Donne contro le “discriminazioni multiple”, un dibattito urgente

Il 22 maggio 2019, presso la Sala Conferenze Palazzo Theodoli Bianchelli, in piazza Colonna a Roma, si è tenuta la conferenza: “Donne con disabilità. La doppia discriminazione”.
A discutere delle discriminazioni multiple sono state le deputate del Partito Democratico Lisa Noja e Maria Elena Boschi insieme ad esponenti del mondo dell’associazionismo, della ricerca e dell’università molto attivi nel combattere le varie barriere e discriminazioni che una persona con disabilità può incontrare.
Dichiara la Noja: “quello di oggi è un tema di cui si discute ancora troppo poco nel nostro paese, nonostante migliaia di donne e ragazze con disabilità, vivano varie forme di discriminazione in ogni aspetto della loro vita. Nel mondo del lavoro si registra un tasso di inoccupazione delle donne con disabilità del 45% contro il 35% degli uomini. Anche nell’accesso al diritto alla salute si riscontra una discriminazione: i tassi di tumore al seno sono infatti molto più elevati tra le donne con disabilità a causa della mancanza di apparecchiature di screening e diagnosi adeguate. Infine, nella vita intima, dove le donne con disabilità hanno una probabilità di subire violenza da 2 a 5 volte superiore rispetto alle altre donne”.
Di fronte ad un fenomeno che colpisce le donne di varie culture nel nostro paese e non solo, non si possono rimandare i dibattiti e le prese in carico.
“La cosa più urgente- spiega ancora l’Onorevole Noja- è portare in Parlamento il dibattito su questo tema. Credo che su questo si possa trovare una trasversalità- aggiunge- e ciò sia fondamentale perché sarebbe un messaggio a tutte le ragazzine e le donne con disabilità che si sentono spesso negate anche nello stesso diritto alla loro femminilità: troppo spesso le donne con disabilità sono sminuite, come se non fossero attraenti. Molte volte ciò le fa essere più vulnerabili. Anche la non indipendenza economica, la poca istruzione, le difficoltà a muoversi e quindi a scappare, le rendono soggetti più a rischio”.
Nel corso dell’evento si è parlato anche di discriminazione “non diretta” ma che colpisce la persona con disabilità penalizzando chi se ne prende cura. Le donne che accudiscono un famigliare disabile corrono il rischio di essere discriminate: al lavoro spesso non vengono sostenute e in molti casi rimangono sole, poiché i componenti maschili del nucleo familiare si allontanano.
I dati ci mostrano l’entità delle discriminazioni multiple. Secondo un questionario online proposto dalla Fish-Federazione italiana per il Superamento dell’Handicap e Differenza Donna, è emerso che 153 delle 476 donne con disabilità tra i 16 e gli 81 anni del campione ha subito violenza, per una percentuale pari al 32%. “Se poi si considerano le risposte affermative che le donne hanno dato alle singole e specifiche forme di violenza (fisica, psicologica, molestie sessuali, isolamento, appropriazione di denaro, ndr) – precisa Silvia Cutrera, vicepresidente di Fish – hanno risposto in maniera affermativa 314 donne, il 66%, cioè il doppio”.
Ad arricchire il confronto è intervenuta Rosalba Taddeini, psicologa dell’associazione Differenza Donna che nel suo intervento ha riportato la storia di una donna ipovedente vittima dall’età di 8 anni degli abusi paterni, da cui sono nati tre figli, poi allontanati. La donna ha vissuto per anni segregata dalla famiglia. “Questo è il caso di una discriminazione che non è doppia, ma multipla, dove la donna ha scontato il suo essere persona con disabilità, nata al Sud, in un contesto familiare con grosse difficoltà socio-economiche. Per aiutare queste vittime nasce l’Osservatorio sulla violenza contro le donne con disabilità, che è uno strumento di monitoraggio, rilevazione e ricerca sul fenomeno, a partire dai dati su quelle accolte e ospitate da centri antiviolenza e case rifugio dell’associazione (98 dalla metà del 2014 ad oggi).”L’unico modo per aiutare queste donne, vittime di abusi, è quello di offrire loro dei luoghi sicuri, lontani dai loro aguzzini, dove viene dato loro un rifugio e vengono ascoltate e sostenute.
A livello europeo le donne che subiscono violenza e sono anche disabili sono cinque volte più numerose delle donne che non hanno nessun fattore di vulnerabilità aggiuntivo. Sul tema si riscontra maggiore attenzione rispetto all’Italia: lo scorso 29 novembre infatti il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione sulla situazione delle donne con disabilità, ma molto si può ancora fare per garantire più uguaglianza. In tal senso la politica, le associazioni, la cultura e la ricerca universitaria sono i maggior promotori di un importante cambiamento sociale e culturale.
A conclusione dell’incontro le deputate promotrici dell’evento hanno annunciato che sarà presentata in tempi brevi, molto probabilmente prima dell’estate, una mozione promossa sulla doppia discriminazione subita dalle donne con disabilità, al fine di orientare la discussione parlamentare su questa tematica ed impegnare il Governo ad intervenire.

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L’educazione sentimentale per sviluppare autoconsapevolezza ed empatia

Il tema dell’educazione e dell’educazione sentimentale riguarda tutti, come soggetti passivi prima ed attivi poi. Anche le persone disabili sono attivi capaci di assorbire e trasmettere diversi modelli educativi.

L’enciclopedia Treccani definisce così il concetto di educazione:Il processo attraverso il quale vengono trasmessi ai bambini, o comunque a persone in via di crescita o suscettibili di modifiche nei comportamenti intellettuali e pratici, gli ambiti culturali di un gruppo più o meno ampio della società. L’opera educativa è svolta da tutti gli stimoli significativi che raggiungono l’individuo, ma, in modo deliberato e organizzato, da istituti sociali naturali (famiglia, clan, tribù, nazione ecc.), e da istituti appositamente creati (scuole, collegi, centri educativi ecc.)”.

