La depressione è una malattia, e si può guarire.

La depressione è una malattia a tutti gli effetti, essa, se trascurata può avere sintomi che debilitano il fisico come l’assenza di appetito che spinge l’individuo a non mangiare, l’insonnia grave e ripetuta, l’assenza/sospensione del ciclo mestruale, l’essere sempre stanco e apatico, non avere più un giusto ritmo sonno-veglia, essere disorientato nello spazio e verso gli altri, piangere spesso, sottovalutarsi e pensare al suicidio, trascurare aspetti della vita importanti che portano l’individuo ad uscire di casa, lavorare, avere degli amici. Questi sono i sintomi più frequenti di questa patologia. Certo oggi si fa fatica a distinguere un po’ di tristezza dalla depressione e il consumo di ansiolitici ed antidepressivi è in netto aumento rispetto allo scorso decennio, come si evince da un’indagine dell’ Aifa, Agenzia italiana del farmaco. Inoltre gli antidepressivi risultano al primo posto tra i farmaci usati per il sistema nervoso centrale: questi ultimi sono al quarto posto per consumi. La depressione in Italia  colpisce circa otto milioni di persone!

È sbagliato il fai da te: addirittura negli USA si somministrano farmaci antidepressivi (che, voglio ricordare, creano dipendenza) ai bambini, per contrastare piccole pecche caratteriali!

Trattandosi di una malattia psichiatrica, per la depressione è necessaria una diagnosi del medico ed il fai da te è spesso deleterio. Purtroppo nella nostra società permangono ancora molti pregiudizi, le persone non ammettono di soffrirne e non vogliono ricorrere alle cure di uno specialista.

Il modo di ragionare di molti si aggrappa ancora a stereotipi del tipo:

Se vado dallo psicologo vuol dire subire una sconfitta perché non ce l’ho fatta da solo!“

“Se mi curo da uno psicologo penseranno che sono matto!

“Se cambio i miei pensieri non sono più io!“

“E’ impossibile cambiare! Sono fatto così“

Ci vorrebbe solo un miracolo!“

Anche i familiari tendono a sminuire il problema con frasi del tipo:

Sei solo un po’ triste e stanco.“

“È colpa tua: dovesti reagire, esci che ti passa“ .

Niente di più sbagliato: chi è depresso spesso non ha le forze né morali né fisiche per cambiare comportamento. Inoltre con queste frasi tipiche si tende ad abbassare la già scarsa autostima andando ad ampliare i pensieri di autolesionismo e tendenze suicide di questi soggetti. Per ottenere un buon risultato bisognerebbe, dopo una seria diagnosi, agire, con terapie adeguate, sia sul paziente sia sul nucleo familiare. Ci vuole tempo per risalire dall’abisso, ma si può se si fa psicoterapia, se ci si rieduca ad uno stile di vita sano e scadenzato. Nei casi più acuti, magari dove il primo intervento è arrivato in ritardo, assumere le giuste medicine può rivelarsi utile per affrontare i disturbi fisici ed ritrovare la voglia e le energie per recuperare uno stile di vita più corretto ed aperto verso l’esterno.

Purtroppo questa malattia colpisce anche in giovane età, a soffrirne di più sono le donne rispetto a gli uomini. Queste possono arrivare all’apice che le porta a disprezzare se stesse.

All’esordio del problema si manifesta un’ansia  immotivata e/o attacchi di panico anche per lunghi periodi. Col passare del tempo si presentano altri sintomi fisici che non ho ancora elencato, si tratta di disturbi della digestione e gastro intestinali, la testa spesso diventa pesante o sembra essere stretta da una morsa, c’è la fame nervosa che ti spinge a svuotare il frigo principalmente quando non si riesce a dormire.

A volte la terapia farmacologica non da i risultati sperati, è possibile dover cambiarla prima di trovare le dosi ed il farmaco giusto. Con la terapia e psicoterapia giuste si può guarire anche se il percorso è molto lungo e dopo ci possono essere ricadute, ma è possibile imparare a gestirle.

Riporto ora una breve testimonianza di un uomo che è riuscito a guarire completamente.

Alla domanda “Che consiglio darebbe a chi leggendo queste righe si identificasse con la sua storia e non sapesse come uscirne?“ Salvio risponde che:

Anche se è difficile nella condizione del depresso, consiglio di non arrendersi, di continuare a cercare una cura e perché no, magari una psicoterapia cognitivo-comportamentale associata in un primo periodo ad una cura farmacologica ‘su misura’ e prescritta da specialisti. Sì, si può vincere la lotta contro la depressione!

