Parti del mio elaborato di laurea

il questa pagina trovate le parti per me più significative del mio eladorato di laurea. Le ho sritte nell’anno accademico 2006 / 2007, e grazie al mio corralatore ed alla mia correlatrice, ho terminato brillatemente il triennio di Scienze dell’educazione e dalla formazione a “La Sapieza” di Roma.

titolo dell’eleborato di laurea: “teatro e diverse abilità” 

A mia nonna Mariagrazia,
che ha sempre creduto
me e con coraggio e costanza mi ha
sempre accompagnata nella vita
fino a questo importante traguardo

  Premessa
Ho deciso di scrivere un elaborato di laurea sul teatro, vedendolo come uno strumento valido per il recupero di diverse patologie.
In Italia e all’estero sono state fatte numerose rappresentazioni teatrali con persone che avevano uno handicap psico-fisico più o meno grave.
Nel 1998 ho conosciuto personalmente Alessandra Panelli, che mi ha spiegato e fatto vedere come riesce a far lavorare i ragazzi diversamente abili insieme a persone normodotate. Alessandra ha vinto una grande sfida: far scomparire le differenze durante tutta la realizzazione e la messa in scena dello spettacolo. Ho visto e ho provato personalmente come un laboratorio teatrale può giovare ai movimenti e alla parola per chi ha delle difficoltà. È stata proprio Alessandra che in un primo momento mi ha indirizzata al laboratorio teatrale di Stefano Viali che si teneva nel liceo Giulio Cesare. Ho partecipato a questo laboratorio per sette anni, dal secondo anno di liceo al secondo di Università e mi dispiace tanto pensare che un laboratorio di espressione, importante per molti adolescenti, è stato chiuso per mancanza di fondi da parte della scuola e di interesse e partecipazione del corpo docenti. Ringrazio il regista Stefano Viali che con tenacia e fiducia in me mi ha fatto superare molti ostacoli e mi ha aiutata a scoprire tante mie capacità; tutti gli alunni del Giulio Cesare che mi hanno insegnato tanto e mi hanno accolto senza dare peso al mio handicap fisico rispetto a tutti loro “normodotati“. Ringrazio anche Alessandra Panelli perché fin dalle prime pagine di questa tesi lei mi ha aiutato con lunghe telefonate, scambi di mail, di opinioni e di informazioni.
Ringrazio anche mio nonno Adriano che mi ha aiutata a reperire dei testi in cui si spiegava il legame tra il teatro, la pedagogia e la psicologia; da questi testi ho estrapolato tutta la prima parte del mio elaborato di laurea. Un grazie particolare va a Sara, che conosco da quattro anni, e Carmen che mi hanno aiutata a preparare molti esami superati sempre con ottimi voti e mi hanno aiutata a mettere su carta le mie tante idee su questa mia esperienza.
Nella parte esperenziale ho voluto sottolineare la figura di Stefano ed anche di Igor che purtroppo ci ha lasciati a causa di un incidente in motocicletta.
Nell’ambito universitario ho instaurato un rapporto di stima con il Professor Nicola Siciliani de Cumis che oltre ad essere un docente con il quale ho sostenuto cinque esami, molti dei quali con la lode, è diventato per me un punto di riferimento, una persona a cui chiedere consigli sui miei esami e anche su questioni personali che lui ha conosciuto bene, sto pensando alla mia passione per la scrittura e a quando gli ho chiesto un consiglio a proposito di corsi o scuole inerenti.
Ringrazio anche la Professoressa Maria Serena Veggetti, con la quale ho sostenuto due esami di psicologia entrambi con voto di ventisette su trenta. In particolare, ricordo che al test scritto del secondo esame presi ventuno e lei mi consigliò di rifiutare il voto dandomi la possibilità di sostenere l’esame orale e migliorare il mio profitto. Ho chiesto a lei la correlazione dell’elaborato perché volevo unire l’esperienza del laboratorio teatrale sia alla pedagogia che alla psicologia.
Un ringraziamento particolare va al Professor Lucisano, Presidente del Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione e della Formazione,  che mi ha spinto a rapportarmi con l’Università in un momento in cui avevo deciso di non aver più nulla a che fare con professori e con i libri poiché ero terrorizzata non solo dall’impegno dello studio ma anche dall’idea che mi potessi ritrovare in un clima di ostilità ed incomprensioni con i docenti, così come avevo  vissuto durante gli anni del liceo.
Per spiegare meglio faccio un passo indietro.
Mi ricordo che dopo la maturità avevo deciso di non proseguire gli studi perché al liceo, in particolare nell’ultimo anno, avevo avuto degli scontri con la preside e la vicepreside: in quell’anno mi sono impegnata con degli sforzi immani per me, spesso capitava che studiassi anche nove o dieci ore al giorno.