Gli anni della formazione e dell’educazione di un individuo coincidono con il periodo delle cure famigliari, della scuola, del rapporto tra pari, fino a che questo non diventa un adulto  formato, preparato a prendere le sue scelte, farsi una famiglia, avere un proprio ruolo nella società e nel mondo del lavoro, pronto ad esercitare il libero arbitrio.

Spesso per le persone con disabilità, i normali passaggi della formazione e dell’autonomia sono più faticosi fino a risultare, in alcuni casi, inaccessibili. Ciò può essere dato da diversi fattori: in famiglia a volte è forte il senso di protezione o di negazione della disabilità e di tutto ciò che comporta. Fin dall’infanzia, la persona con disabilità si ritrova un maggior onere di compiti e scadenze: non ha tempo per giocare e socializzare. Per molti poi, finita la scuola dell’obbligo è difficile se non impossibile inserirsi in un contesto universitario o lavorativo: si resta soli, isolati.

Alla luce di queste realtà e mancanze, va ricordato

che ci sono famigliari e persone con disabilità che lottano per la conquista di diritti, autonomia e un’assistenza adeguata, ma ci sono anche casi dove subentra la rassegnazione ad una vita povera di stimoli. Spesso la famiglia cambia, i genitori si stancano del loro ruolo, prendono strade diverse o semplicemente si arrendono. Per una persona che deve continuare a far i conti con la propria disabilità, può essere più difficile accettare questi cambiamenti.

La parte emotiva nello sviluppo del bambino

Tornando all’educazione e ad un “normale” sviluppo dell’individuo va tenuta presente  l’importanza della sfera emotiva. Scoprire e prendere coscienza delle proprie emozioni vuol dire essere maggiormente empatici. Guardare alla realtà attraverso diversi punti di vista critici e curiosi, aiuta a diventare più predisposti al confronto e allo scambio con l’altro.

Decenni di pedagogia e di psicologia dell’età evolutiva hanno messo in luce l’importanza di ricevere fin da bambini una corretta educazione ai sentimenti. Essere amati, ma avere al contempo chi ti trasmette il senso del limite è un passaggio necessario per gestire meglio emozioni negative di domani.

Tutto ciò risulta più complicato, o addirittura inaccessibile, se avviene la negazione dell’individualità della persona disabile nella sua interezza e complessità.

Sentimenti contrastanti e presenti in molte persone con disabilità

A volte si desidera fortemente diventare adulti per fare le proprie scelte, uscire dalla famiglia, ma non si è pronti o si vuole essere aiutati e nello stesso tempo si chiede di aver meno intromissioni poiché non si è più bambini. Se ci pensiamo, questi sentimenti sono tipici e normali nell’adolescenza, la cosa è più complessa nelle persone disabili perché tale dinamiche durano più allungo.

Cosa fare in questi casi? A volte c’è la voglia e la capacità di emergere, si trova il confronto con gli altri grazie allo sport, le associazioni, i progetti di tirocinio-lavoro; ambiti positivi dove il disabile è chiamato a mettersi in gioco, crescere e confrontarsi con l’altro. Spesso però questi contesti rappresentano ottime opportunità sul piano delle amicizie o professionali, ma non sono sufficienti per sviluppare un’educazione sentimentale.

Negli ultimi anni si è parlato spesso dell’importanza dell’educazione ai sentimenti, proponendo di inserire l’argomento nell’orario scolastico. Si fanno battaglie per riconoscere la figura dell’assistente sessuale e per l’approvazione del disegno di legge che la dovrebbe regolamentare e che è stata presentata al Senato il 9 aprile 2014; ma per ora tanto è lasciato alle singole famiglie. A volte quest’ultime sono aperte all’identità anche sessuale del figlio con disabilità; ma in altri casi permangono i retaggi culturali del passato, i tabù ed è ancora diffusa la cultura del silenzio e della negazione. Spesso i genitori non riescono a vedere il sesso staccato dai sentimenti, non riescono a parlarne, a “preparare” i figli ma la società cambia a mio avviso, come spiegherò meglio più avanti, occorre un’ apertura mentale e un’educazione per evitare tanti problemi.

Come porsi per cercare di superare le barriere che permangono:

Per aiutare le famiglie servirebbero interventi a scuola, nei molti istituti, centri diurni e case-famiglia, ma spesso chi li gestisce è contrario ad affrontare queste tematiche. A volte la negazione del diritto all’amore e alla sessualità crea scompensi nella persona, che viene ancora vista come diversa, problematica e non capace di raggiungere una sua maturità ed autonomia. Più si nega una cosa e più questa viene desiderata ed esasperata. Più si fa finta che una persona non abbia potenzialità e caratteristiche diverse e più si vanno ad alimentare sentimenti quali la rabbia verso se stessi, gli altri ed il senso di frustrazione.
L’amore, l’erotismo, la passione implicano l’aspetto ludico, la scoperta, il rispetto dell’altro, l’innamoramento, il confrontarsi con il rifiuto. Il senso di protezione non dovrebbe giustificare la negazione.
A mio avviso servirebbe più preparazione di tutti per educare e non emarginare. Anche al giorno d’oggi la negazione alla privacy, al diritto di amare e di essere adulto avviene di frequente, questi meccanismi si esasperano quando si è davanti alla disabilità. Essere disabili spesso implica delle maggiori difficoltà, ma non si può parlare di inclusione, di diritti nascondendo tutta la parte “emotiva”. A volte tali negazioni spingono il disabile a cercare informazioni in rete con il rischio che si prendano per buone notizie parziali o “hard” che poco si confanno al sentimento e all’espressione di esso. Spesso il disabile non sa a chi rivolgersi.
L’amore per molti disabili è una strada in salita, è una scoperta che bisogna fare anche se gli altri intorno a te non ti supportano. Il desiderio di rischiare e scoprire l’approccio relazionale, la gioia del primo incontro, l’ansia dell’attese possono essere una potente spinta a provare ed a buttarsi. Per chi riceve una corretta informazione, scevra da inutili tabù, vive queste fasi con coscienza e naturalezza; altro discorso per chi cresce in un contesto di negazione, o dell’uomo “dominatore”. Perchè non parlare di più con i figli, alunni, adolescenti, disabili e non? Non è vero che non si trovano spunti o aiuti per parlare di tali argomenti, il discorso può essere facilitato da un film, spesso al cinema o in tv si raccontano storie di persone con disabilità, ma se ne parla anche sui giornali. Vengono organizzati anche molti convegni su queste tematiche.

