Bullismo ed atteggiamenti negativi da parte degli insegnanti

scritto dalla redattrice
Parolacce, offese e “prese in giro”, ma anche minacce, botte e danni alle proprie cose. Sono queste gli atti di bullismo che i ragazzi hanno denunciato più frequentemente.
Durante la ricreazione, un alunno si avvicina ad un compagno e mentre con una mano gli torce il braccio dietro la schiena, con l’altra gli punta un coltellino sotto la gola costringendolo a ripetere davanti a un gruppo di compagni: “Sono il tuo schiavo e tu sei il mio padrone“.  Purtroppo non è una scena di un film girato nel Bronx , ma è la realtà di una scuola media del Veneto.
Negli ultimi anni si diffuso sempre più il bullismo nelle scuole dell’obbligo. Un preoccupante fenomeno che include anche abusi sessuali tra coetanei delle medie, o ancora minacce e percosse a compagni diversamente abili.
Ultimamente i telegiornali e Striscia la Notizia gli hanno dedicato numerosi servizi, a volte gonfiando le vicende altre volte, purtroppo, si attenevano alla realtà.
Ora diamo uno sguardo hai dati oggettivi sul fenomeno del bullismo in Italia:
Nel III Rapporto realizzato nel 2002, su un campione rappresentativo di 3800 adolescenti di età compresa fra i 12 ed i 18 anni, quasi un terzo degli intervistati (33,5%) ha dichiarato che nella propria scuola si verificavano continui atti di prepotenza da parte dei compagni, mentre circa la metà del campione ha riferito di aver minacciato o picchiato qualcuno. Del 53,4% che ha detto di non aver mai minacciato nessuno, le femmine rappresentano il doppio dei maschi. Tali dati sono rimasti sostanzialmente stabili nell’ultima ricerca (2004) condotta e pubblicata nel V Rapporto Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza la quale, tra l’altro, mostra come, al contrario di quanto comunemente si pensa, il bullismo sia un fenomeno che riguarda tanto i maschi che le femmine, seppure espresso con modalità differenti. I maschi mettono in atto prevalentemente prepotenze di tipo diretto, con aggressioni per lo più fisiche ma anche verbali, nei confronti sia dei maschi che delle femmine. Questa ultime, invece, utilizzano in genere modalità indirette di prevaricazione e le dirigono prevalentemente verso altre femmine. Poiché le forme di bullismo indiretto sono più sottili e più difficili da riconoscere, il bullismo “al femminile” è stato individuato più tardi rispetto a quello maschile ed è più difficile da rilevare anche per gli insegnanti.
Secondo me fenomeni di bullismo sono sempre esistiti ma in una forma meno eclatante: spesso la classe si coalizzava contro il compagno più timido, meno alla moda o disabile offendendolo verbalmente, isolandolo dalle amicizie e i giochi della classe. Facendolo sentire solo, diverso, e nei casi più gravi lo possono convincere di essere inadeguato alla loro amicizia perché inferiore.
La colpa è anche, a volte, di quelle insegnanti che percepiscono il problema ma non essendo in grado di prendere dei provvedimenti fanno finta di niente. Altre volte, l’insegnante si trova di fronte ad un adolescente che non ha mai ricevuto dei valori ed un’educazione ne dalla famiglia ne dell’asilo e tanto meno dalle elementari, che ha frequentato e quindi è facili e a volte è impossibile impartire dei valori “giusti“ quando il ragazzo ha già 13-14 anni .
Un altro fenomeno negativo e più latente del bullismo, ma non per questo da sottovalutare, è quando gli insegnanti trattano male o prendono di mira gli alunni, approfittandosene della loro autorità.
Mi sento in dovere di fare una differenza: un conto è incitare un ragazzo a fare del suo meglio anche con sgridatate, richiami, note disciplinari; un altro conto è prendere di mira un alunno, rimproverarlo più del necessario, farlo sentire un “somaro incapace“, farlo vergognare davanti alla classe, vi assicuro che molti docente usano questi atteggiamenti sicuri di “avere il coltello dalla parte del manico“, forti del fatto che sentono e fanno sentire un gigantesco distacco tra l’essere alunno e l’essere professore.
Il consiglio che mi sento di dare a tutti gli alunni dalla prima media al quinto superiore è questo: se stai facendo del tuo meglio e nonostante tutto un insegnante o qualcun altro della scuola continua a prendersela con te, hai il diritto di fare in modo che smetta. Dillo a qualche altro insegnante, a qualcuno della scuola, ai tuoi genitori. Non dovresti essere da solo a dover gestire questa situazione!
Tieni un diario e scrivi la data e quello che è successo mettendo più dettagli che puoi, scrivi anche chi c’era e ha visto tutto. Racconta come ti sei sentito e i pensieri che hai fatto. Parla con i tuoi genitori e chiedi loro di andare a discuterne con il direttore della scuola, oppure se sei più grande e vuoi parlare tu stesso con l’insegnante o il preside è giusto che tu lo faccia, ma solo dopo aver raccontato a casa quello che ti è successo e dopo aver ascoltato il consiglio di chi ha qualche anno più di te e ti conosce bene.
 

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CONFIDENZE DI UN’ALLIEVA SCRITTRICE

