– Nel tuo libro parli di tante piccole battaglie che per te sono state la tua vita quotidiana; pubblicare anche questo libro ha di certo rappresentato una bella vittoria, che cosa ti senti di dire a quanti hanno vissuto o vivono tutt’oggi esperienze come la tua?
Io e Matteo (mio consulente letterario), ci siamo posti molte volte questo interrogativo mentre lavoravamo  sull’ultima stesura del romanzo. Innanzitutto abbiamo riflettuto sulla mia fortuna – nella sfortuna –  di essere seguita e incoraggiata dalla mia famiglia sotto molti punti di vista. Sono consapevole che non tutte le persone disabili hanno abbastanza grinta e tutte le opportunità per perseguire le proprie passioni, manifestare le proprie idee, portare avanti le loro piccole, grandi battaglie  per poter vivere la loro vita il più “normale“ possibile. Ma mi sento di dire che è una questione molto difficile e delicata. Le persone che sono accanto alle persone disabili, che siano della famiglia, della scuola o degli istituti, dovrebbero avere l’accortezza di valorizzare le capacità dell’individuo con cui si relazionano e nello stesso tempo le persone disabili dovrebbero avere la grinta, il coraggio, la volontà – a seconda dei livelli – di cercare di migliorarsi e di avere voglia di modificare la propria condizione di partenza.

– Scrivere è stato un modo per esorcizzare la tua esistenza in questi anni, chi è oggi Zoe Rondini e come vive questa esperienza editoriale?
È vero che la scrittura mi ha aiutato a superare tanti momenti difficili, soprattutto nell’età adolescenziale.  Oggi Zoe Rondini è una ragazza di trent’anni felice perché ha conquistato diverse mete che si era prefissata negli anni.
Di certo, il traguardo più importante che mi ha gratificata moltissimo è stata la pubblicazione di questo romanzo.  L’esperienza editoriale mi ha consentito e mi consente tuttora di organizzare e diversificare le presentazioni, a seconda dei destinatari e del tipo di pubblico. Mi offre l’opportunità di conoscere altri scrittori esordienti, frequentare ambienti letterari, partecipare a concorsi e premi nazionali di letteratura, ottenendo anche dei riconoscimenti concreti da esperti del settore. E naturalmente, non per ultimo, rilasciare interviste in televisione, radio o via web. A proposito di importanti apprezzamenti, sono stata particolarmente colpita dal leggere una bella recensione del mio libro su una rubrica de “L’Avvenire“!
Negli ultimi anni ci sono state altre tappe fondamentali per raggiungere un discreto grado di indipendenza. Sicuramente, tra queste,  la libertà che è derivata dalle mie scelte di prendere la patente di guida poco dopo la maturità (subito dopo i 18 anni) e l’ andare a vivere da sola all’età di 21 anni.  Successivamente, il conseguimento della laurea triennale in Scienze dell’educazione e della formazione presso La Sapienza di Roma, ha rappresentato un’enorme fonte di felicità.

– A quale pubblico è rivolto il tuo libro?
Nata viva è destinato ad un pubblico molto eterogeneo; lo stile semplice, ironico, rapsodico lo rendono una lettura adatta ai ragazzi delle scuole medie. E’ adatto per i genitori, per le insegnanti e le presidi che lavorano con i giovani. Lo vorrei consigliare alle ragazze e i ragazzi nati come me nei primi anni ’80, così possono fare un tuffo nel passato tra giochi e cartoni animati preferiti. È un racconto anche per i nonni, per riflettere, ridere, divertirsi e per leggere alcune pagine ai nipotini più piccoli!

– Il mondo editoriale è molto difficile è avverso soprattutto per gli emergenti, quali sono state le tue difficoltà se ci sono state?
Prima ancora di pubblicare con il Gruppo Albatros, avevo provato anche con altre case editrici, piccole e medie. Nessuna di queste si è dimostrata interessata a pubblicare l’opera di  un autore esordiente. In Italia, credo ci sia ancora molta chiusura rispetto al valorizzare un’opera letteraria, e all’atteggiamento sincero – da parte delle casi editrici –  di diffusione e promozione della stessa, quando si tratta di un esordiente. Ho voluto pubblicare con il Gruppo Albatros, perché è una delle poche case editrici a scommettere sugli esordienti, chiedendo in cambio un investimento iniziale. Mi è poi capitato più di una volta, quando inviavo la lettera di presentazione dell’opera  a riviste letterarie e simili, di sentirmi rispondere che la loro scelta era quella di non recensire libri di autori che avevano pubblicato la loro opera a pagamento. Nessuno si è preoccupato e credo si preoccupi di valutare il curriculum e i contenuti dell’opera letteraria, a prescindere da questa scelta di campo un poco ideologica.
Fortunatamente Nata viva è riuscita in poco tempo ad avere un buon successo di vendita e di critica, arrivando finalista a diversi concorsi letterari.