I rischi ancora spesso negati e taciuti

Per molte persone usare le chat è più semplice che socializzare o approcciarsi nella vita reale, quindi è bene informare e educare piuttosto che imporre dei divieti che possono essere infranti. Nelle chat si “trova” un po’ di tutto, se si usano è bene essere accorti per poter bloccare degli utenti e non raccontare troppo di sè.

Educare aiuterebbe tra l’altro a prevenire, documentare e contrastare gli episodi, ancora poco noti e taciuti, di discriminazioni, molestie, violenze che le donne con disabilità subiscono, ma anche le note e frequenti molestie verso le donne. Il sito Disabili.com fornisce i dati  delle vittime con disabilità: “per quanto riguarda i dati, fa ancora fede il rapporto Istat di giugno 2015 in cui si erano raccolti i dati relativi alla violenza di genere sulle donne italiane: ben 6 milioni 788 mila donne sono state vittime nel corso della loro vita di almeno un episodio di violenza. La cosa più allarmante è che, delle donne con disabilità, ha subito violenze fisiche o sessuali il 36% di chi è in cattive condizioni di salute e il 36,6% di chi ha limitazioni gravi. Si stima che il rischio di subire stupri o tentati stupri sia doppio per le donne disabili (10% contro il 4,7% delle donne non disabili).”

L’omertà delle famiglie espone le ragazze con disabilità a rischi maggiori rispetto  ai ragazzi  come riportato ancora su Disabili.com: “Spesso le ragazze disabili – in particolare con disabilità intellettive – non vengono educate al tema della sessualità, si preferisce non parlarne… Può infatti capitare che venga dato più spazio e risposta alle pulsioni dei ragazzi disabili maschi, ignorando o sopprimendo quelle femminili. Ne consegue che da adulta la ragazza disabile possa avere difficoltà a riconoscere se quell’affetto morboso o quelle richieste sessuali insistenti di cui è oggetto non siano in realtà qualcosa di ben più grave. La donna, specialmente con disabilità, hanno bisogno di essere supportata e ascoltata nonché  di essere capita e creduta”.

Importante è educare le persone sull’amore e la sessualità,  per saper sviluppare la consapevolezza dei propri bisogni ed il rispetto di quelli altrui. Questo significa prevenire gravi problematiche sociali, combattere inutili tabù, stereotipi e contrastare la cultura del silenzio e della negazione che dovrebbero essere solo un lontano ricordo.

Dopo tutto, l’educazione andrebbe sostenuta per i disabili ma anche per i normodotati. Essere “normali” non implica essere preparati all’amore, all’accettazione dell’altro, alla sofferenza. In alcuni casi, dopo molte sofferenze, non ci si mette più in gioco e si precludono molte esperienze. Ci sono anche molte persone che cercano il divertimento senza porsi troppi problemi sui sentimenti e l’empatia: ancora permangono retaggi culturali del passato, o forse su certi aspetti, invece di progredire regrediamo? Molte chat per normodati non sono ben bilanciate, le donne ricevono centinaia di messaggi che neanche leggono, ma poi non leggendoli si perdono d’avvero l’occasione della vita? Molti uomini stanno in chat per ammazzare il tempo o perchè sono incuriositi dai “tre giorni di prova gratuita” finita la prova finisce la novità… Il “malfunzionamento” di questi sistemi  sono ben spiegati il numerosi siti, ne riporto un esempio: Nirvam Recensione e Alternative a Nirvam.it!

Tornando all’importante ruolo delle famiglie, alla luce della mia personale esperienza e di quella narrata da molti disabili, mi sento di affermare che: aiutare un figlio con disabilità a diventare un adulto capace di riconoscere il suo posto nel mondo e una vita soddisfacente, richiede un impegno maggiore e costante, ma è uno sforzo necessario. Una persona “fondamentale” spesse volte rimane un faro, un modello da seguire in un rapporto autentico e speciale di reciproca presenza, sostegno ed affetto. Tale guida è importante anche per sviluppare una vita affettiva e relazionale matura e sena.

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Un bagno di libertà: l’accoglienza è uguale per tutti?

Da più di dieci anni passo volentieri un periodo delle vacanze estive in un paese della Toscana da una mia parente, Ali.

Da sempre ritengo questa regione un esempio di ospitalità e accoglienza per tutti, anche per me. Nel paese dove mi reco mi conoscono un po’ tutti. I miei amici; si sono accorti dell’accoglienza e dell’ospitalità nei miei confronti di tutto il paese.

Nelle giornate più calde le ho trascorse sempre  in piscina, passavo le giornate tra decine di vasche e collegarmi ad internet con il mio portatile. Mi piace starci da sola, parlare con i turisti, i dipendenti, i proprietari. Amo nuotare, è il mio sport ideale: in assenza di peso mi muovo in modo fluido, inoltre ho fatto tanti corsi per imparare e perfezionare i diversi stili. Piccole cose che mi fanno sentire autonoma e accettata. Fino qui nulla di strano direte voi: un bell’esempio d’integrazione.