Anche un’altra domanda dell’intervista mi ha colpito perché porta un messaggio positivo che merita di essere divulgato:

Cosa le ha insegnato la lotta contro la depressione? Chi era Salvio prima della malattia e chi è oggi?

La lotta contro la depressione mi ha insegnato che se è ben mirata fornisce risultati positivi.  Mi ha anche insegnato ad avere empatia verso chi ancora ne soffre e mi ha fornito l’input per aiutare altri.

Prima della malattia ero un essere completamente ‘annullato’, impotente,  incapace di sperare, tanto meno di realizzare i propri sogni. Oggi posso dire di essere una persona normale, senza più addosso quel peso insopportabile della malattia. Oggi posso permettermi di affermare di essere: “Al di là della depressione“

Al disturbo depressivo spesso è associato un eccessivo consumo di alcol, i motivi possono essere:

–        per ovviare e contrastare l’insogna

–        per cercare di rilassarsi

–        per non pensare

–        per annullarsi sempre di più

–        per ottenere un comportamento autolesionista.

Per questo associo a questo articolo il link del mio post sull’alcolismo: http://www.piccologenio.it/2014/11/10/lerrore-nel-sottovalutare-le-malattie-invisibili-cause-e-effetti-dellabuso-di-alcol/

Per i disturbi psichiatrici non bisogna aver timore di chiedere aiuto, non è una vergogna soffrirne. Capito ciò se ne può uscire!

La depressione non è un sentimento, ha diverse gravità: 3 fasi significative; visone negative di se stessa, del mondo, del futuro. influenza alimentazione e sonno. Poca capacità di concentrarsi. : https://www.youtube.com/watch?v=LyFIzozNi-c

seconda parte, le terapie: https://www.youtube.com/watch?v=dAGToPTGO_g

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La disabilità è come il mare, sta a noi farci trasportare da esso – La disabilità nel rapporto tra fratelli.

Spesso i fratelli di bambini con disabilità vanno incontro ad un maggior carico: se da piccoli devono capire e rapportarsi con un bambino “diverso“ da grandi, specialmente se mancano i genitori o quando questi invecchiano, devono pensare ad un fratello “speciale”, ed in qual modo, a volte, devono fare le veci dei genitori.

Dopo aver parlato della mia personale esperienza di ragazza disabile con una sorella normodotata nell’articolo: Two is better than one – L’importanza di avere una sorella. Che troverete nel link: http://www.piccologenio.it/2014/08/19/two-is-better-than-one-limportanza-di-avere-una-sorella/ vorrei affrontare in modo più generale questa importante tematica e soffermarmi sul punto di vista del soggetto familiare non disabile.

Spesso le dinamiche che si istaurano tra bambini e fratelli “diversi“ sono varie e possono variare dal totale rifiuto ad un profondo amore, aiuto e complicità.  I bambini portatori di handicap possono dare un amore intenso ai fratelli  e sostegno morale e psicologico, tutto questo può creare tra di loro un’unione speciale e aiutare ambedue i fratelli ad ottenere dei risultati positivi nelle loro vite, ma può’ anche causare ansia, per esempio durante un momento di separazione.
Ci sono casi estremi nei quali la madre decide di ritirare la figlia maggiore da scuola per assistere la sorellina disabile in ospedale, come mi è capitato di leggere navigando sul web. Anche se ora sembrano felici, perché entrambe piccole, come sarà il loro rapporto in futuro segnato da rimorsi e sensi di colpa? Come si possono stravolgere così tanto le vite di due ragazzine che un domani saranno donne?

I libri, il vissuto, il sentito dire a volte servono a cambiare idea e quindi rotta. È fondamentale il ruolo dei genitori per creare l’armonia e attutire i sensi di colpa del disabile per non essere “normale“ e del figlio “normodotato“ per aver una sana voglia di farsi le sue normali esperienze di vita all’interno ed all’esterno del nucleo familiare d’appartenenza.

Fare rete, in qualche forma, in qualche modo – soprattutto nella totale assenza dello Stato – è un antidoto potente all’isolamento in cui tante persone disabili si ritrovano, spesso anche nei confronti delle proprie famiglie. Forse non salva, però aiuta: tante individualità che si trovano a superare insieme, ciascuno con le proprie capacità e forze, il dramma. Forse, con una provocazione, si potrebbe dire che la ferita lasciata nei famigliari è quasi una disabilità permanente. Ma essa si può affrontare se si vuole, se si è in grado di chiedere aiuto, se non si pensa solo alla propria ferita ed al lato negativo della cosa. Un figlio, un fratello speciale non sarà mai uguale agli altri, ma quanto saranno importanti le sue conquiste, le sue vittorie quotidiane? La disabilità può essere come il mare sta a tutti noi farci trasportare da esso.