– Hai altri progetti per il futuro, vuoi parlarcene?
In seguito alla pubblicazione di Nata viva io e Matteo Frasca, mio consulente letterario non che carissimo amico, stiamo portando avanti due progetti molto interessanti: il primo  consiste in una serie di incontri in due scuole medie in provincia di Viterbo. In questi incontri raccontiamo dei fatti di vita reale e leggiamo dei brani tratti dal libro. È entusiasmante vedere il grande interesse e la partecipazione dei ragazzi che si manifesta prima nella loro completa attenzione e disposizione all’ascolto, e poi,  nelle molte domande alle quali ho sempre risposto in piena onestà e senza esitazione. È  stata anche una piacevole  sorpresa che tanti alunni, di loro iniziativa mi hanno chiesto dove potevano acquistare il libro; questi incontri infatti non volevano avere uno scopo divulgativo per il libro, erano più mirati a sensibilizzare i ragazzi su alcune tematiche e far capire che con la volontà si possono abbattere non tutti, ma parecchi limiti!
Il secondo progetto al quale mi sto dedicando, sempre insieme a Matteo, consiste nella stesura di una sceneggiatura teatrale ispirato al libro che andrà in scena a Roma fra circa un mese. Anche qui c’è la speranza che da due repliche ci sia la richiesta di farne altre a scopo pedagogico per gli alunni di due scuole superiori di Roma. Per ora sono un po’ scaramantica e non mi sbilancio a parlare del nostro spettacolo ma presto pubblicherò le date e tutte le informazioni sul mio sito internet www.piccologenio.it

– Vuoi segnalarci qualche link su dove acquistare il tuo libro e conoscerti meglio?
Sì ecco, potete conoscermi meglio navigando tra le pagine del mio sito internet www.piccologenio.it
E’ un sito che unisce tematiche sociali ad argomenti di cultura ed hobby. C’è una categoria interamente dedicata al mio libro; ho già inserito la sinossi, vari articoli, le mie interviste, le informazioni per acquistarlo e molto altro.

Inoltre altri siti dove trovare Nata viva sono:

www.ilfiloonline.it/index.php
www.deastore.com/libro/nata-viva-zoe-rondini-gruppo-albatros-il-filo/9788856743036.html
www.ibs.it/code/9788856743036/rondini-zoe/nata-viva.html
www.bol.it/libri/Nata-viva/Zoe-Rondini/ea978885674303/
libri.dvd.it/altri-generi/nata-viva/dettaglio/id-3309930/
www.libreriauniversitaria.it/nata-viva-rondini-zoe-gruppo/libro/9788856743036
www.amazon.it/Nata-viva-Nuove-voci-Rondini/dp/8856743035

Il libro si può ordinare in tutte le librerie d’Italia, è già presente nei seguenti punti vendita:

-Libreria Manzoni, Viale Parioli 16L (Roma)
-Libreria Fahrenheit P.zza Campo de’ Fiori, 44 (Roma) libreriafahrenheit451@yahoo.com
-Libreria Il Filo, Via Basento 52 (Roma)
-Libreria Mdd Bookshop via Ascanio Sforza, 37 (Milano)
Inoltre è possibile ordinarlo direttamente alla casa editrice scrivendo a:
ordini@ilfiloonline.it
o per comunicazioni relative alla distribuzione in libreria l’indirizzo e-mail è:
distribuzione@gruppoalbatros.com

– Vuoi aggiungere qualcosa che non è stato detto?
Dopo la laurea triennale in “scienze d’educazione e della formazione“ mi sono iscritta alla laurea magistrale in “editoria e scrittura“ nella speranza che una buona preparazione teorica mi possa agevolare nella scrittura e che questa mia passione si trasformi in un lavoro. Tutto il mio corso di studi si è svolto a La Sapienza.
Prima di Nata viva ho scritto molti articoli su tematiche sociali, problemi legati all’handicap, argomenti pedagogici, ma anche recensioni di film, libri, etc.
Ho collaborato con diversi siti, blog, quotidiani on-line ed anche con la rivista dell’Opera Montessori“ La Vita dell’infanzia“

Grazie di essere stata nostra ospite, auguri per tutto e buona lettura a tutti.