Intanto, all’interno della classe si è venuto a creare un clima di contrasti in seguito ad atteggiamenti di scarsa apertura e di inutili paure dell’insegnante tutor: in occasione di una gita scolastica che durava solo dalla mattina alla sera, avevo espresso il desiderio di non dover ricorrere all’accompagnatore (un familiare o una persona scelta dalla mia famiglia), data la mia discreta autonomia. L’insegnante, in mia assenza, ha convinto le mie compagne di classe del fatto che tale mia esigenza potesse compromettere la buona riuscita della gita, in quanto avrebbe limitato la libertà e il divertimento di tutti. Pertanto, al rientro a scuola, ignara dell’accaduto, sono stata messa al centro di una discussione e le mie compagne hanno iniziato a dirmi che non se la sentivano di assumersi “la responsabilità morale e giuridica di aiutarmi“. Vorrei precisare che il loro “gravoso aiuto“ sarebbe consistito solo nel pormi un braccio nel momento in cui dovevamo camminare, cosa che loro già facevano a scuola. Anche lì però, a mio parere, la modalità con cui loro mi aiutavano fisicamente non era autentica e ciò sicuramente ha influenzato il tipo di rapporto tra noi: era l’insegnante tutor a decidere chi, a turno, giorno per giorno mi doveva aiutare. Ritengo che questo metodo era poco funzionale e poco significativo in quanto già dal primo anno di liceo io non  mi sentivo del tutto integrata nella classe. La differenza che percepivo non era solo un fatto fisico, quindi legato all’handicap, ma era una differenza di natura più profonda dovuta alle esperienze fatte, alle famiglie che in apparenza erano tutte perfette e unite mentre io ero l’unica ad avere i genitori divorziati e a trascorrere i pomeriggi insieme a mia nonna al cinema e ai musei invece di andare in discoteca e in giro per i locali della città alle prese con i primi flirt.
Ritornando all’episodio della gita, alla fine sono riuscita a far valere il mio diritto: mi sono preoccupata di trovare all’interno del museo, in programma da visitare, un accompagnatore e per il resto ce l’ho fatta da sola. Durante tutta la giornata le mie compagne di classe hanno fatto finta che non ci fossi ed io ho fatto lo stesso con loro, ma ero comunque soddisfatta e serena nel socializzare con i ragazzi delle altre classi, invece, disponibili.
Tutto questo comunque ha avuto un risvolto negativo. Al rientro dalla gita, il rapporto con le mie compagne di classe era ormai sempre di più peggiorato ed anche quello con l’insegnante tutor. Inoltre, anche la preside del liceo non era molto presente; infatti alle mie quotidiane richieste di intervento e di aiuto per risolvere la spiacevole situazione che si era creata, non ha preso posizione. Man mano che il tempo passava si è stabilito il clima di apparente normalità che c’era prima.
Ho reso partecipe il Professore Lucisano di questa mia esperienza e lui mi ha sostenuta e incoraggiata a iscrivermi al corso di Laurea dicendomi che nel caso in cui non mi fossi trovata bene potevo comunque abbandonare e dedicarmi alla ricerca di un lavoro.
Con queste parole il Professore mi ha convinto ad iscrivermi e lo ringrazio perché, dopo i primi esami andati tutti inaspettatamente molto bene, mi sono convinta che la fase negativa, scolastica, di immaturità della mia vita era terminata e cominciava una fase in cui ero più consapevole e pronta a studiare e a relazionarmi in un ambiente che per fortuna non  sentivo ostile e di costrizione come la scuola.

Introduzione
Ho voluto fare un elaborato di laurea perché per molti anni ho avuto la possibilità di partecipare ad un laboratorio teatrale. Da questa importante esperienza di crescita personale posso affermare che il teatro ha un grande valore pedagogico (questo si impara anche dall’importanza che Makarenko dà al teatro all’interno del suo collettivo) ed ha anche una funzione psicologica che ho voluto provare leggendo il testo di  Lev  Semenovic Vygotskij, Fondamenti di difettologia.
Ho ritenuto opportuno dividere il presente lavoro in due parti. Nella prima ho voluto esplicitare il legame che c’è sempre stato tra il teatro e la pedagogia analizzando anche dei testi di Alessandro Pontremoli: il Pontremoli spiega che anche nella Grecia antica il teatro veniva associato a riti legati a mitologia e espressioni popolari e, quindi, anche in tempi antichi il teatro non si limitava ad una semplice rappresentazione ma era un forte manifestazione, che coinvolgeva sia gli attori quanto il pubblico che si recava in quel luogo anche per lo svolgimento di un rito oltre che un semplice spettacolo. Sempre nella prima Parte spiego come, andando avanti nella storia, il teatro viene impiegato come forma di terapia o, anche, supporto ad altre terapie convenzionali. Prima di ciò, però, ho ritenuto opportuno spiegare il concetto di disabilità e la differenza tra menomazione, disabilità e malattia e, inoltre, ho ritenuto opportuno, aiutandomi con il testo di Vygotskij, spiegare le differenze tra un tipo di disabilità a l’altra.