Purtroppo tutto di un tratto sono cambiate le cose: un giorno come tanti ero a tavola al bar della piscina, c’era un cameriere nuovo, chiedo il solito piatto di pomodori, ma intuisco che il nuovo personale non è abituato alla mia presenza, mi servono lentamente. Mentre mangio senza chiedere aiuto, al tavolo accanto a me, uno dei titolari, che ha un’età avanzata dice come se io non capissi: “non può stare abbandonata qui tutto il giorno”. Attonita e un po’ timida ho fatto finta di nulla.

Quando una persona è venuta a riprendermi, un altro titolare più giovane ha detto: “non la potete lasciare da noi sola tutto il giorno, lo dica a chi la ospita”. Infuriata ho provato a difendermi ma pioveva, c’era rumore attorno, lui non mi ascoltava… sono salita in macchina per tonare a casa di chi è quasi una nonna per me.

Chi era incaricata di riferire lo ha fatto.

La sera, molto arrabbiata ed incredula, ho convenuto con Ali che il giorno dopo sarei andata a parlare con il titolare, lei mi ha accompagnata, ma ho spiegato io le mie ragioni all’uomo che invece non era stato diretto con me:

Sono sempre stata in piscina da sola, lei mi conosce da anni, era gentile come i vecchi baristi, mi custodiva il computer, ora che succede?” Dissi.

Sono cambiate le regole, non puoi stare qui da sola. Se cadi i turisti si impressionano”.

Se cado mi rialzo da sola, come faccio dall’età di cinque anni –ho spiegato – non sono cambiate le regole ma il suo personale, il bagnino non mi vuole dare un braccio dalla piscina al bar e il barista si scoccia a tagliare, in caso, due pomodori”.

“Non paghi il lettino ma non puoi stare qui da sola, questo è quanto”.

“Preferisco pagare come tutti ed essere trattata come gli altri anni”.

“Non si può! Devi essere accompagnata da qualcuno.” Disse lui stizzito senza fornire spiegazioni alcune, prima di tornare velocemente al bar.

Io e altre persone abbiamo cercato il “regolamento cambiato” citato dal proprietario ma  non vi è traccia… immagino una regola scritta: “in questa struttura accettiamo persone con disabilità, ma solo se con accompagnatore.” Ottima pubblicità per attirare più clientela, che negli anni si è già drasticamente ridotta!

L’unica cosa da fare a quel punto era o rimanere a casa nel piccolo paese, o andare in piscina con Ali, che ha ottantaquattro anni.

Evviva l’integrazione e pari diritti per tutti. Sono maggiorenne, ho la patente di guida, per mia fortuna scrivo, racconto, ho una laurea di cinque anni, eppure in tanti dalla scuola in poi mi hanno creato ulteriori ostacoli. Come sarebbe andata la vicenda se al mio posto ci fosse stata una persona non perfettamente in grado di capire, di difendersi o di chiedere aiuto? Forse è proprio questo che ha sempre messo gli altri in difficoltà nel rapportarsi con me, il fatto che riesco a argomentare, pensare e scrivere.

Un tempo i disabili vivevano a casa e frequentavano classi speciali, ma oggi l’integrazione e il riconoscere le capacità, i limiti (i miei non li ho mai negati o nascosti…), le peculiarità, i talenti e la diversità di ognuno è un fatto reale e per tutti o bisogna sperare di avere un po’ di fortuna?

E pensare che  la Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità si esprime chiaramente  in merito alle discriminazioni illustrandole con  queste parole: “Discriminazione sulla base della disabilità indica qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole. La Convenzione riporta anche il concetto di accomodamento ragionevole spiegandolo: “L’Accomodamento ragionevole è il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa”. Bei principi che non sempre sono conosciuti e rispettati.  Mi viene in mente una frase di Emanuela Breda che mi sembra adatta al caso: “Ogni essere umano è unico: rispettarne la diversità equivale a difendere la propria e l’altrui libertà.”

L’intento di questo articolo non è quello di “denunciare”, ma tentare di tutelare la libertà e l’autonomia di molti, cercando, nel mio piccolo, di contribuire al diffondersi di una cultura che tenga conto delle specifiche diversità degli individui, non trattandole come problematiche bensì inglobandole nella quotidianità.

Spero che quello che è successo a me non capiti ad altri e che l’accoglienza, la quiete, le tante eccellenze di tutta la Toscana rimangano tali per tutti, senza inutili distinzioni.

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L’occasione favorevole per lavorare con orgoglio

Zoe a Radio Freccia Azzurra

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L’occasione favorevole per lavorare con orgoglio

“Le tre regole di lavoro: 1. Esci dalla confusione, trova la semplicità. 2. Dalla discordia, trova armonia. 3. Nel pieno delle difficoltà risiede l’occasione favorevole.” Lo affermava Albert Einstein. Vale anche per me, per l’esperienza importante che vi sto per raccontare: a gennaio 2016 ho iniziato a lavorare presso la testata on-line Piuculture, il giornale dell’intercultura a Roma.

Da subito la mia collega e tutor mi ha trattato alla pari, con rispetto; lei e la responsabile del giornale mi hanno affidato incarichi seri: dovevo partecipare per il giornale a conferenze sul tema delle migrazioni e scriverne un articolo.

Nulla di più gratificante per un’aspirante giornalista! Le prime settimane sono state di formazione, la mia collega mi ha insegnato le regole del mestiere, il metodo per prepararmi alle conferenze, scrivere un pezzo rispettando le cinque W, l’essere esaustiva con un certo numero di battute e molte funzioni di word-press che su Piccologenio non avevo ancora utilizzato.

Quanta pazienza all’inizio con una persona che di fatto non era mai entrata in una redazione,  non aveva la praticità del lavoro, ma solo tante nozioni universitarie. Avevo da poco scritto un romanzo, quindi fino ad allora mi ero sentita dire “più scrivi, racconti, aggiungi dettagli, sei narrativa… e meglio è”!