In passato si credeva che il rapporto tra fratelli, dove uno di questi fosse portatore di handicap, sarebbe stato meno positivo e meno affettuoso. Ma, in alcuni casi si è riscontrato il contrario. Secondo lo studioso Stoneman il rapporto tra fratelli, dove uno di questi è portatore di handicap, è risultato più positivo del convenzionale rapporto tra fratelli, tuttavia quando sussistono delle discordie, queste sono più frequenti nei confronti di fratelli maggiori disabili.

Aldilà delle specifiche caratteristiche, il rapporto tra fratelli di cui uno è portatore di una disabilità è comunque diverso, alcune ricerche hanno osservato che nell’interazione tra fratelli, quando uno di questi ha disabilità, il bambino non disabile tende a prendere un ruolo d’aiuto e quindi un ruolo protettivo nei confronti del fratello disabile.

La disabilità, prima o poi, porta sempre ad un livello di solitudine più o meno accentuato, tanti genitori scappano tornando alla vita che svolgevano prima “dell’arrivo del figlio della discordia“ altri si rifugiano nell’alcol e nella depressione. I fratelli sono spesso in grado di rapportarsi meglio con gli insuccessi, i sensi di colpa, ma anche le sfide e le vittorie di una persona disabile perché nascono e crescono nella disabilità insegnando e imparando da essa.
E di solitudine parla anche Sandro Rizzi dalle pagine del Corriere della Sera (http://www.corriere.it/salute/cardiologia/13_ottobre_28/dopo-l-ictus-il-passo-diventato-lento-parole-hanno-ancora-piu-valore-0a12689a-3fdf-11e3-9fdc-0e5d4e86bfe5.shtml )descrivendo un “Prima“ dell’ictus che stenta a diventare un “Dopo“ perfettamente compiuto. Lo fa usando un’immagine di rara suggestione: “Gli anziani spesso si sentono isole, i disabili in più sono atolli. Sono lì da vedere, difficili da viverci“. “Ora che il passo è diventato lento, le parole hanno ancora più valore“ recita il titolo dell’articolo. Ed è vero che le parole sono ponti che permettono a tante solitudini diverse tra loro per origini, contenuti e protagonisti , di mettersi in comunicazione profonda,  così rendendo l’essenza della disabilità. Che non è altro che l’atollo descritto da Rizzi; un’isola con un buco in mezzo, una laguna  difficile da vivere, certo, ma tutta da scoprire. Un cerchio  imperfetto che non si perde come una tangente, piuttosto si curva, si chiude lentamente come un abbraccio e ridefinisce uno spazio dentro il quale si forma e vive un altro ecosistema, unico più che solitario.

 

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Una testimonianza su alcune ombre sulla situazione dei disabili in Italia.

In un’epoca come la nostra, l’epoca del fare, dell’agire in fretta ed efficacemente, spesso dimentichiamo la potenza delle parole, del dialogo, della trasmissione orale delle esperienze: in una parola l’importanza delle testimonianze. Dedicando qualche minuto del nostro scarsissimo tempo al dialogo, possiamo permette ai nostri interlocutori di aprire delle finestre nuove sulla realtà che noi conosciamo. In questo modo si alimenta la consapevolezza su tematiche e situazioni che altrimenti non emergerebbero. Dal seme della consapevolezza, certe volte, nasce un’azione convinta e profonda. Più circolano le informazioni, più cresce la probabilità di una reazione comune a ciò che non funziona.

L’articolo di oggi si basa appunto su una testimonianza di cui sono stata depositaria. La condivido con voi sperando di attivare una catena di consapevolezza e cambiamento.