La Parte seconda è quella relativa alla mia esperienza come attrice e spettatrice dei registi Alessandra Panelli e Stefano Viali. La mia amicizia con Alessandra mi ha dato tanto materiale, riflessioni, scambio di idee attraverso e-mail, telefonate e discussioni. Ho dedicato i primi capitoli della Parte seconda dell’elaborato al racconto dell’incredibile esperienza che “fare teatro“ mi ha dato. Spero di aver reso l’idea di quanto mi ha giovato sia per l’integrazione con altri ragazzi della mia età non disabili, sia per il grandissimo lavoro che posso equiparare alla fisioterapia e alla logopedia. Mi è sembrato giusto parlare delle persone che ho conosciuto al laboratorio teatrale, delle prove, degli spettacoli e della compagnia che dal secondo anno di liceo al secondo di università mi hanno accompagnata, facendomi crescere ed emozionare. Ho diviso questa seconda parte in due capitoli “riflessioni di un’attrice“ dove parlo del laboratorio teatrale e “riflessione di una spettatrice“ dove racconto gli spettacoli che ho visto e descrivo (quando la regia era di Stefano o di Alessandra) la grossa mole di lavoro, impegno, fatica e i problemi economici, che ci sono stati dietro ad ogni singolo spettacolo.
Nel terzo capitolo della seconda Parte, racconto di quando sono andata con mia nonna a Torino per vedere uno spettacolo di danza con ballerini disabili e non; la compagnia CANdoCO è nata in Inghilterra ed è diventata famosa soprattutto nei paesi anglosassoni.
In questo capitolo racconto anche di quando ero bambina e del mio sogno di diventare una ballerina di danza classica, purtroppo, però, ci furono molti impedimenti, in parte provocati dai fisioterapisti e in parte dovuti all’assenza di corsi di danza per persone disabili. In questo capitolo parlo anche della mia devozione e dei tanti impedimenti che non mi hanno permesso di raggiungere il mio sogno. Concludo il capitolo con la speranza che dopo molti anni nel nostro Paese si siano diffuse forme di arte intesa anche come terapia e quindi accessibile a tutti.
Nel quarto capitolo parlo di quella che è la manifestazione italiana più importante per quanto riguarda l’arte e la disabilità: sto parlando del Festival di Carpi, che si tiene in primavera ormai da una decina di anni; io personalmente non ci sono mai andata, però mi piacerebbe molto. Per la stesura di questo capitolo mi sono documentata su internet, riportando il programma di quest’ anno, vari articoli e in particolare mi ha colpito un aneddoto: un bambino assistendo ad uno spettacolo teatrale chiede alla mamma: «Mamma quando salgono i ragazzi disabili sul palcoscenico?» e la mamma stupita risponde «Ci sono già!», questo è un esempio di come i bambini non vedono le differenze tra una persona disabile e una persona normodotata, sono solo gli adulti che creano a se stessi e tante volte anche agli altri e soprattutto ai bambini problemi, paure e diversità.
A seguire ho inserito il capitolo che riguarda il Poema pedagogico di Anton Semënovi? Makarenko, ho ripreso il libro, la tesina che avevo fatto per l’esame di Pedagogia generale e ho preso l’elaborato di laurea della mia amica Sara Collepiccolo perché lei ha svolto un lavoro sul concetto di handicap che emerge nel Poema pedagogico e a me sembrava coerente con i temi centrali da me affrontati nel corso dell’elaborato.

Riflessioni di un’attrice
   In questo capitolo racconto la mia esperienza nel laboratorio teatrale che ho frequentato per sette anni al Liceo “Giulio Cesare“ di Roma.
Ma diventerò un’attrice?
Era l’inverno del 1998, le mie giornate trascorrevano l’una identica a l’altra: la mattina a scuola, il pomeriggio a casa alle prese con pagine e pagine di compiti e poche ore di fisioterapia. Il fine settimana andavo al cinema con nonna. Non ero né felice né appagata di questa routine.
Un giorno al cinema incontrai un attore di televisione, feci una grande corsa per salutarlo e per scambiarci quattro chiacchiere. Fu proprio da quell’incontro che venni a conoscenza del laboratorio teatrale del regista Stefano Viali che si teneva il lunedì e il venerdì pomeriggio nel liceo Giulio Cesare.
La sera precedente alla mia prima lezione, nel mio letto pensavo: «domani mi troverò davanti ad un palcoscenico con i ragazzi col copione in mano e il regista seduto, impegnato a dare consigli ad ognuno, proprio come si vede nei film».
Ricordo ancora la prima lezione: arrivata al Giulio Cesare trovai una ventina di ragazzi, in un’aula, tutti in cerchio in piedi e senza scarpe.
Conobbi Stefano: «Buongiorno Stefano sono Marzia». «Ciao Marzia, dammi del tu senza problemi, dai vieni in cerchio vicino a me».