Cara Maria,

ho letto il suo memorandum (nota autobiografica e appunto di lavoro), e l’ho trovato molto interessante e ricco di spunti di riflessione. Pagine davvero molto istruttive anche per me, come radiografia dell’«individuale» ed ecografia del «familiare» e del «sociale», scuola compresa. Anche se è la famiglia il primo motivo poetico, meglio poematico, della sua narrazione. Makarenko docet. Infatti, mi sono venuti subito in mente i suoi ottimi rapporti col Poema pedagogico. Come se lei con il romanzo, in un modo o nell’altro, fosse in debito per qualcosa di più che per due esami universitari di Pedagogia generale. Quanto al risultato letterario, non avrei dubbi. Apprezzabile così com’è: un po’ saggetto narrativo, un po’ esercizio morale. Un repertorio di fatti, sentimenti, idee, concernente insieme le dimensioni del «personale» e dell’«interpersonale», e dunque gli ambiti del formativo, dell’educativo. E questo, mediante l’effettiva capacità che lei ha di raccontare di sé, trasferendo l’esperienza soggettiva della differenza in un prontuario di elementare nuova umanità, che aiuta a crescere anche chi legge. Altro che Nulla di utile! Alquanto indispensabile, direi invece. Perché ci racconta della particolare diversità della singola persona, come ingresso ad una generalizzabile diversa uguaglianza di più alto profilo. Quasi a voler dire: a me una volta è successo questo e quest’altro di singolare; vediamo quindi, adesso, cosa fare di ulteriormente «altro». Cosa fare pertanto di differente, anche nel senso di opposto ad indifferente, a noncurante, negligente, disinteressato? Capace di coinvolgerci, al contrario, in un’azione davvero importante, significativa, eminente? Ecco perché mi è venuta voglia di scriverle. E non tanto per dirle semplicemente bene!, brava! – quanto per chiederle e adesso? e dopo? Come vincere, cioè, lo sgomento della sproporzione che persiste, tra una battaglia vinta e tutte le guerre che restano da combattere? Come fare di necessità virtù, per se stessi, per gli altri? Non è per l’appunto la differenza l’elemento discriminante dell’«umanamente nuovo»? Zadorov ritorna a sorridere degli schiaffi ricevuti… Come vede, la trattengo ancora nel clima «antipedagogico» dei due semestri di lavoro universitario comune su Makarenko e dintorni… Però se l’è voluta lei: per avermi indotto a leggerla, suggerendomi l’idea che tra la forma autobiografica del Poema pedagogico romanzo di formazione ed il «racconto d’infanzia» di Maria vi possa essere un qualche nesso. Una specie di «gioco» tra letteratura, pedagogia e vita. Una certa familiarità. Scherzi della prospettiva, probabilmente, di cui i makarenkologi sono ghiotti. Scherzi del collettivo e del senso di responsabilità e di corresponsabilità. Scherzi dei besprizorniki «moralmente deficienti» che, facendosi «uomini nuovi», sembrano quasi voler transitare dal Poema pedagogico nei nostri stessi progetti educativi ed autoeducativi. In altre parole, ciò che più mi piace del suo scritto è questa sorta di humour makarenkiano che – fatte salve le differenze – mi pare di ritrovare, da un lato, nella sua raggiunta capacità di esorcizzare il «negativo», e, da un altro lato, nell’attitudine ad attingere elementi formativi, che Makarenko potrebbe forse riconoscere come fattori di «stile». Parola magica, questa dello stile, che – come lei sa bene -, viene a riassumere le due facce in cui, tra scrittura ed educazione, l’opera di Makarenko (pisatel’ e pedagog) organicamente consiste. Ma dovremo riparlarne ancora tra di noi: e proprio a partire dagli esiti riconoscibili della lezione makarenkiana. Perché lei, in questo senso, è un’allieva che sarebbe certo piaciuta al vecchio Anton. Il quale, se avesse potuto apprezzarla per le sue qualità di scrittrice, le avrebbe subito affidato il comando di un bel reparto: magari di un «misto d’avanguardia», con il compito della realizzazione individuale-collettiva di una qualche «scrittura creativa» a fini ulteriormente pedagogici. E letterari. Che gliene pare? Le dico di più: che il circolo pedagogia-letteratura, in quanto tende a condensarsi in un esito stilisticamente significativo, non è solo l’effetto di un’azione formativa precedente, ma è anche l’avvio di ulteriori metamorfosi educative e addirittura la prova provata dell’educabilità umana. Con tutti i rischi che l’impresa comporta. In famiglia e fuori. E lei, Maria, nel continuare a raccontare le sue storie, potrà confermarlo.

Auguri affettuosi di buon lavoro, dal suo

Nicola Siciliani de Cumis
PS. Ho ricevuto il suo commento ai miei due scritti precedenti apparsi in questa rubrica, e la ringrazio dell’attenzione. Le sue osservazioni risultano appropriate. Tuttavia sarei del parere che, nella graduatoria dei valori «familiari» espressi nel testamento di Emilio Colosimo, quello relativo all’unità della proprietà e del maggiorascato occupi un posto privilegiato, forse il primo posto. Il che non toglie che, per lui, la famiglia «sia tutto»; ma lo è nel quadro della sua concezione del mondo di proprietario, e all’interno, per l’appunto, dei suoi valori economico-sociali. 