Intervista a cura di Tiziana Cazziero

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CONFIDENZE DI UN’ALLIEVA SCRITTRICE

Cara Maria,

ho letto il suo memorandum (nota autobiografica e appunto di lavoro), e l’ho trovato molto interessante e ricco di spunti di riflessione. Pagine davvero molto istruttive anche per me, come radiografia dell’«individuale» ed ecografia del «familiare» e del «sociale», scuola compresa. Anche se è la famiglia il primo motivo poetico, meglio poematico, della sua narrazione. Makarenko docet. Infatti, mi sono venuti subito in mente i suoi ottimi rapporti col Poema pedagogico. Come se lei con il romanzo, in un modo o nell’altro, fosse in debito per qualcosa di più che per due esami universitari di Pedagogia generale. Quanto al risultato letterario, non avrei dubbi. Apprezzabile così com’è: un po’ saggetto narrativo, un po’ esercizio morale. Un repertorio di fatti, sentimenti, idee, concernente insieme le dimensioni del «personale» e dell’«interpersonale», e dunque gli ambiti del formativo, dell’educativo. E questo, mediante l’effettiva capacità che lei ha di raccontare di sé, trasferendo l’esperienza soggettiva della differenza in un prontuario di elementare nuova umanità, che aiuta a crescere anche chi legge. Altro che Nulla di utile! Alquanto indispensabile, direi invece. Perché ci racconta della particolare diversità della singola persona, come ingresso ad una generalizzabile diversa uguaglianza di più alto profilo. Quasi a voler dire: a me una volta è successo questo e quest’altro di singolare; vediamo quindi, adesso, cosa fare di ulteriormente «altro». Cosa fare pertanto di differente, anche nel senso di opposto ad indifferente, a noncurante, negligente, disinteressato? Capace di coinvolgerci, al contrario, in un’azione davvero importante, significativa, eminente? Ecco perché mi è venuta voglia di scriverle. E non tanto per dirle semplicemente bene!, brava! – quanto per chiederle e adesso? e dopo? Come vincere, cioè, lo sgomento della sproporzione che persiste, tra una battaglia vinta e tutte le guerre che restano da combattere? Come fare di necessità virtù, per se stessi, per gli altri? Non è per l’appunto la differenza l’elemento discriminante dell’«umanamente nuovo»? Zadorov ritorna a sorridere degli schiaffi ricevuti… Come vede, la trattengo ancora nel clima «antipedagogico» dei due semestri di lavoro universitario comune su Makarenko e dintorni… Però se l’è voluta lei: per avermi indotto a leggerla, suggerendomi l’idea che tra la forma autobiografica del Poema pedagogico romanzo di formazione ed il «racconto d’infanzia» di Maria vi possa essere un qualche nesso. Una specie di «gioco» tra letteratura, pedagogia e vita. Una certa familiarità. Scherzi della prospettiva, probabilmente, di cui i makarenkologi sono ghiotti. Scherzi del collettivo e del senso di responsabilità e di corresponsabilità. Scherzi dei besprizorniki «moralmente deficienti» che, facendosi «uomini nuovi», sembrano quasi voler transitare dal Poema pedagogico nei nostri stessi progetti educativi ed autoeducativi. In altre parole, ciò che più mi piace del suo scritto è questa sorta di humour makarenkiano che – fatte salve le differenze – mi pare di ritrovare, da un lato, nella sua raggiunta capacità di esorcizzare il «negativo», e, da un altro lato, nell’attitudine ad attingere elementi formativi, che Makarenko potrebbe forse riconoscere come fattori di «stile». Parola magica, questa dello stile, che – come lei sa bene -, viene a riassumere le due facce in cui, tra scrittura ed educazione, l’opera di Makarenko (pisatel’ e pedagog) organicamente consiste. Ma dovremo riparlarne ancora tra di noi: e proprio a partire dagli esiti riconoscibili della lezione makarenkiana. Perché lei, in questo senso, è un’allieva che sarebbe certo piaciuta al vecchio Anton. Il quale, se avesse potuto apprezzarla per le sue qualità di scrittrice, le avrebbe subito affidato il comando di un bel reparto: magari di un «misto d’avanguardia», con il compito della realizzazione individuale-collettiva di una qualche «scrittura creativa» a fini ulteriormente pedagogici. E letterari. Che gliene pare? Le dico di più: che il circolo pedagogia-letteratura, in quanto tende a condensarsi in un esito stilisticamente significativo, non è solo l’effetto di un’azione formativa precedente, ma è anche l’avvio di ulteriori metamorfosi educative e addirittura la prova provata dell’educabilità umana. Con tutti i rischi che l’impresa comporta. In famiglia e fuori. E lei, Maria, nel continuare a raccontare le sue storie, potrà confermarlo.