Ciò che mi accingo a raccontare mi è stato riferito da un’operatrice di una cooperativa la quale si occupava dell’assistenza domiciliare ai disabili. Durante la sua carriera è stata mandata a fare assistenza ad una signora, circa cinquantenne, con sindrome di down, allettata a seguito di un incidente. Lo stato nel quale vivevano la madre e la figlia era a dir poco degradato e degradante. La figlia soffriva di allucinazioni in quanto viveva ormai a letto senza stimoli. In quel letto mangiava e faceva i bisogni, le lenzuola non venivano mai cambiate. Lei usava il catetere, una volta l’assistente domiciliare ha visto la madre che strappava con forza il catetere dalla vagina della figlia procurandole un forte dolore. Se l’assistente domiciliare voleva cambiare le lenzuola, la madre si opponeva e non c’era verso di farle cambiare idea. Anche la doccia alla signora down ,che chiamerò Rosa come nome di fantasia, doveva essere fatta assolutamente dalla madre, a modo suo. Quando Rosa veniva lavata urlava perché ormai associava quel gesto materno, o quando possibile delle operatrici, al dolore fisico. L’assistente domiciliare è riuscita, con garbo e premura, a tagliare le unghie della ragazza che erano talmente incolte che si erano ripiegate entrando nella carne delle dita.

Parlando a lungo con la madre della ragazza l’assistente aveva scoperto che da giovane lei rifiutava la figlia disabile. Prima dell’incidente Rosa lavorava, prendeva i mezzi pubblici da sola…  e sua madre stava giorno e notte al lavoro nel proprio ristorante in quanto non tollerava di avere una figlia disabile. Adesso con la vecchia erano arrivati i rimorsi di coscienza. Rimorsi che erano riusciti a segregare madre e figlia in una stanzetta umida, con le pareti scrostate ed una totale mancanza di igiene. Le due donne soffrivano di allucinazioni, ma sfido chiunque a vivere in una simile situazione e rimanere mentalmente lucido! Il medico di famiglia era al corrente della situazione e non faceva nulla. L’assistente domiciliare cercò di convincere la madre a rivolgersi ad una casa famiglia dove le avrebbero accolte entrambe, ma lei era troppo spaventata dal cambiare vita, temeva di perdere il totale controllo su Rosa, era terrorizzata dal cambiamento, in fondo in quella follia sentiva di avere tutto sotto controllo e per questo preferiva vivere in un tugurio, con i soldi per l’essenziale, e le sue assurde regole che le permettevano di tenere in pugno la figlia e le loro allucinazioni.

La madre faceva cose strane ad esempio spostava una pianta davanti la porta dando la colpa a gli spiriti maligni. Lasciava la figlia guardare il vuoto all’infinito.

L’assistente domiciliare aveva spiegato la situazione alla cooperativa dove lavorava, ma si era sentita rispondere che non erano fatti che competevano né a lei né a loro: meglio svolgere il proprio lavoro in silenzio. È così che vanno le cose in Italia, la regola dell’omertà e del silenzio vige ormai in molti ambiti. A mio avviso se ci fossero più denunce e maggior rispetto della dignità  umana si eviterebbero tanti episodi di cronaca nera.

Recentemente a Fermo si è verificati un caso a danni di bambini e ragazzi autistici fra gli 8 e 20 anni picchiati e tenuti sequestrati in una stanza di contenimento (cosa purtroppo non rara per la sindrome autistica). È  la pesante accusa che ha portato in carcere 5 educatori della struttura socio educativa e riabilitativa ‘Casa di Alice’ a Grottammare, in un’operazione condotta dai Carabinieri di San Benedetto del Tronto, e coordinata dalla procura di Fermo.

Si vede un uomo a torso nudo chiuso dentro e lasciato a terra da solo. Un ragazzino con una felpa che tenta disperatamente di farsi aprire la porta ma nessuno gli dà retta. Ad una ragazza vengono tolti i sandali con la forza. In un’altra stanza, arredata con tavolinetti e sedie colorate, ogni volta che un ragazzo cerca di alzarsi in piedi viene afferrato per le braccia e ributtato sulla sedia. I filmati sono stati girati dai carabinieri con telecamere nascoste.

C’è anche da aggiungere che questi episodi non sono nuovi alle forze dell’ordine in quanto dietro all’apertura di cooperative, case famiglie, ospizi… spesso ci sono interessi economici e non spirito di servizio o valori umani come dovrebbe essere. Ogni utente è una fonte di reddito per la casa famiglia, cooperativa sociale e/o casa di riposo per anziani, dunque perché non cercare di metterci le mani? In fondo si sa che molti disabili hanno problemi ad esprimersi, farsi capire o non vengono ascoltati, quindi perché non esercitare il potere e la propria volontà come insegnante, genitore, terapista o assistente?

Ovviamente non vorrei banalizzare e fare di tutta l’erba un fascio, ci sono anche strutture di eccellenza e persone che sono assistite nel modo migliore possibile vivendo da sole o con la propria famiglia. Queste situazioni dovrebbero diventare la norma per uno stato dell’Unione Europea.

 

 

 

 

 

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