Sella Marina (Catanzaro), agosto 2003

NULLA DI UTILE

Quando ero piccola tutti mi dicevano che ero uguale agli altri bambini, poi crescendo mi è venuto qualche dubbio. Adesso mi domando quand’è che ho cominciato a capire che avevo qualcosa che mi «distingueva» dagli altri, qualcosa che non gli permetteva di accettarmi, li metteva a disagio. Non a tutti si intende, ma già dal modo in cui la gente si avvicinava a me riuscivo subito a distinguere se una persona era sensibile, senza pregiudizi e senza imbarazzi, oppure no. Forse percepivo questo fin dall’asilo, visto che i miei primi ricordi risalgono a quegli anni, forse da molto, molto tempo prima, quando osservavo gli altri bambini sgambettare dall’interno dell’incubatrice. O forse l’avevo già intuito quando mi trovavo nella pancia di mia madre e avevo tutta quella fretta di uscire e tutta quella paura, non potevo non aver paura, «qui sono al sicuro», devo aver pensato. Non volevo ritrovarmi in un mondo troppo grande per me, troppo rumoroso, pieno di doveri e regole da rispettare. Dove tutti corrono e poche persone hanno tempo e voglia di aiutare chi resta indietro. «La nascita è un cambiamento troppo grande per me», devo essermi detta, e io ho sempre temuto i cambiamenti. Non so dire quando ho intuito che avevo qualcosa di «diverso», ma so che la consapevolezza della mia diversità l’ho acquisita piano piano, crescendo, sentendo gli altri bambini che di nascosto ridevano e parlavano di me e dicevano «guarda i suoi scarabocchi». O quando rimanevo seduta ad osservare tutti gli altri muoversi, bambini che correvano, dispettosi e allegri, saltavano, salivano e scendevano dagli alberi, dalle altalene, dai muretti alti, ogni giorno sempre più alti. E poi c’erano i grandi che sempre dovevano andare da qualche parte, sempre avevano qualcuno da chiamare, da andare a cercare, qualcun altro con cui stare. Non capivo perché avessero bisogno di muoversi tanto. Forse sto meglio io, non mi stanco come loro, posso giocare qui per terra, potrei giocare qui in ginocchio per interi pomeriggi. Mi dicevo questo e non pensavo a quello che mi mancava. Quando avevo pochi mesi giocavo per terra con i miei coetanei: è normale, tutti i bambini giocano per terra, tutti i bambini iniziano giocando per terra. Poi, un giorno, gli altri hanno prima cominciato a gattonare e dopo, piano piano, ad alzarsi in piedi, come i grandi. Decisi di provare anch’io, sembrava facile, ginocchia sul pavimento, mani giù per terra, guardare avanti, facile come è facile per tutti, ma io non ci riuscivo. Mi chiedevo come mai, visto che mi sentivo uguale a loro. Forse non ero abbastanza grande, forse non ero abbastanza uguale? Venivo invitata alle feste. Mamma mi comprava dei vestiti «eleganti» che sceglieva lei, mi preparava e mi ci portava: i medici le avevano spiegato che mi faceva bene stare in mezzo alla gente perché avevo bisogno di «essere stimolata», dicevano. Io speravo solo di divertirmi, ma non sempre succedeva, non succedeva quasi mai in effetti. Anche dopo, da grande, andavo alle feste perché lo facevano tutti, ma non mi divertivo. L’euforia dell’attesa svaniva subito lasciandomi annoiata e delusa. Credevo che andare alle feste fosse un modo per essere uguale agli altri, sentirmi uguale a loro, o diventare come loro. In realtà, più mi sforzavo, più mi rendevo conto di essere diversa, e non era solo una diversità fisica, c’era dell’altro. Per anni ho cercato di capire cosa fosse, ero io che mi escludevo dagli altri o erano loro che mi escludevano? Ero io che non li capivo o erano loro che non capivano me? Più mi sforzavo di avvicinarmi e più mi sentivo lontana, più cercavo una risposta, più una risposta non c’era. La colpa, però, la colpa mi sembrava soltanto mia. Da piccola, dunque, giocavo per terra con tutti, poi però i giochi si sono fatti sempre più complessi, bisognava muoversi sempre meglio, correre, saltare, strisciare per terra. Facevano dei giochi di squadra, delle staffette, mentre io rimanevo seduta in braccio a mamma. So che per lei non è stato facile tutto questo, forse è stato più difficile per lei che per me. Non lo so, io non me lo ricordo, ma lei sì. È stata lei a dirmi che lo faceva per me, per aiutarmi, ma le pesava stare insieme alle altre mamme a guardare i loro bambini. Dagli anni dell’asilo in poi, ho soprattutto ricordi legati a medici e fisioterapisti, ma non ne parlo più e non intendo parlarne neanche ora: mi c’è voluto tanto tempo e tanta fatica per accantonarli e adesso che ci sono riuscita non voglio assolutamente tirarli fuori. A ricordarli oggi, gli anni dell’asilo sono stati quelli in cui ho semplicemente e disperatamente desiderato gattonare. Mamma, nonna, i medici che mi seguivano, non si accontentava nessuno: volevano tutti vedermi camminare. Io volevo solo spostarmi in qualche maniera, ma capivo che per loro non era sufficiente: dovevo camminare. Era un’ossessione, più mi impegnavo per riuscirci più diventava faticoso. «Non voglio camminare, voglio solo muovermi a carponi», mi dicevo. Più gli adulti insistevano per farmi camminare, più io desideravo gattonare e non capivo perché mi chiedevano di fare una fatica che mi sembrava enorme, al di sopra delle mie forze. In verità osservavo con invidia gli altri bambini che si rincorrevano nel cortile della scuola, mi sembrava assurdo ed ingiusto che io non potessi fare quei giochi. Mentre correvano sembravano così soddisfatti, era la cosa più naturale del mondo, correre. Adesso sono grande, ho studiato, ho letto dei libri. Ho studiato che il gioco è l’attività più importate che un bambino possa fare, è uno «strumento» che gli permette di sviluppare la propria curiosità, conoscere, interagire col mondo che lo circonda e con gli altri. I bambini per crescere ed arricchirsi devono giocare: questo mi hanno insegnato i libri. Nessuno ci insegna a giocare: è l’attività che tutti fanno spontaneamente, dicono i libri, in qualsiasi paese del mondo i bambini giocano, dicono i libri, in modi diversi secondo gli usi e costumi dei popoli, dicono i libri. Se il bambino vede un adulto che va a caccia o raccoglie dei frutti, lui gioca ad imitarlo, dicono i libri: così facendo imparerà delle attività che gli serviranno da grande. Tutto questo lo dicono i libri e «questo meccanismo non varia col passare dei secoli». Questo meccanismo è «uguale per tutti». Non posso dire di non aver giocato, ma è stato diverso, ho solo avuto meno tempo e meno possibilità. Pensare che quando si cresce si debbano studiare sui libri dei comportamenti spontanei mi fa uno strano effetto. Adesso studio il gioco in tutte le sue forme e funzioni, e da piccola non ho potuto giocare perché dovevo «crescere e migliorarmi». A proposito di miglioramenti, ricordo una suora che mi diceva sempre: «Volere è potere». Dentro di me pensavo «ti sbagli. Io vorrei tanto camminare bene, ma non ci riesco e non ne so il motivo». Non sopportavo la sua affermazione, era sbagliata. Ma non avevo il coraggio di dirglielo in faccia, così mi limitavo a pensarlo. La cosa peggiore era che non riuscivo a farmene una ragione: nessuno mi aveva spiegato il motivo dei miei problemi. Mamma e nonna parlavano tra loro per ore interminabili, usando termini a me sconosciuti. E poi si andava dal dottore, dallo «specialista», da chi avrebbe dovuto risolverli, quei problemi. Io, in genere, mi annoiavo e non capivo. Capivo che parlavano di me, questo sì, ma anche il medico parlava quella loro lingua fatta di termini sconosciuti. Capivo anche che a quel dottore chiedevano di aiutarmi a camminare proprio come l’avevano chiesto a un’infinità di medici prima di lui e come avrebbero fatto con altrettanti dopo. «Facciamola camminare», dicevano. Per quanto riguarda me, quando finalmente sono riuscita a gattonare, mi sono sentita già soddisfatta. Potevo difendermi da tutti quegli adulti che mi chiedevano troppo, così appena non mi vedevano mi mettevo per terra e mi spostavo a carponi. Mi piaceva stare a terra. Trascorrevo tantissime ore a giocare in ginocchio appena rimanevo da sola, senza qualche fisioterapista che mi perseguitava con i suoi esercizi. Se poi mi dovevo spostare per casa, lo facevo gattonando: avevo imparato bene e ne ero fiera. Ancora oggi ho le ginocchia segnate da quei lunghi tragitti. Penso che negare le differenze non sia un’arma per combatterle: mi facevano terribilmente arrabbiare tutte quelle persone che si ostinavano a ripetermi che non esisteva nessuna differenza tra me e i miei coetanei. Avrei voluto dirgli «ma non capite… allora spiegatemelo voi perché non posso fare tante cose che le altre persone fanno normalmente. Come fate a dire che le mie differenze non esistono…». Oggi capisco che tutte quelle persone che mi ripetevano che ero una bambina assolutamente «normale», lo facevano a fin di bene. Allora, però, mi sembrava che nessuno riuscisse a comprendere gli sforzi che facevo per fare cose «normali», della vita di tutti i giorni. Avrei voluto che qualcuno riconoscesse il mio impegno e le mie difficoltà, invece mi sembrava che ogni giorno dovessi impegnarmi al