Auguri affettuosi di buon lavoro, dal suo

Nicola Siciliani de Cumis
PS. Ho ricevuto il suo commento ai miei due scritti precedenti apparsi in questa rubrica, e la ringrazio dell’attenzione. Le sue osservazioni risultano appropriate. Tuttavia sarei del parere che, nella graduatoria dei valori «familiari» espressi nel testamento di Emilio Colosimo, quello relativo all’unità della proprietà e del maggiorascato occupi un posto privilegiato, forse il primo posto. Il che non toglie che, per lui, la famiglia «sia tutto»; ma lo è nel quadro della sua concezione del mondo di proprietario, e all’interno, per l’appunto, dei suoi valori economico-sociali. 

Sella Marina (Catanzaro), agosto 2003

NULLA DI UTILE

Quando ero piccola tutti mi dicevano che ero uguale agli altri bambini, poi crescendo mi è venuto qualche dubbio. Adesso mi domando quand’è che ho cominciato a capire che avevo qualcosa che mi «distingueva» dagli altri, qualcosa che non gli permetteva di accettarmi, li metteva a disagio. Non a tutti si intende, ma già dal modo in cui la gente si avvicinava a me riuscivo subito a distinguere se una persona era sensibile, senza pregiudizi e senza imbarazzi, oppure no. Forse percepivo questo fin dall’asilo, visto che i miei primi ricordi risalgono a quegli anni, forse da molto, molto tempo prima, quando osservavo gli altri bambini sgambettare dall’interno dell’incubatrice. O forse l’avevo già intuito quando mi trovavo nella pancia di mia madre e avevo tutta quella fretta di uscire e tutta quella paura, non potevo non aver paura, «qui sono al sicuro», devo aver pensato. Non volevo ritrovarmi in un mondo troppo grande per me, troppo rumoroso, pieno di doveri e regole da rispettare. Dove tutti corrono e poche persone hanno tempo e voglia di aiutare chi resta indietro. «La nascita è un cambiamento troppo grande per me», devo essermi detta, e io ho sempre temuto i cambiamenti. Non so dire quando ho intuito che avevo qualcosa di «diverso», ma so che la consapevolezza della mia diversità l’ho acquisita piano piano, crescendo, sentendo gli altri bambini che di nascosto ridevano e parlavano di me e dicevano «guarda i suoi scarabocchi». O quando rimanevo seduta ad osservare tutti gli altri muoversi, bambini che correvano, dispettosi e allegri, saltavano, salivano e scendevano dagli alberi, dalle altalene, dai muretti alti, ogni giorno sempre più alti. E poi c’erano i grandi che sempre dovevano andare da qualche parte, sempre avevano qualcuno da chiamare, da andare a cercare, qualcun altro con cui stare. Non capivo perché avessero bisogno di muoversi tanto. Forse sto meglio io, non mi stanco come loro, posso giocare qui per terra, potrei giocare qui in ginocchio per interi pomeriggi. Mi dicevo questo e non pensavo a quello che mi mancava. Quando avevo pochi mesi giocavo per terra con i miei coetanei: è normale, tutti i bambini giocano per terra, tutti i bambini iniziano giocando per terra. Poi, un giorno, gli altri hanno prima cominciato a gattonare e dopo, piano piano, ad alzarsi in piedi, come i grandi. Decisi di provare anch’io, sembrava facile, ginocchia sul pavimento, mani giù per terra, guardare avanti, facile come è facile per tutti, ma io non ci riuscivo. Mi chiedevo come mai, visto che mi sentivo uguale a loro. Forse non ero abbastanza grande, forse non ero abbastanza uguale? Venivo invitata alle feste. Mamma mi comprava dei vestiti «eleganti» che sceglieva lei, mi preparava e mi ci portava: i medici le avevano spiegato che mi faceva bene stare in mezzo alla gente perché avevo bisogno di «essere stimolata», dicevano. Io speravo solo di divertirmi, ma non sempre succedeva, non succedeva quasi mai in effetti. Anche dopo, da grande, andavo alle feste perché lo facevano tutti, ma non mi divertivo. L’euforia dell’attesa svaniva subito lasciandomi annoiata e delusa. Credevo che andare alle feste fosse un modo per essere uguale agli altri, sentirmi uguale a loro, o diventare come loro. In realtà, più mi sforzavo, più mi rendevo conto di essere diversa, e non era solo una diversità fisica, c’era dell’altro. Per anni ho cercato di capire cosa fosse, ero io che mi escludevo dagli altri o erano loro che mi escludevano? Ero io che non li capivo o erano loro che non capivano me? Più mi sforzavo di avvicinarmi e più mi sentivo lontana, più cercavo una risposta, più una risposta non c’era. La colpa, però, la colpa mi sembrava soltanto mia. Da piccola, dunque, giocavo per terra con tutti, poi però i giochi si sono fatti sempre più complessi, bisognava muoversi sempre meglio, correre, saltare, strisciare per terra. Facevano dei giochi di squadra, delle staffette, mentre io rimanevo seduta in braccio a mamma. So che per lei non è stato