Tornando nel vivo del lavoro, anche andare autonomamente alle conferenze, registrare, prendere appunti, fare foto, avere i biglietti da visita del giornale per fare rete è appagante; un’esperienza nuova: ho collaborato con altre testate on-line e cartacee, ma erano e, talvolta continuano ad essere, collaborazioni volontarie e sporadiche.

Il mio entusiasmo per un vero lavoro gratificante ed articolato, in un’ambiente accogliente è stato colto non solo da famigliari ed amici, ma anche da tanti conoscenti che alla domanda ed ora di cosa ti occupi vengono travolti dal racconto minuzioso del mio essere giornalista per Piuculture. Tale narrazione non è venuta meno anche in articoli e interviste che riguardano Nata viva e alla web-radio Freccia Azzurra.

I primi tempi mi occupavo di redigere gli articoli e mettere notizie brevi sul sito del giornale; attualmente sto imparando a gestire i contenuti social di Piuculture; questo anche perché si tratta di un tirocinio formativo, oltre che di una esperienza lavorativa.

Si tratta di un piano di lavoro promosso dal Comune di Roma e dal Municipio per persone con handicap fisico e cognitivo. In passato avevo già aderito a questo tipo di progetto, ma la cooperativa che era stata incaricata dal Municipio II di seguire il programma non funzionava bene: la psicologa nelle riunioni di autoaiuto ci diceva che i tirocini erano di basso livello, che le cose erano così per tutti i tirocinanti e che a nulla sarebbe servito coinvolgere le dottoresse con incarichi più alti del suo.

Per fortuna del 2016 sono stati trovati i fondi per ripetere l’esperienza e questa è stata affidata ad una diversa cooperativa. Tutti i ragazzi sono stati inseriti in posti adatti alle loro competenze ed aspirazioni. Nell’ambito del percorso formativo si svolgono delle riunioni: si tende a facilitare il racconto del lavoro evidenziando aspetti positivi e negativi, di modo che la psicologa referente della cooperativa possa intervenire qualora ce ne fosse bisogno. Queste riunioni e il lavoro stesso, sono servite a tutti i partecipanti per migliorare sull’autonomia, la consapevolezza ed il rispetto delle regole.

In futuro non si sa se ci saranno i fondi per ripetere il progetto, se la cooperativa sarà la stessa, nel frattempo ogni ragazzo è stimolato a cercare un vero lavoro, inviare il curriculum, guardarsi gli annunci per le categorie protette, ma si sa che non è semplice trovare un lavoro vero.

Per quanto mi riguarda, mi dispiace che un’esperienza positiva, gratificante, dove ho imparato tanto, ma tanto ancora potrei apprendere, duri solo quattordici mesi. Non mi capita spesso di poter fare, rendermi utile in progetti ampi e condivisi, avere regole, scadenze da rispettare ed un impegno serio da portare avanti, trovarmi bene con le persone con le quali mi rapporto. A volte basta poco per valorizzare le competenze, i punti di forza, le piccole e grandi autonomie che ciascuno porta con se.

Mi torna in mente un aforisma di Primo Levi sulla bellezza del lavoro: “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.”

Con questo mio articolo ed il precedente: “Abituarsi alla diversità dei normali è più difficile che abituarsi alla diversità dei diversi”, vorrei cercare di far conoscere le situazioni che meritano di essere pubblicizzate e replicate.

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L’assistente sessuale come mediatore culturale

  Nulla al mondo è  normale. Tutto ciò che esiste è un frammento del grande enigma. Anche tu lo sei: noi siamo l’enigma che nessuno risolve.

Jostein Gaarder

Ritorno ad affrontare il delicato tema dell’assistenza sessuale in Italia. Chi ha già letto i miei vari articoli su amore, sessualità e disabilità, potrebbe chiedersi come mai insisto ancora su questa tematica, se per caso non ne sia magari ossessionata. La spiegazione è semplice.

 A mio avviso ogni individuo ha diritto a ricercare i tanti significati dell’ amore attraverso un’ educazione sentimentale appropriata. In rapporto alla disabilità questo non avviene mai seriamente. Molto spesso la scoperta della propria identità, delle proprie capacità di relazione, nonché della capacità di amare, di prendersi cura di sé e degli altri  avviene anche attraverso l’ opportunità di godere, di provare piacere, di raggiungere pienamente un orgasmo, combattendo in questo modo la frustrazione, la depressione e la sfiducia in se stessi e negli altri. Per tutti e per tutte è così, a livelli diversi. E in questa moltitudine, siamo compresi anche noi… disabili.

Documentandomi attraverso vari fonti, conoscendo persone, ascoltando le loro storie, mi sono convinta che se anche qui  in Italia si accettasse la figura dell’ assistente sessuale, si accetterebbe anche il “tramite“, il mediatore culturale giusto  tra sessualità, educazione sentimentale e disabilità. Ora è pur vero che molte delle persone che ho incontrato e che mi hanno raccontato le loro esperienze in tal senso, non hanno voluto e non vogliono – anche legittimamente – esporsi e testimoniare pubblicamente questo vissuto con le relative scoperte e prese di coscienza. In attesa che si sentino “liberi“ di poterlo fare e che quindi la scuola e la famiglia, gli Istituti per disabili, le Case-famiglia e chissà un giorno le parrocchie, facilitino tale cambiamento e possibilità di racconto, mi prendo io la briga, l’ onore e l’ onere di parlarne  come posso, sotto diverse prospettive. 

 Cominciamo a riflettere su un dato importante: da più di un anno è chiuso in un cassetto di una scrivania del Senato il disegno di legge 1442 che mira ad inserire in Italia questa figura.

Prendo spunto da quanto affermato da Maximiliano Ulivieri, per passare poi a considerazioni riguardanti l’amore e la sessualità dei cittadini italiani disabili, ma ovviamente di conseguenza si deve parlare anche di politica, di leggi, di cittadinanza e diritti, di Vaticano, di denaro e prostituzione.