massimo per ottenere qualche cosa, e nessuno se ne rendeva conto. Più la gente mi diceva che ero normale, più mi sentivo esclusa dalla «loro» classificazione di normalità. Ho sempre ritenuto la «normalità» un concetto astratto. Che cosa è normale? Niente. Chi è normale? Nessuno. Negavo la normalità, forse, per legittima difesa. Un mio compagno di scuola era balbuziente, Luca. A ricreazione giocavamo a nascondino e Luca riusciva sempre a fare «tana libera tutti» che in questo gioco significa che l’ultimo che arriva alla tana può liberare quelli che sono stati catturati. Lui era molto più bravo di me. Per questo era il primo ad essere invitato a giocare, mentre per me c’era la maestra di sostegno che diceva agli altri bambini: «Aspettate, gioca anche Maria» e mi aiutava a correre. Giocavo con tutti gli altri, ma capivo che il mio modo impacciato di correre faceva ridere. Volevo giocare e divertimi ma c’era sempre chi arrivava alla «tana» prima di me. Avevamo tutti e due dei problemi, ma per lui era più facile farsi accettare, perché correva veloce. Luca è stato solo il primo di una lunga lista di persone più brave di me. Io sapevo che i miei compagni di classe non erano così bravi come sembravano, perché erano facilitati: loro non facevano molta fatica nel fare le cose, io lo sapevo, ma il fatto di saperlo non mi ha mai consolata più di tanto. Se giocare a nascondino non è mai stato il mio forte, Luca non riusciva molto bene nella lettura ad alta voce: quando leggeva s’inceppava su una parola o su una frase intera e i nostri compagni scoppiavano a ridere. Mi dispiaceva che lo prendessero in giro proprio quando si trovava in difficoltà, ma in un certo senso eravamo pari. Comunque mi sembrava che, nonostante ciò, lui avesse meno problemi nel farsi accettare dai coetanei ma anche dagli adulti. Forse la gente non considera la balbuzie un problema vero e proprio, una netta differenza, un handicap che la infastidisce; ma quando la cosa diventa un po’ più complicata, la gente tende a difendersi e ad allontanare il problema. Per me era un problema anche scrivere, così fin dall’asilo cominciai ad avere dei compiti. Dovevo riempire intere pagine di quaderno prima con dei segmenti e poi con delle lettere. Trascorrevo gran parte della mattinata a tentare di scrivere, poi il pomeriggio veniva un fisioterapista a casa e mi faceva fare altri esercizi preparatori per la scrittura. Nella mia stanza c’era una scrivania bassa, di legno, con delle sporgenze fatte a posta per farmi appoggiare i gomiti, quelle sporgenze mi incastravano, non potevo scappare. Quando gli adulti non mi vedevano tentavo di svitare le viti: pensavo che se fossi riuscita a distruggere quel tavolo nessuno mi avrebbe costretta a «studiare». Posso dire di avere cominciato a studiare prima ancora di andare a scuola e lo dovevo fare sempre. Anche in vacanza veniva la fisioterapista. La mattina ci mettevamo sulla veranda io e lei. Mamma non ci disturbava, sapeva che dovevo esercitarmi, lo sapevo anch’io. Non mi dovevo distrarre, non mi potevo distrarre, dovevamo essere sole io e la fisioterapista. Ricordo che un giorno iniziai a giocare con un fazzoletto, lei me lo tolse dalle mani esclamando: «anche con questo ti distrai». Un’altra volta avevo appena aperto il libro quando sentii al di là della siepe mia cugina gridare: «mamma, sono pronta, andiamo al mare». Non era giusto, pensai, anch’io volevo andare in spiaggia con mia madre, invece non potevo muovermi, dovevo rimanere li seduta a esercitarmi nella scrittura. Gli adulti riuscivano a farmi fare sempre quello che dicevano loro, ma nessuno poteva impedirmi di viaggiare con la fantasia. Quel giorno cominciai ad immaginare mia cugina in spiaggia, si divertiva, incontrava i nostri amici e costruivano con la sabbia una pista per le biglie, poi facevano una partita tutti insieme, e alla fine facevano il bagno, si schizzavano ed erano felici. Sapevo che per loro era così e desideravo stare anch’io tutto il giorno lì. Avrei giocato con i miei amici, avrei fatto quello che facevano tutti gli altri bambini, volevo solo andare al mare e non avere orari proprio come non li aveva mia cugina. Non mi sembrava giusto che la mia giornata fosse scandita dai doveri anche in vacanza. Ogni inverno aspettavo l’estate per essere finalmente libera e poi l’estate arrivava e con lei la fisioterapista e tutto il resto. Oggi capisco che dovevo tenermi in allenamento tutto l’anno, ma all’asilo tutto questo mi sembrava una condanna. Dovevo imparare a scrivere perché qualche dottore aveva detto che avrei avuto difficoltà, mentre per leggere avrei rispettato i tempi di tutti i bambini. Mi piacerebbe incontrarlo adesso e dirgli che poteva anche risparmiarmi tutti quegli esercizi perché ormai uso il computer, la mia grafia non è molto chiara nonostante gli esercizi, mentre ho molte difficoltà nella lettura. Anche se all’asilo facevo fatica a scrivere, dall’elementari in poi mi è sempre piaciuto: riuscivo ad esprimermi scrivendo. Da piccola gli unici compiti che riuscivo a fare bene e che facevo quasi con piacere erano i temi. In quel periodo però, non avrei mai immaginato che per me la scrittura sarebbe diventata una passione, una sorta di unico appiglio nei momenti più difficili della vita. Ho deciso di cominciare a scrivere su un quaderno per raccontare i momenti più importanti della mia vita, quelli che non volevo assolutamente dimenticare. Era l’autunno del 1994. L’idea mi è nata dopo la morte di Roby, quando mamma ha spiegato che Roby se n’era andato in cielo e che non l’avremmo più rivisto. Io avevo bisogno di non dimenticare nulla, così ho cominciato a scrivere per trattenere tutti i minimi dettagli. Roby non c’era più, questo è il fatto. Ma io conservo ricordi dentro di me e li scrivo sulla carta, in modo che non sbiadiscano con il tempo che passa. In questi ultimi tre anni sono cresciuta ed è cresciuta anche la consapevolezza che è tramite il dolore che diventiamo grandi. Quando Roby era vivo mi raccontava che in America esistono i teen-agers; prima sei considerato un bambino e poi diventi teen-ager. Diventi adolescente e cominciano le cose piccole, ma importantissime, dell’adolescenza: le uscite il sabato, gli amici, i primi flirt. Io sono arrivata a tredici anni e ho capito che non era vero niente. Sì, ho fatto delle cose da teen-ager, ma si contano sulle dita di una mano. Per me, ad esempio, il sabato è un giorno come gli altri, mentre per tutti i miei coetanei il sabato pomeriggio è il pomeriggio in cui si esce e ci si diverte. È il momento più atteso della settimana, per il quale ci si organizza dal lunedì precedente facendo una serie infinita di telefonate agli amici. Vi posso assicurare che è veramente triste rimanere a casa da sola e sapere che tutti i tuoi amici escono in gruppo, vanno a ballare e si vanno a divertire. Quando i miei amici cominciavano ad uscire io tentavo di unirmi al gruppo: facevo telefonate, cercavo di organizzare io le uscite, tentavo di lanciare idee che a me sembravano divertenti… ma i risultati erano a dir poco catastrofici. Non riuscivo ad rassegnarmi all’idea: non vedevo nessun motivo valido per questo isolamento forzato. Sono arrivata al punto di odiare queste quattro mura di casa mia. Volevo uscire da questa prigione. Avevo la stessa voglia di divertimi dei miei coetanei, e proprio non riuscivo a capire perché non avessi lo stesso diritto di godermi la mia età. Come la vogliamo chiamare questa «adolescenza»? Ti fai dei bei castelli in aria e poi ti crollano addosso. Teen-ager. In quegli anni trascorrevo interminabili pomeriggi in casa e scrivevo: era l’unica cosa che potevo fare senza l’aiuto di nessuno. Non potevo uscire da sola, tutti i pomeriggi veniva o la fisioterapista o qualche ragazza che mi faceva studiare. Non ero autonoma ed avevo molto tempo libero tra una cosa e l’altra; tempo in cui mi annoiavo, mi sentivo in colpa perché non facevo nulla di utile e mi deprimevo, quindi colmavo quei vuoti scrivendo. Sapevo che i miei amici trascorrevano i pomeriggi in modo diverso, ma facevo finta di non pensarci. Scrivere mi aiutava a non sentirmi inutile. Mi faceva compagnia. Ho sempre avuto paura della solitudine, ma ancora di più della noia. È la noia che porta la depressione, l’assenza di attività, la monotonia, la ripetizione del nulla. Per me era una vergogna, il mio peccato più grave: gli adulti mi hanno sempre richiesto tanto impegno e costanza e quando trascorrevo del tempo senza far niente era come se non mi sforzassi per migliorare. E questo non mi era permesso. Però potevo scrivere e ho imparato a farlo da sola. Non ho ancora capito cosa sto scrivendo, forse la mia autobiografia o forse solo qualche appunto che rimarrà in un file del mio computer; ma penso che per capire uno debba guardarsi bene dentro, pensando al futuro senza dimenticare mai il proprio passato. Per questo, forse, è meglio cominciare a raccontare tutto dall’inizio, cercando di mettere in ordine quei ricordi che si accalcano nella mia memoria come la gente che fa ressa all’uscita di un brutto film.