Quel giorno feci la mia prima improvvisazione teatrale e nonna è rimasta lì a guardarmi per tutta la lezione strabiliata per come facevo nuovi esercizi  e movimenti e anche per la mia naturalezza nel chiedere «mi aiuti in questo» oppure «no grazie questo riesco a farlo da sola».
Dopo quel pomeriggio tornai là ogni lunedì e venerdì; mi piaceva troppo esprimermi con improvvisazioni ed esercizi fatti da sola o insieme agli altri ragazzi che ben presto diventarono “i miei amici“.
Man mano andavo sempre più volentieri perché ad ogni lezione scoprivo che ero in grado di fare movimenti, esercizi, corsette e usare molto meglio la voce più di quanto immaginassi.
I mesi passarono. Con la fine della scuola si concluse anche una parte del laboratorio teatrale e  ne cominciò una nuova: la preparazione dello spettacolo.
1.2. Vado in scena…
A giugno cominciammo a fare le prove per quello che sarebbe stato il mio primo spettacolo di fine anno. Lavoravamo tutti i giorni per  otto ore al giorno e dal nulla, in soli dieci giorni, creammo il nostro spettacolo intitolato Percorsi Teatrali.
Lo spettacolo era diviso in due parti. Nella prima parte mettemmo in scena una nostra lezione tipo della durata di circa un quarto d’ora. Nella seconda parte, invece, di durata maggiore ripercorremmo con delle brevi scene l’evoluzione storica del teatro.
Che paura la mia prima volta in scena davanti al pubblico! Ma ce l’ho fatta!
Siamo andati in scena la sera nella chiesa Valdese di Piazza Cavour; tutti i ragazzi si ricordano ancora la mia faccia terrorizzata mentre stavo nel camerino aspettando di andare in scena. Stefano era stato cortese quella volta, mi aveva dato molto tempo per cambiarmi il costume di scena per questo ho passato molti minuti seduta in preda al panico, assente e ignoravo tutti gli altri ragazzi che mi dicevano: «dai rilassati, respira! La parte l’hai sempre detta bene,vedrai che non ci saranno intoppi».
E così fu! Il mio primo monologo andò bene. Io interpretavo la parte di un mendicante.
A giugno già mi sentivo diversa rispetto all’inverno: ero un po’ meno insicura, avevo imparato a impostare la voce usando la respirazione diaframmatica, quindi parlavo  meglio, scandendo le parole, ma soprattutto da quell’anno mi rapportai e mi confrontai con ragazzi della mia età.
Gli anni successivi Stefano mi trattò diversamente, ormai avevo fiducia nelle mie capacità per questo mi chiedeva sempre cose nuove e più impegnative. Era consapevole, più di quanto lo fossi io, delle prove che ero in grado di superare.
A ottobre ricominciò il laboratorio ed io ero sempre lì. C’erano dei ragazzi nuovi, erano più timidi e inesperti dei ragazzi del primo anno ed anche di me!  Per due tre mesi ripetevamo sempre i nostri nomi e facevamo esercizi in coppia o in gruppo: «la cosa più importante per una compagna teatrale è conoscersi, e ricordatevi che se il gruppo non è unito, se gli attori non si conoscono e non si fidano uno dell’atro, il pubblico lo noterà e rimarrà deluso», ci ripeteva continuamente Viali e col tempo mi resi conto che aveva ragione.
Non so raccontare e spiegare tutti gli esercizi che facevamo, erano tanti e difficili. Alcuni servivano a “risvegliare“ tutti quei muscoli che normalmente si usano poco. Tante tantissime volte mi tremavano le gambe ed avevo il fiatone dopo solo dieci minuti di questi esercizi. Altri ancora erano di respirazioni o di rilassamento, ma le cose più belle e faticose erano le improvvisazioni. Ricordo che ne facevamo tante sui sentimenti, sulla guerra, sulla nascita di noi stessi, sul tango, su un abbraccio, sulle prostitute… Sì, erano belle le improvvisazioni perché per farle bisognava mettere in gioco le emozioni, l’istinto, il coraggio, bisognava usare il cuore e lo stomaco, non la testa; era come fare un grande tuffo in un mare che si conosce appena.
Quell’anno Stefano ci ripeteva che noi ragazzi del secondo anno dovevamo spronare ed incoraggiare i ragazzi del primo ed anche se tutti eravamo consci della correttezza delle sue parole, ci riusciva difficile trasformarle in pratica. Nonostante le buone intenzioni restavano sempre delle divisioni interne che non permettevano la completa integrazione tra noi ed i nuovi ragazzi.
Poi a primavera successe qualcosa di magico: non so, forse l’avvicinarsi della fine dell’anno, forse l’aspettativa del nostro spettacolo, forse qualcos’altro ancora, fatto sta che il gruppo rispondeva alle attese del regista e non c’erano più lacune interne tra noi ragazzi. È questa la bellezza e la magia del laboratorio teatrale!