facile tutto questo, forse è stato più difficile per lei che per me. Non lo so, io non me lo ricordo, ma lei sì. È stata lei a dirmi che lo faceva per me, per aiutarmi, ma le pesava stare insieme alle altre mamme a guardare i loro bambini. Dagli anni dell’asilo in poi, ho soprattutto ricordi legati a medici e fisioterapisti, ma non ne parlo più e non intendo parlarne neanche ora: mi c’è voluto tanto tempo e tanta fatica per accantonarli e adesso che ci sono riuscita non voglio assolutamente tirarli fuori. A ricordarli oggi, gli anni dell’asilo sono stati quelli in cui ho semplicemente e disperatamente desiderato gattonare. Mamma, nonna, i medici che mi seguivano, non si accontentava nessuno: volevano tutti vedermi camminare. Io volevo solo spostarmi in qualche maniera, ma capivo che per loro non era sufficiente: dovevo camminare. Era un’ossessione, più mi impegnavo per riuscirci più diventava faticoso. «Non voglio camminare, voglio solo muovermi a carponi», mi dicevo. Più gli adulti insistevano per farmi camminare, più io desideravo gattonare e non capivo perché mi chiedevano di fare una fatica che mi sembrava enorme, al di sopra delle mie forze. In verità osservavo con invidia gli altri bambini che si rincorrevano nel cortile della scuola, mi sembrava assurdo ed ingiusto che io non potessi fare quei giochi. Mentre correvano sembravano così soddisfatti, era la cosa più naturale del mondo, correre. Adesso sono grande, ho studiato, ho letto dei libri. Ho studiato che il gioco è l’attività più importate che un bambino possa fare, è uno «strumento» che gli permette di sviluppare la propria curiosità, conoscere, interagire col mondo che lo circonda e con gli altri. I bambini per crescere ed arricchirsi devono giocare: questo mi hanno insegnato i libri. Nessuno ci insegna a giocare: è l’attività che tutti fanno spontaneamente, dicono i libri, in qualsiasi paese del mondo i bambini giocano, dicono i libri, in modi diversi secondo gli usi e costumi dei popoli, dicono i libri. Se il bambino vede un adulto che va a caccia o raccoglie dei frutti, lui gioca ad imitarlo, dicono i libri: così facendo imparerà delle attività che gli serviranno da grande. Tutto questo lo dicono i libri e «questo meccanismo non varia col passare dei secoli». Questo meccanismo è «uguale per tutti». Non posso dire di non aver giocato, ma è stato diverso, ho solo avuto meno tempo e meno possibilità. Pensare che quando si cresce si debbano studiare sui libri dei comportamenti spontanei mi fa uno strano effetto. Adesso studio il gioco in tutte le sue forme e funzioni, e da piccola non ho potuto giocare perché dovevo «crescere e migliorarmi». A proposito di miglioramenti, ricordo una suora che mi diceva sempre: «Volere è potere». Dentro di me pensavo «ti sbagli. Io vorrei tanto camminare bene, ma non ci riesco e non ne so il motivo». Non sopportavo la sua affermazione, era sbagliata. Ma non avevo il coraggio di dirglielo in faccia, così mi limitavo a pensarlo. La cosa peggiore era che non riuscivo a farmene una ragione: nessuno mi aveva spiegato il motivo dei miei problemi. Mamma e nonna parlavano tra loro per ore interminabili, usando termini a me sconosciuti. E poi si andava dal dottore, dallo «specialista», da chi avrebbe dovuto risolverli, quei problemi. Io, in genere, mi annoiavo e non capivo. Capivo che parlavano di me, questo sì, ma anche il medico parlava quella loro lingua fatta di termini sconosciuti. Capivo anche che a quel dottore chiedevano di aiutarmi a camminare proprio come l’avevano chiesto a un’infinità di medici prima di lui e come avrebbero fatto con altrettanti dopo. «Facciamola camminare», dicevano. Per quanto riguarda me, quando finalmente sono riuscita a gattonare, mi sono sentita già soddisfatta. Potevo difendermi da tutti quegli adulti che mi chiedevano troppo, così appena non mi vedevano mi mettevo per terra e mi spostavo a carponi. Mi piaceva stare a terra. Trascorrevo tantissime ore a giocare in ginocchio appena rimanevo da sola, senza qualche fisioterapista che mi perseguitava con i suoi esercizi. Se poi mi dovevo spostare per casa, lo facevo gattonando: avevo imparato bene e ne ero fiera. Ancora oggi ho le ginocchia segnate da quei lunghi tragitti. Penso che negare le differenze non sia un’arma per combatterle: mi facevano terribilmente arrabbiare tutte quelle persone che si ostinavano a ripetermi che non esisteva nessuna differenza tra me e i miei coetanei. Avrei voluto dirgli «ma non capite… allora spiegatemelo voi perché non posso fare tante cose che le altre persone fanno normalmente. Come fate a dire che le mie differenze non esistono…». Oggi capisco che tutte quelle persone che mi ripetevano che ero una