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aggionamenti del 18/5/2007

Scritto dalla redattrice Buongiorno a tutti i visitatori di questo sito,      

ho publicato 2 nuovi articoli: “come un soffio” e “intervista di Marzia a Giorgia”. In entrabi trovate l’e-mail di Giorgia per le vostre domande

oggi ho messo l’ultimo interessanse programma dell’ Englesh Theatre of Rome, all’interno ci sono tutti i recapiti per chi volesse prenotare i biglietti

POI HO MESSO LA MIA RELAZIONE DEL “PROGGETO CHANCE” SOTTO “PAGINE”, PRIMA STAVA IMMEZZO A TUTTE LE “CATEGORIE”.

CI SONO ANCHE DIVERSI ARTICOLI CHE SPERO POSSANO ESSERE UTILI A CHI COME ME HA UNA DISABILITA’ MOTORIA, MA SPERO INTERESSINO ANCHE CHI PER LAVORO O PER DEDIZIONE A QUOTIDIANAMENTE A CHE FARE CON PESONE CON HANDICAP FISICO E/O COGNITIVO ho anche creato 2 CATEGORIE DISTINTE: “ARTICOLI VOSTRI” DOVE METTO ARTICOLI SCRITTI DA VOI O PAGINE SCELTE E COMMENTATE, DA ME SU ALTRI SITI INTERNET L’ATRA CATEGORIA è “ARTICILI DELLA REDATRICE” DOVE METTO SOLO ARTICOLI SCRITTI DA ME

SE AVETE ARTICOLI DI CARATTERE SOCIALE CHE VOLETE PUBLUCARE IN “ARTICOLI VOSTRI” SEGNALATEMELI O MANDATEMELI PER E-MAIL A: info@piccologenio.it

COMUNQUE HO GIà MESSO DIVERSE PAGINE IN “ARTICOLI VOSTRI” CHE SPERO POSSANO ESSERE UTILI A CHI COME ME HA UNA DISABILITA’ MOTORIA, MA SPERO INTERESSINO ANCHE CHI PER LAVORO O PER DEDIZIONE A TUTTI I GIORNI HA CHE FARE CON PESONE CON HANDICAP FISICO E/O COGNITIVO. C’è ANCHE UN ARTICOLO SCRITTO DA UN’AMICA DI QUESTO SITO CHE RIGUARDA LA RETINITE PIGMENTOSA.

un’altra novità è l’apertura della CATEGORIA “temi pedagici” dove mettiamo articoli inerenti alla pedagogia e alla filosofia. GLI ULTIMI 2 ARTICOLI ISERITI SONO: UNO SU MARIA MONTESSORI, spero di ricevere i vostri commenti, e l’altro è: “INTERVISTA AL MIO PROFESSORE DI PEDAGOGIA…”.

Ho levato l’articolo del film BORAT perchè l’ho visto e non mi è piaciuto perniente, era demenziale ed esageratamente volgare. era uno di quei film che vogliono farti ridere a tutti i costi ma al massimo ti “stappano” in sorriso. voi che ne pesate? mi piacerebbe sapere la vostra opignone tanto se volete scivermi le e-mail sono anche ne logo del sito.

CI SONO GRANDI NOVITA’ NELLA “PARTE AUTOBIOGRAFICA”: L’HO ARRICCHITA CON TANTI CAPITOLI IN PIU’, QUINDI… BUONA LETTURA!!!!!!!!!   

ANCHE NELLE GATEGORIE “ARTICOLI DELLA REDATTRICE” E IN “RACCONTI” TROVATE DEI MIEI SCRITTI AUTOBIOGRAFICI.

IN “BIOETIECA” CI SONO DEGLI ARTICOLI INTERESSANTI, AD ESEMPIO L’ARTICOLO SCRITTO, SOTTO FORMA D’INTERVISTA, DA UN GRANDE DOCENTE DI QUESTA MATERIA, O ANCHE L’ARTICOSO SU “ANZIANI E BIOETICA” VI CONSIGLIO DI DARCI UNO SGUARDO. 

QUALCHE INDICAZIONE PIù GENERALE PER MUOVERSI MEGLIO NEL MIO SITO

Se siete nuovi in piccologenio.it consiglio di comiciare dalla pagina “VI SPIEGO IL SITO” per poi leggere le parti che vi interessano di più.

La pagina dei liks è sempre più ricca spero che vi troviate dei collegamenti che a vi siano utili e che vi interressiono. se volete fare un scambio di links mandatemi un e-mail, in genere rispondo nel giro di 24 ore.

Se vi interresano di più le rencenzioni allora potete cliccare su “films e libri“ che stanno sotto “pagine“  lì trovarete le recensioni che ho scritto l’anno scorso, mentre in “categorie- film e libri“ ci sono le ultime novità di quest’anno.

Il sito lo aggiorno un paio di volte a settimana, se piccologenio.it vi piace vi pregerei di passare parola. Tutte le voste critice, commenti, iniziative da publicizzare insomma tutto quello che vi passa per la testa e può avere anche una VAGA attinenza col mio sito, me lo potete mandare via mail ed io vi risponderò quanto prima.