A giugno siamo andati in scena con lo spettacolo Il congresso degli Uccelli che è per me lo spettacolo più bello ed entusiasmante.
Raccontava la storia di un gruppo di uccelli che durante una riunione si scoprono diversi l’uno dall’altro, insoddisfatti e incompleti nella loro individualità. Decidono di partire per un lungo viaggio pieno di ostacoli e pericoli, per raggiungere il monte Simorg e poter parlare ed avere dei consigli dal saggio che vi risiedeva. Lungo il viaggio il gruppo di uccelli dovette attraversare deserti e vallate incontrando strani personaggi; ed è proprio in una vallata che loro incontrano il mio personaggio: l’uccello Marciatore.
Ancora oggi, ripensando al mio personaggio mi vengono i brividi perché l’uccello marciatore disse a tutti gli altri uccelli che nella sua vita aveva rinunciato a raggiungere il monte perché aveva capito che ormai il suo obiettivo era già raggiunto: camminare nonostante la fatica e le difficoltà era il suo punto d’arrivo, perciò decise di rimanere per sempre nel deserto.
Questa parte mi ha emozionata perché  lo scritto da cui è stato tratto lo spettacolo, senza che venisse apportata nessuna modifica, era un antico racconto africano. Mi ricordo l’energia fortissima di quell’andata in scena: lo spettacolo era accompagnato da due ragazzi senegalesi che suonavano i tamburi e ci aiutavano ad alzare l’energia delle scene. A fine spettacolo eravamo così felici e pieni di energia che i musicisti iniziarono una vorticosa escalation musicale, mentre noi attori davano inizio ad una scatenata danza circolare con al centro del cerchio, a catalizzare tutto il nostro entusiasmo il nostro regista Stefano Viali che, contagiato dalla nostra allegria, girava anche lui come una trottola più veloce di tutti noi. Anche il pubblico fu contagiato dal nostro entusiasmo e tutti, dalla prima all’ultima fila, battevano le mani ed i piedi a ritmo.
Lo spettacolo finì ma l’entusiasmo continuò lungo i corridoi e nelle aule adibite a camerini.
Le sere successive uscivamo sempre in gruppo. In quel periodo mi sono divertita tantissimo ed il Congresso degli Uccelli è stato senza dubbio lo spettacolo che ho amato di più.
L’anno successivo fu una catastrofe perché i nuovi ragazzi, pur essendo presenti a tutte le lezioni, erano totalmente passivi, indifferenti ad ogni stimolo, esercizio o improvvisazione proposti da Stefano. Stefano si metteva le mani nei capelli e cercava di convincere noi ragazzi più esperti ad aiutare i nuovi arrivatiti; un giorno si rivolse proprio a me: «dai Marzia lo so che tu sei arrivata dopo Margi, Vittoria, Roberta, Giacomo, però oramai in po’ di esperienza ce l’hai quindi cerca di stimolare quelli nuovi». Dare una mano ai nuovi arrivati sarebbe stato compito nostro, abbiamo fatto qualche tentativo ma non era facile mettere in pratica i suggerimenti del regista, seppure giusti.
Quell’anno Stefano perse molto del suo entusiasmo, nel giro di pochi mesi si demotivò molto, non richiedeva più improvvisazioni ma si limitava a esercizi banali e noiosi. Il suo stato d’animo si rifletté ben presto anche su di noi; settimana dopo settimana eravamo anche noi annoiati e stufi, ricordo che quando uscivo da quelle lezioni non provavo più quelle belle sensazioni dell’anno precedente, anzi ero annoiata e  scocciata per quelle lezioni prive di interesse. Mi viene in mente un esercizio che si chiamava esercizio dello specchio: i ragazzi si mettevano in ordine sparso nella stanza, tutti con il viso rivolto verso un loro compagno detto lo specchio e dovevano imitarne tutti i movimenti. La situazione che si era creata a teatro era la stessa: tra noi e Stefano c’era uno specchio invisibile che ci rifletteva l’un l’altro noia e demotivazione.
Durante l’inverno ci fu una novità, Stefano per cercare di risollevare la situazione chiamò Igor a fare da aiuto regista.
Igor era un ex alunno del Giulio Cesare che per anni fece il corso di Stefano. Dopo la maturità si iscrisse al Dams, a lui interessava specializzarsi in regia per questo fu molto contento dell’incarico propostogli da Viali. La sua presenza diede una spinta al gruppo: Stefano si sentiva supportato nel suo ruolo e noi ragazzi ci sentivamo a nostro agio in quanto lui era un ragazzo poco più maturo di noi perché aveva fatto tanti anni di laboratorio con Stefano e perché era avanti rispetto a noi negli studi, ma allo stesso tempo  lo sentivamo più come un compagno che come un regista.
Ho dei bei ricordi legati alla figura di Igor, tra me e lui non c’era un’amicizia particolare però mi invitò un paio di volte alle feste che organizzava, mi divertivo molto.