bambina assolutamente «normale», lo facevano a fin di bene. Allora, però, mi sembrava che nessuno riuscisse a comprendere gli sforzi che facevo per fare cose «normali», della vita di tutti i giorni. Avrei voluto che qualcuno riconoscesse il mio impegno e le mie difficoltà, invece mi sembrava che ogni giorno dovessi impegnarmi al massimo per ottenere qualche cosa, e nessuno se ne rendeva conto. Più la gente mi diceva che ero normale, più mi sentivo esclusa dalla «loro» classificazione di normalità. Ho sempre ritenuto la «normalità» un concetto astratto. Che cosa è normale? Niente. Chi è normale? Nessuno. Negavo la normalità, forse, per legittima difesa. Un mio compagno di scuola era balbuziente, Luca. A ricreazione giocavamo a nascondino e Luca riusciva sempre a fare «tana libera tutti» che in questo gioco significa che l’ultimo che arriva alla tana può liberare quelli che sono stati catturati. Lui era molto più bravo di me. Per questo era il primo ad essere invitato a giocare, mentre per me c’era la maestra di sostegno che diceva agli altri bambini: «Aspettate, gioca anche Maria» e mi aiutava a correre. Giocavo con tutti gli altri, ma capivo che il mio modo impacciato di correre faceva ridere. Volevo giocare e divertimi ma c’era sempre chi arrivava alla «tana» prima di me. Avevamo tutti e due dei problemi, ma per lui era più facile farsi accettare, perché correva veloce. Luca è stato solo il primo di una lunga lista di persone più brave di me. Io sapevo che i miei compagni di classe non erano così bravi come sembravano, perché erano facilitati: loro non facevano molta fatica nel fare le cose, io lo sapevo, ma il fatto di saperlo non mi ha mai consolata più di tanto. Se giocare a nascondino non è mai stato il mio forte, Luca non riusciva molto bene nella lettura ad alta voce: quando leggeva s’inceppava su una parola o su una frase intera e i nostri compagni scoppiavano a ridere. Mi dispiaceva che lo prendessero in giro proprio quando si trovava in difficoltà, ma in un certo senso eravamo pari. Comunque mi sembrava che, nonostante ciò, lui avesse meno problemi nel farsi accettare dai coetanei ma anche dagli adulti. Forse la gente non considera la balbuzie un problema vero e proprio, una netta differenza, un handicap che la infastidisce; ma quando la cosa diventa un po’ più complicata, la gente tende a difendersi e ad allontanare il problema. Per me era un problema anche scrivere, così fin dall’asilo cominciai ad avere dei compiti. Dovevo riempire intere pagine di quaderno prima con dei segmenti e poi con delle lettere. Trascorrevo gran parte della mattinata a tentare di scrivere, poi il pomeriggio veniva un fisioterapista a casa e mi faceva fare altri esercizi preparatori per la scrittura. Nella mia stanza c’era una scrivania bassa, di legno, con delle sporgenze fatte a posta per farmi appoggiare i gomiti, quelle sporgenze mi incastravano, non potevo scappare. Quando gli adulti non mi vedevano tentavo di svitare le viti: pensavo che se fossi riuscita a distruggere quel tavolo nessuno mi avrebbe costretta a «studiare». Posso dire di avere cominciato a studiare prima ancora di andare a scuola e lo dovevo fare sempre. Anche in vacanza veniva la fisioterapista. La mattina ci mettevamo sulla veranda io e lei. Mamma non ci disturbava, sapeva che dovevo esercitarmi, lo sapevo anch’io. Non mi dovevo distrarre, non mi potevo distrarre, dovevamo essere sole io e la fisioterapista. Ricordo che un giorno iniziai a giocare con un fazzoletto, lei me lo tolse dalle mani esclamando: «anche con questo ti distrai». Un’altra volta avevo appena aperto il libro quando sentii al di là della siepe mia cugina gridare: «mamma, sono pronta, andiamo al mare». Non era giusto, pensai, anch’io volevo andare in spiaggia con mia madre, invece non potevo muovermi, dovevo rimanere li seduta a esercitarmi nella scrittura. Gli adulti riuscivano a farmi fare sempre quello che dicevano loro, ma nessuno poteva impedirmi di viaggiare con la fantasia. Quel giorno cominciai ad immaginare mia cugina in spiaggia, si divertiva, incontrava i nostri amici e costruivano con la sabbia una pista per le biglie, poi facevano una partita tutti insieme, e alla fine facevano il bagno, si schizzavano ed erano felici. Sapevo che per loro era così e desideravo stare anch’io tutto il giorno lì. Avrei giocato con i miei amici, avrei fatto quello che facevano tutti gli altri bambini, volevo solo andare al mare e non avere orari proprio come non li aveva mia cugina. Non mi sembrava giusto che la mia giornata fosse scandita dai doveri anche in vacanza. Ogni inverno aspettavo l’estate per essere finalmente libera e poi l’estate arrivava e con lei la fisioterapista e tutto il