 Che altro vi vorrei dire… Ah si, le categorie con l’asterisco sono gestite dal mio amico Merico Cavallaro.
.Comunque trovate i recapiti miei, di Merico e della Dottoressa Porri (la psicologa di questo sito) alla pagina “contatti”
Buona lettura a tutti.
                                                                                                                                             

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CARA SCUOLA, TI RICORDI DI ME ? Esperienze e delusioni di una scolara disabile

Quando sono nata, mamma aveva 27 anni ed erano le tre di pomeriggio del sedici settembre del 1981. Avevo sedici anni quando mamma, nonna e nonno mi hanno spiegato come sono andate realmente le cose quel giorno: quando mamma è entrata in sala parto stava andando tutto bene, era cominciato un normalissimo parto spontaneo. Intorno a “noi” c’erano tanti medici bravissimi fra cui zio e nonno, entrambi ginecologi. Stavo giusto uscendo quando qualcosa, non si è mai saputo cosa, è andato storto: il battito del mio cuore tutt’a un tratto era sparito! Sono rimasta per cinque minuti senza respirare, di conseguenza non è arrivato abbastanza ossigeno al cervello e questo mi ha provocato la morte di alcune cellule del sistema nervoso centrale: quelle che controllano i movimenti. E come se tutto questo non bastasse, il medico che mi ha intubata ha “sbagliato” e mi deve aver “sfondato un polmone”.
Il primo mese di vita l’ho passato in ospedale. Chi ben comincia è a metà dell’opera!!! Mamma e nonna mi sono sempre state vicine. Mamma, una volta uscita dall’ospedale veniva da me tutti i giorni a portarmi il latte. Ho delle foto dolcissime di quei giorni con mamma che mi tiene in braccio.
Anche nonna stava sempre lì con me, mi guardava attraverso il vetro.
Fin dai primi giorni di vita ho fatto tantissima fisioterapia e col passare del tempo ho recuperato molto bene. I medici che mi visitavano nei primi anni di vita, dicevano che non avrei mai camminato, invece adesso mi muovo da sola! Evviva l’onnipotenza della scienza medica!!!!!!
Quando avevo due anni e mezzo mamma e papà per qualche litigio che non si poteva risolvere in nessun altro modo decisero di separarsi e così fu!
Secondo me è stato meglio così perché, da quel che mi hanno raccontato, negli ultimi tempi litigavano di continuo. Tanta gente dice che i genitori devono rimanere uniti per il bene dei figli, ma io non sono d’accorto: penso che i figli soffrano meno ad aver i genitori separati che non quando i genitori vivono sotto lo stesso tetto e non fanno altro che litigare.

Quando papà si è trasferito nella sua nuova casa mi mancavano le favole che mi raccontava per farmi addormentare; le mie preferite erano “Occo ed Entola” come io pronunciavo “Pinocchio e Cenerentola”.

Per me la scuola non è stata affatto semplice. Ne ho un ricordo terribile fin dall’asilo: mentre gli altri bambini giocavano, io sedevo nel mio banco e mi esercitavo a scrivere per imparare a controllare i movimenti.
Ricordo come un incubo tutte quelle ore trascorse a cercare di riempire pagine e pagine di quaderno.
Un altro brutto ricordo di quegli anni, ancora oggi chiarissimo nella mia memoria, sono le ore del mattino che io passavo con la maestre di sostegno tentando di camminare: con quanta invidia guardavo i miei compagni giocare! Un giorno durante uno di questi disperati tentativi sono caduta e mi sono tagliata il mento. Lo ricordo ancora abbastanza chiaramente. La suora e Daniela, la mia maestra di sostegno, mi hanno messo subito l’acqua fredda e mi hanno portata in segreteria; da lì hanno chiamato mamma e quando è arrivata mi ha portata subito in ospedale. Appena ho capito che mi dovevano mettere i punti ho avuto tantissima paura, ma fortunatamente, mi hanno fatto l’anestesia totale e, quando mi sono svegliata, mi avevano messo ben cinque punti!!!!!
L’ultimo anno d’asilo la mia maestra di sostegno mi aveva messo il terrore dell’elementari: mi aveva detto che si studiava molto di più e che la suora era molto più esigente! Ero semplicemente terrorizzata: già gli anni dell’asilo erano stati anche troppo difficili, e non volevo certo finire dalla padella alla brace!
Speravo con tutte le mie forze che l’elementari arrivassero il più tardi possibile! Di tutto questo ne parlavo col mio “migliore amico”: Titti; all’epoca avevo cinque anni e mio ero creata una compagnia immaginaria: “Titti” era un curioso animaletto con zampe di cane e corpo di coniglio, agile come uno scoiattolo, tutto bianco, ma la sua caratteristica fondamentale era quella di essere invisibile per tutti, tranne che per me. E’ significativo che io che mi muovevo con una certa difficoltà, gli avevo attribuito una capacità irrefrenabile di correre, arrampicarsi e saltare dovunque – sottolineo che non era affatto un gioco.
Titti per me è stato un compagno reale, una proiezione di qualcosa che sentivo dentro di me, era il mio confidente, non mi giudicava mai e la pensava sempre come me.
Quando andavo a scuola, o a fare una visita medica, lui mi restava vicino. I miei frequenti momenti di tristezza erano bilanciati dalla sua inalterabile allegria e vitalità.
E’ stata una lunga amicizia la nostra, penso che sia durata sette anni; poi crescendo ho trovato altri modi e altre forme per le mie fantasie
Forse da piccola nei miei pensieri volevo essere un’altra e forse questo potrebbe spiegare molte cose.
Il mio cartone animato infatti si chiamava “Milly un giorno dopo l’altro” ed era la storia di una bambina che viveva in campagna in un grande casale con la nonna: lei era “libera”; poteva fare quello che voleva, non aveva la bambinaia, poteva uscire dal casale, girare da sola e fare tante altre piccole cose che io non potevo fare ma le desideravo molto.
Quando le elementari sono arrivate tutte le mie paure hanno avuto conferma. Ancora oggi non ho certo un bel ricordo dei miei anni di asilo e delle elementari ho, se possibile, un ricordo ancora peggiore: la suora era brava, ma molto esigente!! Io andavo male, facevo una gran fatica a leggere e memorizzare!!! Mi facevano scrivere a mano e per me era veramente un’impresa!
In quegli anni andavo malissimo a scuola: mi ricordo che quei cinque anni mi sembravano un’eternità. Il tempo non mi passava mai; ancora oggi se ci ripenso mi sembra che le elementari siano durate un’infinità di tempo!!!! Mamma sapeva che la mia situazione scolastica era disastrosa: andavo male in tutte le materie soprattutto in matematica ma non ne faceva un dramma… tutto questo mi rendeva già infelice e tesa.
Avevo imparato ad usare la macchina da scrivere all’età di otto anni ma la suora non voleva che la usassi e si ostinava a farmi scrivere a mano
Alle medie la situazione migliorò sotto certi aspetti: ero più seguita, avevo sempre la professoressa di sostegno ed a casa ero molto aiutata.
Dopo varie lotte sostenute della mia famiglia con la preside ho avuto il permesso di usare la macchina da scrivere.
Intanto all’età di dieci anni mamma e nonna mi regalarono un computer e con l’aiuto di Luigi Marotta ( un logopedista molto in gamba che mi segue tuttora) imparai ad usarlo. Lo potei usare in classe solo in terza media: la legge prevedeva che le persone con problemi motori potessero usare la macchina da scrivere ma non diceva niente riguardo ai computer così ci vollero due anni di battaglie per portelo usare a scuola!!!!
Eppure anche le medie non sono “scivolate via” senza lasciare qualche “simpatico” ricordino (ovviamente dico “simpatico” ora che ho diciotto anni e ho terminato i sinonimi di “orribile”).
In seconda media, infatti, mi è successo un fatto che tuttora mi sembra inverosimile: un giorno a settimana dovevo mangiare un panino a scuola e rimanere un’ora in più. All’ora di pranzo io dovevo andare in bagno. Prima di allora non avrei mai immaginato che una semplice pipì potesse comportare un problema di dimensioni mastodontiche!
Né la professoressa di sostegno né la bidella volevano “prendersi” la responsabilità di accompagnarmi in bagno perché, a quanto pare, se fossi caduta, per loro sarebbero stati guai seri! All’inizio veniva mia mamma all’una e mezza, mi portava un panino e mi accompagnava al bagno. Dovevo andare a quello dei maschi perché quello delle femmine era al piano disopra. Per me non era un problema fare un piano di scale: se qualcuno mi avesse dato una mano ci sarei riuscita benissimo ma, a quanto pare, per la preside non era così semplice perché me lo aveva proibito!!
Inutile dire che a ricreazione tutti potevano uscire tranne la sottoscritta che doveva rimanere seduta al proprio banco perché nessuno voleva prendersi la responsabilità di farmi fare quattro passi fino al cortile!!! Quest’arduo compito non competeva a nessuno: non era compito né della professoresse, né nella bidella, né dell’ insegnante di sostegno. Le uniche che sarebbero state felici di passeggiare con me erano le mie compagne di classe, ma gli fu severamente proibito!!!
Logicamente tutta questa situazione cominciò ben presto a pesarmi. Non capivo né il come né il perché di questi problemi insormontabili; era tutto paradossalmente assurdo: da una parte la mia famiglia che combatteva per cose che fino a quel momento mi erano sembrate ovvie, tutti gli alunni di questo mondo hanno il diritto di rimediare ai loro bisogni fisici e non capivo perché io fossi esclusa dal club, dall’altra presidi e professori iscritti al girone dei torturatori infernali.
Se fare pipì o sgranchirmi le gambe era severamente proibito partecipare alle gite scolastiche era qualcosa di diabolico, talmente grave da meritare nell’al di là e nell’al di qua condanne indicibili. Per una classe formata da tredici ragazzi dovevano esserci due professoresse a cui si aggiungeva la mia professoressa di sostegno; è ovvio che non era ancora sufficiente: la scuola voleva che andassi accompagnata! Quel periodo è stato un incubo! Avevo una professoressa di sostegno (e paradossalmente ero io a far da so-stegno a lei per come era limitata) e una preside che non ne voleva sapere delle mie richieste di andare in bagno, anche accompagnata. Mia madre a cui avevo riferito tutto, una mattina chiese alla bidella se gentilmente mi poteva accompagnare lei; lei il primo giorno lo fece, poi, disse, che non se la sentiva di prendersi questa responsabilità, poiché c’è la professoressa di sostegno – e così si ricominciava.
La mattina, in classe, ero abbastanza integrata; la maggior parte delle mie amiche mi conosceva dalle elementari e quindi “la mia figura…” non li metteva a disagio; perché mi chiedevo, allora, fuori della scuola per loro ” ero quasi inesistente”?! Io mi sentivo uguale a loro: avevo gli stessi interessi, la stessa voglia di divertirmi, di non studiare e di far danni!