Ricordo ancora un pomeriggio, dopo teatro siamo stati io, lui ed un’altra ragazza a chiacchierare sull’ esito positivo del mio esame per la patente, ad un certo punto gli ho chiesto:
«Igor l’hai mai guidata una macchina con il cambio automatico?»
«Si Marzia perché?»
«Ok, allora siediti al posto di guida e facci fare un giro»
Abbiamo fatto il giro del palazzo e durante tutto il tragitto non abbiamo mai smesso di ridere.
Durante il teatro è capitato diverse volte che lui mi aiutasse a fare degli esercizi e che addirittura recitasse in coppia con me.
Dal momento che non era stato un anno molto proficuo, a causa della svogliatezza dell’intero gruppo quell’anno non si concluse con il tradizionale spettacolo, bensì con una lezione aperta ai genitori ed ai professori fatta in aula magna.
Del terzo anno teatrale non ricordo particolari avvenimenti, la situazione era migliorata, il gruppo era più unito ed anche l’atmosfera che si respirava era più vivace. Venne di nuovo fatto lo spettacolo di fine anno e questo fu importante perché ebbe degli sviluppi inaspettati.
Lo spettacolo si ispirava alla storia della Romania a partire dal periodo di dittatura di Cheauchescu fino alla sua deposizione in seguito alla rivoluzione popolare. La foresta pazza, questo era il titolo dello spettacolo, narrava la storia di alcune famiglie, degli stenti patiti sotto la dittatura e della sollevazione contro un dittatore che li obbligava alla fame e alla paura di manifestare liberamente le loro idee. Parte centrale dello spettacolo era la rappresentazione della rivoluzione, gli attori erano sparsi nello spazio scenico ed in mezzo al pubblico, ed ognuno di loro recitava un monologo riguardante il loro modo di vivere la rivoluzione.
Il secondo tempo dello spettacolo era incentrato sul post rivoluzione, rappresentava il processo e la successiva condanna a morte del dittatore e di sua moglie. Lo spettacolo terminava con la scena di una grande festa, tutti quelli che avevano partecipato alla rivoluzione si salutavano, si abbracciavano e gioivano per la libertà conquistata. Il mio personaggio, una anziana fattucchiera, entra in scena nel mezzo della festa. Al suo ingresso la musica cessa improvvisamente e tutti rimangono immobili guardandola. Si avvicina ad una coppia di futuri giovani sposi e rivela loro una profezia:

    Piccola sposa, piccola sposa
Tu stai ridendo, noi abbiamo pianto.
Ti rende fiera essere una moglie
Ma non è una vita senza doglie.
Tuo marito non è tuo fratello,
tua suocera non è tua madre.
È più divertente correre libera e selvaggia,
invece di rimanere a casa a occuparsi di un bambino.
Piccola sposa, non essere triste,
non sposarsi sarebbe folle.
Le ragazze sole sono in lacrime,
saranno sole per, molti anni.
Bella ragazza, sei come un fiore,
bella solo per alcune ore.

   Questa filastrocca prendeva spunto dalla unione dei due ragazzi per rappresentare metaforicamente ciò a cui sarebbe andato incontro il popolo rumeno. Stava festeggiando la liberazione dal dittatore, ma ben presto, come la giovane sposa avrebbe dovuto soffrire i dolori del parto, cosi il popolo avrebbe dovuto affrontare i sacrifici della ricostruzione.
Voleva anche far capire che  è meglio affrontare le difficoltà per costruirsi una vita libera che vivere  senza poter esprimere le proprie idee.
Dopo la profezia la fattucchiera esce di scena, mentre la festa continua in un crescendo di euforia,priva però della musica, perché ormai la scena è ormai affidata all’energia dei soli attori. Lo spettacolo termina con il popolo, ormai completamente ubriaco, che perde il controllo fino ad arrivare alla violenza.
Questo spettacolo ha avuto ulteriori rappresentazioni, anche al di fuori della scuola. Abbiamo formato una compagnia teatrale fatta da ragazzi del Giulio Cesare, ragazzi disabili che facevano teatro con Alessandra Panelli, la stessa Alessandra e attori adulti non professionisti amici di Stefano. Noi ragazzi del Giulio Cesare eravamo veramente elettrizzati dal fatto che Stefano ci avesse scelto. Ciò che mi rendeva particolarmente felice e che, nonostante quell’anno il corso di teatro fosse stato sospeso per alcuni mesi nel bel mezzo dell’anno, a causa dei malcontenti dei professori che cominciavano a capire che il teatro era ormai privo di partecipazione, Stefano ha voluto darci l’opportunità di vivere il teatro in un contesto professionale.