resto. Oggi capisco che dovevo tenermi in allenamento tutto l’anno, ma all’asilo tutto questo mi sembrava una condanna. Dovevo imparare a scrivere perché qualche dottore aveva detto che avrei avuto difficoltà, mentre per leggere avrei rispettato i tempi di tutti i bambini. Mi piacerebbe incontrarlo adesso e dirgli che poteva anche risparmiarmi tutti quegli esercizi perché ormai uso il computer, la mia grafia non è molto chiara nonostante gli esercizi, mentre ho molte difficoltà nella lettura. Anche se all’asilo facevo fatica a scrivere, dall’elementari in poi mi è sempre piaciuto: riuscivo ad esprimermi scrivendo. Da piccola gli unici compiti che riuscivo a fare bene e che facevo quasi con piacere erano i temi. In quel periodo però, non avrei mai immaginato che per me la scrittura sarebbe diventata una passione, una sorta di unico appiglio nei momenti più difficili della vita. Ho deciso di cominciare a scrivere su un quaderno per raccontare i momenti più importanti della mia vita, quelli che non volevo assolutamente dimenticare. Era l’autunno del 1994. L’idea mi è nata dopo la morte di Roby, quando mamma ha spiegato che Roby se n’era andato in cielo e che non l’avremmo più rivisto. Io avevo bisogno di non dimenticare nulla, così ho cominciato a scrivere per trattenere tutti i minimi dettagli. Roby non c’era più, questo è il fatto. Ma io conservo ricordi dentro di me e li scrivo sulla carta, in modo che non sbiadiscano con il tempo che passa. In questi ultimi tre anni sono cresciuta ed è cresciuta anche la consapevolezza che è tramite il dolore che diventiamo grandi. Quando Roby era vivo mi raccontava che in America esistono i teen-agers; prima sei considerato un bambino e poi diventi teen-ager. Diventi adolescente e cominciano le cose piccole, ma importantissime, dell’adolescenza: le uscite il sabato, gli amici, i primi flirt. Io sono arrivata a tredici anni e ho capito che non era vero niente. Sì, ho fatto delle cose da teen-ager, ma si contano sulle dita di una mano. Per me, ad esempio, il sabato è un giorno come gli altri, mentre per tutti i miei coetanei il sabato pomeriggio è il pomeriggio in cui si esce e ci si diverte. È il momento più atteso della settimana, per il quale ci si organizza dal lunedì precedente facendo una serie infinita di telefonate agli amici. Vi posso assicurare che è veramente triste rimanere a casa da sola e sapere che tutti i tuoi amici escono in gruppo, vanno a ballare e si vanno a divertire. Quando i miei amici cominciavano ad uscire io tentavo di unirmi al gruppo: facevo telefonate, cercavo di organizzare io le uscite, tentavo di lanciare idee che a me sembravano divertenti… ma i risultati erano a dir poco catastrofici. Non riuscivo ad rassegnarmi all’idea: non vedevo nessun motivo valido per questo isolamento forzato. Sono arrivata al punto di odiare queste quattro mura di casa mia. Volevo uscire da questa prigione. Avevo la stessa voglia di divertimi dei miei coetanei, e proprio non riuscivo a capire perché non avessi lo stesso diritto di godermi la mia età. Come la vogliamo chiamare questa «adolescenza»? Ti fai dei bei castelli in aria e poi ti crollano addosso. Teen-ager. In quegli anni trascorrevo interminabili pomeriggi in casa e scrivevo: era l’unica cosa che potevo fare senza l’aiuto di nessuno. Non potevo uscire da sola, tutti i pomeriggi veniva o la fisioterapista o qualche ragazza che mi faceva studiare. Non ero autonoma ed avevo molto tempo libero tra una cosa e l’altra; tempo in cui mi annoiavo, mi sentivo in colpa perché non facevo nulla di utile e mi deprimevo, quindi colmavo quei vuoti scrivendo. Sapevo che i miei amici trascorrevano i pomeriggi in modo diverso, ma facevo finta di non pensarci. Scrivere mi aiutava a non sentirmi inutile. Mi faceva compagnia. Ho sempre avuto paura della solitudine, ma ancora di più della noia. È la noia che porta la depressione, l’assenza di attività, la monotonia, la ripetizione del nulla. Per me era una vergogna, il mio peccato più grave: gli adulti mi hanno sempre richiesto tanto impegno e costanza e quando trascorrevo del tempo senza far niente era come se non mi sforzassi per migliorare. E questo non mi era permesso. Però potevo scrivere e ho imparato a farlo da sola. Non ho ancora capito cosa sto scrivendo, forse la mia autobiografia o forse solo qualche appunto che rimarrà in un file del mio computer; ma penso che per capire uno debba guardarsi bene dentro, pensando al futuro senza dimenticare mai il proprio passato. Per questo, forse, è meglio cominciare a raccontare tutto dall’inizio, cercando di mettere in ordine quei ricordi che si accalcano nella mia memoria come la gente che fa ressa all’uscita di un brutto film.