 «Il problema principale in Italia è la burocrazia, la legge. Nel nostro Paese – racconta Ulivieri (persona con disabilità che ha  iniziato una battaglia per ottenere l’assistenza sessuale non per lui – che è sposato – ma per molti disabili che bramano questo diritto), questa figura non è riconosciuta perché viene accostata alla prostituzione – anche se è tutt’altro – che in Italia è illegale». Anch’ io, insieme ad Ulivieri, saremmo favorevoli alla legalizzazione della prostituzione, «in modo da permettere anche agli assistenti sessuali per disabili, di operare nella legalità ».

«Sarebbe un primo passo – dichiara– ma noi ci continueremo a battere per il riconoscimento specifico di questa figura».

Oltre a un problema innegabile per il quale in Italia tutta la burocrazia è lenta e macchinosa, il Belpaese, spesso, deve fare i conti anche con una serie di resistenze culturali, probabilmente strettamente connesse alla religione.

«In Italia non si parla neanche della sessualità dei normodotati», ragiona Ulivieri.

Come Ulivieri anch’io non voglio il riconoscimento di questo diritto a fini personali. Dopo diverse storie sentimentali ed alla luce di un forte legame con un uomo, che, non ostante tutto… ci stiamo avvicinando a festeggiare dieci anni di un’intensa e passionale amicizia… non credo che mi rivolgerei ad un assistente sessuale. Il ruolo di questa figura è “terapeutico“, ha una serie di divieti… Quindi, a mio avviso, è molto utile per le tante persone che hanno un handicap cognitivo, o per i disabili motori che hanno un handicap talmente accentuato che non li permette di essere ricambiato nell’amore e nel desiderio.

Conoscevo un uomo quarantenne che desiderava una storia seria. Lui aveva un lieve handicap motorio LIEVE, lavorava, aveva degli amici, sognava un matrimonio e dei figli. Lui non sapeva distinguere  tra amore e pornografia… Non sapeva il significato di “erotismo“… non capiva le esigenze della sua donna, non sapeva badare a se stesso… non era in grado di andare da solo in farmacia… Ecco forse in quel caso una terapista del sesso poteva essere utile per aiutare il ragazzo con l’ABC dell’amore, erotismo, su come doveva relazionarsi con la donna, che, almeno a parole… diceva di amare e voleva rendere felice. Quella coppia è scoppiata lasciando più cicatrici di quanto si possa immaginare, c’è stata tanta amarezza, rabbia, solitudine, delusione. Ma chissà come sarebbero andate le cose se lui avesse seguito pochi e semplici consigli medici, e se fosse stato “educato“ sentimentalmente e sessualmente da una “terapista sessuale professionista“?! Chi può dirlo…!

Tornando a ragionamenti più generali sull’assistenza sessuale per disabili e la situazione italiana, in primo luogo non mi sembra giusto bloccare una cosa così importante come l’assistenza sessuale per disabili. Ci nascondiamo dietro la scusa che ciò va fatto per non incoraggiare la prostituzione? Quanta ipocrisia dietro a facili e rapide conclusioni e “soluzioni“.

Altra scusa già troppe volte sentita: non si regolamenta l’assistenza sessuale perché da noi c’è lo Stato Vaticano.

È vero che la Chiesa è rigida sulla sessualità non finalizzata alla procreazione, ma diciamola tutta, fino a poco tempo fa, i preti pedofili erano impuniti, venivano solo “spostati“ da una parrocchia ad un’altra; adesso sembra che Papa Francesco abbia idee diverse sui preti pedofili; si sta aprendo all’ omosessualità e alle questioni sul matrimonio e sul divorzio. Chissà se arriverà anche a noi disabili, che, giusto per ricordarlo, in Italia siamo circa 2 milioni 824 mila, di cui 960 mila uomini e 1 milione 864 mila donne.

Chissà quanti di questi votano? Me lo domando giusto per lanciare una provocazione.

Dopo questi  finti alibi,  vorrei tornare ad una realtà, quella dello sfruttamento della prostituzione che si consuma ogni giorno su tante strade e tanti quartieri delle nostre belle città. E le leggi? Che dicono le leggi delle donne in strada che, ricordiamolo, le più sono sfruttate. Certamente non pagano le tasse e non si sottopongono a controlli medici periodici. Loro sono tante, ogni giorno ed ogni notte in strada. Sorprendentemente sotto gli occhi di tutti. Ma non è legale. E perché la situazione non cambia? Dov’è chi se ne dovrebbe occupare?

E allora ammettiamolo: se sei un disabile ricco ti arrangi tra prostitute e operatori tantra, ma se sei povero? Se hai un handicap intellettivo e le prostitute si rifiutano di stare con te? Come al solito a farne le spese sono i disabili: un uomo normodotato può andare con una escort senza tante leggi e legalità! Per chi è disabile “stranamente“ è tutto più complicato; anche il sesso. E per tutto ciò ci vogliono le leggi?

Mi è rimasta impressa una mamma di un ragazzo disabile che, durante un convegno su amore, sessualità e disabilità, ha testimoniato che lei e tante altre mamme di ragazzi e ragazze con handicap cognitivo e/o motorio, erano pronte a organizzarsi per portare i figli all’estero, per consentire loro l’assistenza sessuale piuttosto che aspettare l’iter di un disegno di legge qui da noi. Penso che questa madre abbia lanciato una forte provocazione. Ma c’è chi “l’impresa“ l’ha compiuta e testimoniata come nel caso del film The special need (2014), di Carlo Zoratti.

A proposito di come vanno le cose all’estero riguardo la sessualità dei diversamente abili, trovo incisiva una breve testimonianza di Charlotte Rose.

Attraverso la giornalista Cecilia Marotta, veniamo a sapere che Charlotte Rose «in Inghilterra, offre piacere a chi soffre, senza pietà né falsi pudori. È una sex worker specializzata in clienti diversamente abili. Negli anni Charlotte ha imparato le tecniche per un orgasmo personalizzato; ogni disabile ha le proprie esigenze e deve essere stimolato in maniera diversa, come ogni individuo. L’obiettivo è aiutarlo a riconnettersi con la propria energia sessuale, per affrontare la malattia con maggiore vitalità.