Ancora non ho capito l’utilità della ” mia accompagnatrice” visto che non avevo bisogno di cose particolari!!! Ma tutto sommato.. la vita è troppo breve per perdere tempo e fatica con questi grandi misteri!!!!
Tutte queste esperienze negative hanno lasciato in me un segno indelebile: ancora oggi, a distanza di dieci anni, mi capita spesso di ripensare ai primi anni della mia scuola e ci soffro, ma è anche vero che tutto questo mi ha dato una “formazione interiore” che poche persone possiedono, e nessuno potrà mai levarmela.

Vita dell’infanzia – Maggio-Giugno 2000

Scritto dalla redattrice

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LETTERA A …

Quanto segue è una lettera che ho scritto dieci mesi dopo il mio esame di maturità. Stavo male: ero ancora arrabbiata, avevo delle cose da dire a due persone, quindi l’ho scritta per una mia esigenza. Non ho mai ricevuto una risposta, ma non mi importa scrivere mi ha aiutato a superare delle esperienze ed a essere pronta a farne di nuove. In questo spazio trovate la lettera così come l’ho scritta nel 2002, con l’unica differenza che metterò delle sigle al posto dei nomi propri.

Care X e Y,
E’ passato un anno dalla mia licenza liceale ed ancora ripenso con dolore e tristezza ai cinque anni trascorsi al Istituto Z ed in modo particolare all’ultimo. Per raggiungere il grande traguardo della maturità ho dovuto faticare più degli altri ragazzi. L’anno scorso ero determinata a studiare come non lo ero mai stata in vita mia, ne ho pagato un prezzo molto alto: mi sono privata di cose per me altrettanto importanti come la fisioterapia, la logopedia, lo scrivere, uscire con le mie amiche, il corso di teatro del quale ho fatto lo spettacolo a giugno ma ho dovuto rinunciare agli incontri durante l’anno. La mia giornata era scandita solo da ore di studio delle diverse materie, per questo ho fatto degli sforzi troppo grossi per le mie possibilità, compromettendo anche la mia salute fisica. L’esame è andato bene: ho preso ottanta su cento. Durante l’esame orale il prof. d’italiano (che era un membro esterno), invece di lasciarmi ripetere la tesina mi ha fatto tante domante su tutto il programma, quindi mi sento di poter dire che quello che ho ottenuto me lo sono meritata. A tutte le persone che complimentandosi con me, mi chiedevano se ero soddisfatta del come era andato il mio esame; rispondevo con le lacrime agli occhi ed una rabbia che mi cresceva dentro mai provata prima, che non ero affatto contenta, anzi che mi sentivo sconfitta. Tutti dicono che la scuola deve servire per educare i ragazzi e prepararli ad affrontare la vita che viene dopo la scuola. Invece io al Istituto Z ho “imparato” aver paura di affrontare le difficoltà. In tutta la mia vita poche persone sono riuscite a farmi sentire “diversa” come c’ è riuscita lei professoressa X, non mi riferisco solo al suo comportamento in occasione della gita di Burri (anche se quello secondo me, è stato il fatto più eclatante e scorretto), ma ai numerosi tentativi di nascondere il suo disagio nei miei confronti. Io sono cresciuta circondata da persone che hanno sempre creduto veramente che, nonostante il mio handicap fisico, io sia una ragazza esattamente uguale alle persone normodotate. Lei era l’unica a ripetermi ossessivamente che io sono uguale alle persone che non hanno un handicap fisico. Ho sempre pensato che il suo ossessivo bisogno di ripetermi verbalmente questo concetto derivava dal fatto che non mi abbia mai accettato come una persona “normale” mi ha sempre visto come un persona diversa e il “diverso” si sa, fa paura. E lei y; io l’avevo messa al corrente di quello che stava succedendo tra me e la vice y, ma lei non ha saputo prendere una posizione fra noi due Ogni volta che venivo a raccontarle quello che stava accadendo lei mi tranquillizzava dicendo che avrebbe parlato con la X poi di fatto non faceva nulla, per questo mi sono sentita presa in giro. Mi chiedo come è possibile che in una scuola privata religiosa accadano certe cose. Mi sembra assurdo che nel vostro istituto si dia una grandissima importanza a cose formali come la divisa, le messe, le due feste della scuola e poi se c’è un’alunna con qualche difficoltà in più, invece di aiutarla secondo i principi religiosi dei quali l’istituto si vanta molto, non fate altro che accentuare le sue difficoltà. Dallo scorso giugno ad oggi, grazie all’aiuto e al sostegno della mia famiglia e delle persone che mi stanno vicino, sono riuscita in parte a superare i traumi da voi creati ed ho fatto molte cose: ho seguito un corso di scrittura della rinomata scuola Omero, durante il quale ho scritto un racconto che è stato lodato dall’insegnante stesso, ho fatto un corso d’inglese della British ed uno di informatica che terminerò tra due settimane prendendo il patentino europeo, ho “ritrovato” i miei amici ed ho conosciuto molti ragazzi simpatici che mi accettano per quella che sono. A distanza di un anno, nel ripensare a tutto il periodo del liceo, in particolare l’ultimo anno, provo ancora tanta amarezza. Penso che tutte queste prove mi hanno formata ed ho voluto scrivervi questa lettera perché non mi piace tenermi dentro questi “rospi” e così spero di andare avanti serenamente attivamente e con coraggio.