Il comune di Roma ha sponsorizzato lo spettacolo La foresta pazza che è andato in scena all’ex mattatoio nel periodo di Natale. Grazie ai locali messi a disposizione del comune, siamo riusciti a fare le prove per dieci giorni prima di Natale, nonostante la fatica, il sonno e il freddo abbiamo lavorato fino all’abbrutimento, cosa che ci ha fatto molto divertire. Dovendoci confrontare con un pubblico più eterogeneo e soprattutto non conosciuto, Stefano decise di dare una nuova interpretazione dello spettacolo. Le scene ed i personaggi rimasero gli stessi ma cambiò l’ interpretazione. Il mio personaggio ad esempio, mutò radicalmente. Nel saggio scolastico aveva una vena ironica, sulla scena dovevo ridere, scherzare e dare pacche sulle spalle della sposa, nella rappresentazione del mattatoio invece era lugubre e drammatico.
Fu l’unico spettacolo per il quale ricevemmo una modesta somma di denaro che in minima parte ci ripagava per il lavoro svolto.
Altra andata in scena è stata a Fiesole, preannunciata molti mesi in anticipo. Ci avevano invitato a riproporre lo spettacolo all’interno di una manifestazione locale, ed anche in questo caso abbiamo ripresentato La foresta pazza con lo stesso allestimento del mattatoio. È stata la prima volta che partivo “sola“ senza una persona di sostegno apposta per me.
Siamo partiti alle sei di mattina da Roma con un pullman privato,  e ricordo che durante il viaggio c’era un mio amico che faceva le imitazioni di Stefano, Igor ed Alessandra e la cosa mi divertiva molto. Stefano aveva organizzato tutto nei minimi dettagli e con orari ben precisi. Arrivati a Fiesole siamo subiti andati  a portare le nostre cose nella chiesa sconsacrata che per quella sera sarebbe diventata il nostro palcoscenico.
Abbiamo fatto qualche prova, e subito siamo stati presi dallo smarrimento perché non sapevamo come muoverci all’interno dello spazio scenico. Nonostante tutto, lo spettacolo si è concluso con successo.
Riflettendo sulla mia esperienza posso dire che tra i saggi di fine anno e lo spettacolo al mattatoio non c’è stata molta differenza perché mi sono data da fare con lo stesso impegno. La mia preoccupazione principale, oltre a recitare bene, era quella di invitare i miei amici; li avvertivo sempre per tempo così da dar loro modo di organizzarsi, ma alla fine solo in pochi riuscivano a venire. Mi è sempre dispiaciuto non aver potuto condividere, che con poche persone, un’esperienza per me così importante.
Mamma e nonna ad esempio, sono venute a tutti i miei spettacoli ma, vuoi per le condizioni estreme in cui si svolgevano le rappresentazioni, a volte un freddo polare a volte un caldo tropicale, vuoi per l’eccessiva lunghezza delle stesse, fatto sta che non hanno mai espresso un giudizio positivo sulla mia performance, anzi capitava che  mi demoralizzassero, facendo commenti esclusivamente del posto in cui si svolgeva lo spettacolo.
Nei due anni successivi non abbiamo più fatto né saggi né spettacoli, il corso andava male e molti professori pressavano il preside affinché destinasse i fondi per il teatro ad altre attività. In poco tempo Stefano fu licenziato ed il laboratorio teatrale del Giulio Cesare dopo tanti anni di attività, dopo che tanti ragazzi vi avevano partecipato per breve o per lungo tempo, chiuse i battenti. Così anche un capitolo importante della mia vita si chiuse definitivamente. Per mancanza di tempo e per impegni di studio non mi sono più inserita in altri laboratori, anche se gli anni passati al laboratorio teatrale mi hanno dato molto sia sentimentalmente sia come insegnamenti di vita.
Dopo un paio di anni, la mia vita aveva subito molti cambiamenti, innanzi tutto ero andata a vivere per conto mio, poi mi ero iscritta all’università alla facoltà di Scienze dell’Educazione e della Formazione de «La Sapienza» di Roma. Non pensavo ormai più al laboratorio, quando un giorno ricevetti una telefonata. Era Angiola, una mia amica conosciuta al laboratorio, con la quale avevo condiviso una bella amicizia che mi disse:
«Ciao Marzia come stai? Ti chiamo per darti una triste notizia, questa notte Igor ha avuto un incidente con la moto ed è morto».
Al funerale erano presenti molti ragazzi che avevano conosciuto come me Igor al laboratorio teatrale, era presente anche Alessandra Panelli con i ragazzi disabili del suo corso. È stato triste rincontrarsi in una simile circostanza.

CANdoCO
3.1.   La prima compagnia di danza contemporanea con diversamente abili e normodotati
Il 24 febbraio 1999 sono andata con mia nonna al Teatro Nuovo di Torino per assistere allo spettacolo della CANdoCO Dance Company cioè “si può fare“.
La Compagnia era formata da due ballerini in sedia a rotelle, un altro senza gambe e tre ballerini normodotati. Uno spettacolo duro, non convenzionale, sicuramente diverso dagli spettacoli che il teatro “normale“ ci propone. I sette ragazzi della CANdoCO, a modo loro, sono atleti eccezionali; infatti, in otto anni, la loro Compagnia (nata nel 1991)è diventata un piccolo fenomeno di culto sulla scena europea.