Charlotte è fermamente convinta che il sesso sia un’esigenza primordiale da non sottovalutare. Per questo si iscrive al registro della TLC Trust, l’associazione inglese che si adopera per i diritti dei disabili e si preoccupa di metterli in connessione con un portfolio di escort disposte a partecipare a programmi di riabilitazione sessuale.

Charlotte è inoltre membro attivo del parlamento inglese e, tra le sue proposte, c’è quella di riconoscere ufficialmente la professione di assistente sessuale per portatori di handicap, che dovrebbe essere integrata nei servizi offerti dal National Health Service.

In Olanda, Germania, Belgio, Paesi Scandinavi e Svizzera, l’assistente sessuale è già una realtà».

Tornando alla situazione italiana, ritengo giusto non tralasciare un discorso anche politico: mi sembra che alcuni  parlamentari siano attualmente impegnati a raccogliere voti nel modo a loro più semplice e congeniale, occupandosi dei diritti dei cittadini omosessuali e L.G.T.B.

I diversamente abili in fondo sono una minoranza un po’ vecchia, consolidata nel tempo e nello spazio, non conviene occuparsene, non porterebbero abbastanza voti. E poi “poverini“ hanno tanti problemi… “ma perché anche loro pensano al sesso?“

Poi anche il discorso prettamente legato al denaro andrebbe affrontato di più e meglio (non lo sento fare nei convegni dedicati ad amore sessualità e disabilità e, a riguardo, non lo trovo spesso negli articoli dedicati alla tematica); è una realtà ed è bene parlarne: mentre l’assistenza sessuale è gratuita in tanti Paesi, da noi molti disabili sono pronti a “giocarsi“ la pensione d’invalidità per un po’ di sesso o un massaggio tantra. C’è chi è in astinenza ed è destinato a rimanerci e chi dopo anni ed anni di astinenza scopre la sessualità ed è pronto a spendere qualsiasi cifra per un po’ di piacere, una, due, dieci, quindici volte al mese. La figura dell’assistente sessuale prevede una giusta preparazione psicologica che mira ad evitare il pericolo che per il disabile il sesso diventi una mania o una dipendenza.

Ritengo che per uno Stato “civile“ non sia mai troppo tardi varare nuove leggi o modificare quelle esistenti. Un Paese cattolico come l’Irlanda si è aperto alle unioni di persone dello stesso sesso.

E da noi, in Italia,  quale grado di cittadinanza ci viene concesso?

Perché non è mai possibile aspettarsi che siano presi in considerazione tutti i nostri bisogni?

Per approfondire altre tematiche legate a diritti e disabilità, vi rimando ai seguenti link:

http://www.piccologenio.it/2015/07/12/auto-nomia-una-luce-tra-le-tenebre-delle-patenti-speciali/ (Auto – nomia: una luce tra le tenebre delle patenti speciali)

http://www.piccologenio.it/2014/07/10/la-mia-esperienza-di-tirocinio-lavoro/ (La mia esperienza di tirocinio/lavoro)

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La mia prima esperienza di tirocinio-lavoro

Sono una ragazza che ha conseguito la laurea triennale in Scienze dell’Educazione e della Formazione con lode. Ho terminato il mio percorso di studi specializzandomi in Editoria e Scrittura  alla facoltà di Lettere della Sapienza, votazione 108 su 110.

Mentre studiavo ho pubblicato il mio primo libro, un romanzo di formazione dal titolo Nata viva.

Come tanti altri giovani, anch’io da  neolaureata ho cominciato ad inviare il curriculum ad un numero considerevole di enti sia privati sia pubblici. Molti di questi si sono congratulati per le mie esperienze pregresse, dicendomi che gli sarebbe piaciuto avermi nel loro organico, ma purtroppo non avevano possibilità di assumermi.

Dopo mesi di ricerche, mi si aprì un unico spiraglio per il curriculum inviato al comune di Roma, precisamente allo Sportello Disabili Adulti. Una dottoressa mi chiamò dicendomi che potevo iniziare un “tirocinio-lavoro”. Accettai. E fu così che scoprii la realtà del lavoro per disabili, una realtà che quando mi impegnavo per tenere alta la media dei tanti esami universitari, non avrei mai immaginato. Prima di una vera e propria assunzione bisogna fare un lungo tirocinio e non conta se hai un bel curriculum o meno, se hai una disabilità solamente fisica o un ritardo cognitivo, se sei plurilaureato o hai conseguito la licenza media… Il tirocinio dura sei mesi senza prospettive garantite per il dopo, ed è per tutti di basso livello. C’è chi sistema libri tutto il giorno, chi mette a posto le merci nel magazzino di un supermercato e chi come me dovrebbe catalogare le foto in un grande istituto  per disabili. E’ proprio in un istituto per disabili che mi sono trovata. Avendo una disabilità motoria mi è  stato offerto un “compito” al pc di catalogazione foto e di scrittura. Poca roba direte voi, ma si sa che all’inizio c’è la gavetta per tutti! Andavo lì ogni giorno come un vero par-time peccato che il pc era sempre occupato! Ho fatto pochissime ore di  lavoro effettivo, anche se dovevo andare lì comunque tutti i giorni in quanto avevo firmato un contratto con il comune di Roma, dal quale ho ricevuto un piccolo rimborso spese; mentre il pc serviva ad altro, ad altri o non era ancora stato formattato mi era stato detto che potevo sedermi al bar a prendere un caffè. Pensavo che sarebbe stata una cosa momentanea, invece passavano giorni, settimane,  mesi ed il mio posto sembrava essere solo al bar con altri handicappati che come me non facevano nulla. Non potevano fare nulla! Io attendevo senza rassegnarmi: raccontavo tutto alla psicologa del Comune di Roma che a  sua volta parlava con la mia tutor all’interno della struttura, ma l’unico computer disponibile o non era pronto o era occupato e nell’Istituto non c’era nessuna mansione più utile e gratificante da svolgere. La noia, l’accidia e l’inutilità incombevano, ma non i sensi di colpa. Non potevo sentirmi in colpa per il mal funzionamento dovuto ad altri.