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Film e Libri

 Placenta
Diciotto racconti di piccoli e Grandi
Autore: Matteo Frasca

Racconti o poesie? Nell’uno o nell’altro caso, questo libro ci offre 18 occasioni per vivere una storia dove piccoli e grandi si incontrano e si confrontano, 18 metafore narrative con cui il giovane autore ci spinge nei meandri dei più terribili, profondi, meravigliosi e coinvolgenti rapporti generazionali.

Una leggenda narra di una mamma che non voleva partorire. Non voleva abortire. Voleva tenersi il bambino dentro, ecco tutto.
E così avvenne, il bambino non nacque.
“Se non è nato, non potrà mai morire” pensò la mamma. “In questo modo anch’io non morirò e vivremo sempre insieme”.
I piccoli e i Grandi vivono in mondi completamente diversi… quasi sempre. A volte, infatti, i sogni di entrambi coincidono e allora la placenta diventa veramente un mondo a parte, il contatto reale tra due mondi altrimenti lontani e incomunicabili. I racconti di Matteo Frasca narrano, attraverso l’ironia fantastica che li connota, lo svelamento dell’innocenza dell’infanzia, il recupero della parte bambina che è presente, magari nascosta, in tutti noi. Nel mondo di Placenta l’aria è rarefatta, leggera e allo stesso tempo carica di senso critico. I piccoli, con la loro personalissima filosofia di vita, i gesti e le parole, contribuiscono a mutare radicalmente la visione utilitaristica dei grandi, impegnati nella maggior parte dei casi a valorizzare se stessi e incuranti dei bisogni o dei semplici desideri di chi, stupefatto, li osserva e non comprende il perché delle loro azioni. Leggere questa raccolta significa compiere un viaggio, partire dal profondo e al profondo arrivare. Significa che, almeno per una volta, i giochi dei piccoli e dei Grandi possono essere gli stessi.
«Mi interessa pensare alla scrittura come ad uno smascheramento delle ovvietà. Credo che nulla sia ovvio o scontato quando diventa narrabile. Quando si parla, troppo spesso non si “racconta” ma si “rendiconta” e tante sfumature si perdono, così come viene a mancare l’incanto, la lentezza, l’universo sconfinato delle parole. Scrivere mi aiuta a dare importanza a quello che sfugge ma che continuamente è sotto i nostri occhi. La parola analizza, ferma il mondo e lo re-inventa. Il mio sogno è riuscire a parlare un giorno, grazie alla scrittura, come i piccoli cantastorie, come leggeri ma epici narratori di infinite novelle svelanti noi stessi.»
Matteo Frasca
Casa editrice: Il Filo
Anno di pubblicazione: 2007
ISBN: 978-88-7842-746-4

il libro è in vendita su molti siti, qui ne riporto un paio:

http://www.lafeltrinelli.it/products/2479993.html;jsessionid=B7A7EDB0E0BA593F5776A0A1C2132573.applprod04?atd=1583242

http://www.ibs.it/code/9788878427464/frasca-matteo/placenta-diciotto-racconti.html

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