La storia della CANdoCO nasce in Inghilterra nel 1991 durante uno stage di danza con un gruppo di studenti abili e disabili. Un lavoro che in poche settimane portò a risultati concreti e all’idea di creare una vera e propria compagnia che integrasse danzatori professionisti e disabili. Inizialmente creò scalpore ma con il tempo si rivelò una scommessa vincente ricompensata poi con numerose tournée.
Vedendo lo spettacolo, mi colpì in particolare la scena dove il ballerino senza gambe, ridotto a poco più di un busto, riusciva ad ondeggiare nell’aria sorretto da braccia ampie come ali. Questa scena mi fece venire in mente un albatros… goffo e barcollante sulla terra ma agile ed elegante in cielo.
Quella sera ho provato una forte eccitazione, mi sono ricordata del mio grande sogno di quando ero bambina: sostituire la noiosa e monotona fisioterapia con la danza. A dir la verità, durante lo spettacolo ho provato anche molta rabbia verso la mia fisioterapista e verso quei tanti medici a cui mamma e nonna avevano espresso il mio desiderio di ballare. Questi  hanno sabotato il mio desiderio dicendo a mamma e a nonna: “non vedete come Marzia mette i piedi storti e quanto è precario il suo equilibrio? È semplicemente una sciocchezza da bambini pensare che Marzia possa avvicinarsi alla danza e noi adulti saremmo folli e utopisti ad assecondarla…“. Eppure quei ragazzi danzavano ed anche bene!
Tornata nella mia città ho contattato la compagnia CanDoCo ed essa mi ha dato numerosi indirizzi di danzaterapia in Italia. Così dopo poco tempo ho partecipato ad un Workshop della durata di tre giorni, tenuto a Roma da una fisioterapista toscana.
Purtroppo si è trattata di un’esperienza isolata in quanto la  CanDoCo (e nessun altra Compagnia) in quegli anni non organizzava corsi e laboratori a Roma.
Ho potuto così constatare a distanza di anni che la danzaterapia esiste e viene praticata con ottimi risultati anche se io non l’ho potuta praticare.
Con il passare degli anni sicuramente in Italia e a Roma la danzaterapia si è andata diffondendo. Spero che oggi, a distanza di quindici anni dalla mia infanzia, molte bambine disabili o con varie patologie possano trovare il modo di esprimersi e di migliorare la loro condizione di vita attraverso il ballo.

Conclusioni
In questo mio elaborato di laurea, ad eccezione della prima parte, è forte il connotato autobiografico e della mia esperienza diretta di vita. Sono orgogliosa di aver potuto dare questa connotazione al mio lavoro. Le mie esperienze, positive e non, mi hanno infatti permesso di comprendere in modo più ampio gli argomenti trattati nei testi universitari e in quelli che ho in parte consultato e che ho riportato nella bibliografia.
La parte dell’elaborato che mi ha appassionata di più è stata quella relativa alla trattazione autobiografica in quanto, come ben sanno molti dei miei professori, scrivere di me stessa è sempre stata la mia passione. Pertanto è stata un’occasione ed anche una sorpresa inaspettata poter scrivere parte del mio elaborato sottoforma di scritti personali e autobiografici. Ho potuto, infatti, conciliare questa mia passione con l’impegno che l’elaborato ha richiesto.
Oltre al primo e terzo capitolo della seconda parte, anche nella premessa, dopo aver parlato del teatro e della mia esperienza di questi tre anni alla Sapienza, ho anche raccontato un fatto che mi è capitato in quinto liceo che è stato per me doloroso e traumatizzante; l’ho raccontato perché è fortemente legato ai contatti che ho preso con il professor Lucisano dall’anno precedente alla mia immatricolazione in poi.
In particolare, ho focalizzato la mia attenzione sui laboratori teatrali tenuti da Stefano Viali e Alessandra Panelli, ai quali ho avuto la fortuna di partecipare. Sono convinta che in Italia esistono innumerevoli gruppi che si occupano di teatro sperimentale sia per handicappati, sia per persone normodotate, sia gruppi integrati.
Alla fine del percorso seguito restano comunque dei punti aperti che mi sarebbe piaciuto approfondire in prima persona. Tra questi mi riferisco al Festival di Carpi di cui ho trattato nel capitolo quinto, per la stesura del quale mi sono basata esclusivamente sul materiale reperito in internet. Mi dispiace di non avervi mai partecipato e quindi non posso dare un resoconto esperienziale di questa interessante manifestazione a carattere nazionale, conosciuta anche all’estero.
Nonostante l’incompletezza dei temi trattati, ritengo comunque che l’elaborato possa rappresentare un punto di partenza per tutti quegli studenti che, curiosi e appassionati, vorranno approfondire l’argomento sul teatro e la disabilità.