Questa non era la mia prima esperienza all’Istituto, durante la laurea triennale avevo svolto un altro tipo di tirocinio, mi  ero trovata bene. Affiancavo una dottoressa, osservavo dei casi di bambini, disabili e non, con problemi scolastici. Sempre in quell’occasione avevo inoltre seguito un interessante corso sulla Comunicazione Aumentativa Alternativa. A conclusione di quell’esperienza formativa avevo anche tenuto una conferenza, per gli insegnanti, sugli ausili informatici per l’handicap. C’è stata anche un’altra occasione dove il mio vissuto è servito a dare lustro all’Istituto: in occasione della presentazione del mio romanzo autobiografico. In quell’occasione, oltre a parlare del libro, ho presentato la mia evoluzione professionale, all’interno dell’Istituto e all’esterno con un progetto pedagogico nelle scuole. Quest’ultimo progetto è stato molto gratificante: mi ha permesso di raccontare l’handicap a tanti ragazzi di medie e licei che mi hanno accolta e benvoluta anziché  negare la disabilità o non volerla capire come spesso avviene a quell’età.

Al bar vedevo altri disabili che passavano interminabili mattinate a guardare il vuoto, mi ha colpito un ragazzo la cui disabilità non gli permetteva di parlare, lo vedevo sonnecchiare in una posizione scomodissima, erano pochi i disabili non inseriti in qualche interessante laboratorio.

Mentre mi annoiavo feci amicizia con un ragazzo che come me  ha solo una disabilità motoria. Anche lui si annoia ed è molto critico verso l’Istituto. Ci siamo messi d’accordo e abbiamo iniziato a vendere il mio libro a tante persone che passavano per quel bar. Lo so che è sconcertante farsi i propri interessi sul luogo di lavoro, aspettavo  che la mia tutor mi dicesse qualcosa ed ero pronta a rispondere “lo so che non devo farlo ma qui continuo a non aver nulla da fare!” Gli affari andavano a gonfie vele, la mia tutor mi vide fare le dediche, prendere i soldi e non mi disse mai nulla. Le chiesi spesso se la biblioteca, con l’unico pc disponibile, si fosse liberata; mi rispondeva che era questione di pochi giorni.

-Nel  frattempo posso restare a casa? – le chiesi- Comincio a sentire la fatica di venire qui tutti i giorni.-

-Facciamo così: il lunedì sarà il tuo giorno libero, gli altri giorni vieni perché anche se l’esperienza non è come te l’aspettavi puoi firmare la presenza.-

Non capisco questa mentalità di volere vedere gli handicappati  impegnati in qualcosa, non importa cosa e se siano veramente impegnati.

Mi rendo conto della difficoltà di realizzare piani individuali, ma la frustrazione, la rabbia, l’aggressività e l’autolesionismo che possono  sfociare da questa marginalizzazione dei disabili nel mondo del lavoro, o nell’assistenzialismo, di questo sembra che, nella maggior parte dei casi, nessuno se ne preoccupi o se ne occupi nel modo giusto.

All’istituto mi ha colpito una ragazza con ritardo cognitivo e con un problema di udito molto accentuato. Con me era dolce, mi accarezzava, mi chiedeva se avevo una caramella, mi salutava sempre… con gli operatori che la richiamavano ai suoi compiti era aggressiva, urlava e diceva moltissime parolacce. Anche se noi tutti le  dicevamo che le parolacce non si dicono lei continuava: era l’unico modo che aveva per ribellarsi e mostrare i suoi stati d’animo.

Tornando alla spinosa questione del lavoro per le persone disabili, l’articolo 1 della Legge 68/99 recita: “La presente legge ha come finalità la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato”. La Legge 68/99 stabilisce che i datori di lavoro privati e pubblici con più di 15 dipendenti al netto delle esclusioni, siano tenuti ad avere alle proprie dipendenze lavoratori appartenenti alle categorie protette (disabili) iscritti in appositi elenchi gestiti dall’Agenzia del lavoro della provincia di riferimento.

Per le aziende che occupano più di cinquanta dipendenti la percentuale riservata all’assunzione delle persone disabili è il 7%. La legge prevede questo, ma nella prassi applicativa le cose sono molto diverse, molte aziende preferiscono pagare una multa piuttosto che assumere personale con varie invalidità. Inoltre è importante notare che la realtà imprenditoriale italiana è costituita in buona parte da piccole e medie imprese a conduzione familiare (si stima infatti che la dimensione media delle imprese italiane sia di 3,7 impiegati ) per cui è quanto meno residuale, se non irreale, l’obbligo di assunzione previsto dalla suddetta legge e riferito alle aziende con più di 15 dipendenti.

È riconoscibile un fenomeno di integrazione subalterna dei disabili, che prescinde dal titolo di studio e dalle attitudini personali.

Ci sono molte persone che non si arrendono a questa realtà, organizzano associazioni, convegni, bussano a tutte le porte possibili… ma la strada è ancora lunga e la rabbia  cresce di giorno in giorno.

L’esempio riportato dimostra come, ancora una volta, per ottenere il rispetto dei propri diritti si debba portare avanti una battaglia solitaria.

La mia riflessione non vuole essere un’accusa o una lamentela. Durante la recente esperienza sono stata affiancata da due persone, la mia tutor e la psicologa del Comune di Roma, valide, presenti e molto attente al loro lavoro, ma purtroppo impotenti di fronte ad un sistema in difetto.

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