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MEMORIE DI UNA GITA SCOLASTICA

Quanto segue è il racconto o forse una relazione di una cosa che mi è successa nel 1999. l’ho scritta subito dopo l’ accaduto. Non ne ho fatto ne un articolo ne una lettera: l’ho scritta per me, per non dimenticare, e per farla leggere a parenti e amici. Prima di metterla su questo sito ho levato i nomi, ed ho sostituito le ripetizioni con i puntini.

Ho diciannove anni. (…….) riesco a fare tante cose da sola, ma a quanto pare non posso partecipare alle gite scolastiche a meno che non venga mia madre o una persona da lei delegata. (…) Era così anche alle medie, ma più passa il tempo più la richiesta della scuola mi sembra sempre assurda. L’anno scorso mia madre e mia nonna sono andate a parlare di questo problema con la vicepreside, che è anche la mia professoressa d’inglese e, prima di allora, si era sempre dimostrata aperta e disponibile nei miei confronti. In un primo momento sembrava che la situazione si fosse appianata ma poi abbiamo visto che i problemi continuavano ad esserci, anzi la situazione andava di male in peggio: col passare del tempo la vice preside assumeva un comportamento sempre più freddo ed antipatico nei confronti miei e della mia famiglia. Si è arrivati al punto che quando i professori organizzavano una gita sembrava quasi che la organizzavano per tutta la classe tranne che per la sottoscritta, tanto questo non era un problema loro ma solo mio, della mia famiglia e di chi mi doveva accompagnare. (…) Una mattina, ci dissero che le professoresse di due classi stavano programmando una gita scolastica di un’intera giornata in Umbria. Appena l’ ho saputo ho chiesto alla prof X come mi dovevo organizzare; se dovevo essere accompagnata volevo saperlo con un po’ d’anticipo… lei mi ha risposto: “sarebbe meglio venisse qualcuno con te almeno la gita ce la goderemmo di più tutti quanti.” Come risposta era un po’ troppo acida per fargliela passare liscia. Se prima io e la mia famiglia eravamo abbastanza determinate a farmi partecipare alle gite da sola, perché infondo è anche un mio diritto, adesso eravamo irremovibili. Quando sono tornata a casa, ho raccontato a mia madre e a nonna quello che era successo, lei era dalla parte mia, ma allo stesso tempo mi lasciava carta bianca: quando ero piccola ci pensavano loro a questi problemi, invece ora ero pronta e desideravo affrontare certa gente da sola. La gita era fissata per un venerdì, il lunedì precedente io stavo tranquillamente seduta a mio banco, stavo mettendo a posto i libri. La professoressa X e una collega entrano in classe e la prof x ha cominciato a parlare; in un primo momento non gli ho dato molta importanza fin quando non ha fatto il mio nome; precisamente ha detto che avremmo usato quell’ora per parlare di problemi che si erano creati tra me e la classe. Io mi sentivo veramente spaesata: a me non risultava di aver mai avuto particolari problemi con nessuno in classe. Comunque la discussione andò avanti, le mie compagne, incitate dalla prof. X mi dicevano che non se la sentivano di “prendersi la responsabilità morale” di aiutarmi; tutto questo “gravoso aiuto” consiste nel darmi il braccio quando c’è da camminare. Per “difendermi” tentavo di spiegagli che fuori dalla scuola ho una vita “normale”: vado in giro da sola, ho tante amiche in parrocchia ed con loro ho sempre fatto tantissime cose, ho partecipato a feste, gite e pernotti senza aver problemi e quindi proprio non riuscivo a capire come mai loro mi stavano creando tutte quelle difficoltà. Il pomeriggio ero arrabbiatissima. Dopo tanti ragionamenti e lunghi discorsi con mamma; ho deciso che il giorno dopo, all’ora di inglese avrei chiesto alla professoressa se mi dava un po’ di tempo per parlare con lei e con la classe di quello che era successo; non me l’ha permesso, mi fatto parlare con lei a quattr’occhi e per pochi minuti. Il giorno prima lei mi aveva messo in difficoltà davanti a tutta la classe, poi non mi ha neanche dato la possibilità di dire “la mia”. Comunque le ho detto che avevo intenzione di partecipare alla gita come tutte le mie amiche e che mi sarei organizzata per essere autosufficiente. Lei si “arrese” ed io finalmente stavo per partecipare alla gita senza l’accompagnatore. Nei giorni precedenti alla gita ho contattato il museo, mi sono informata se c’erano barriere architettoniche. Anche se mi hanno detto che non ce ne erano, ho richiesto l’assistenza: se avessi avuto bisogno di un aiuto preferivo rivolgermi alla persona addetta, piuttosto che a qualcuno di scuola mia.(…) Il venerdì sono arrivata sul luogo dell’appuntamento attrezzatissima ed in perfetto orario; mi ero portata la mia sedia a rotelle (la uso solo quando viaggio o quando devo fare lunghe camminate) non volevo usarla per stare seduta, bensì volevo camminare spingendola perché in questo modo ho un po’ più d’equilibrio e non devo dare il braccio a nessuno. Appena sono arrivata la professoressa Y mi ha detto che per qualsiasi cosa avessi avuto bisogno potevo rivolgermi a lei; l’ho ringraziata e le ho spiegato che mi ero organizzata per essere il più possibile autosufficiente. Ero felice che in quella gita ci accompagnassero due professori diversi dalle prof del “dibattito“ in classe. Ancora oggi mi domando perché la professoressa X aveva creato quella strana situazione se poi non toccava a lei venire alla gita. Per tutta la giornata le mie compagne di classe hanno fatto finta che io non ci fossi ed io ho fatto lo stesso con loro perché ero “troppo impegnata” a socializzare con le ragazze e i ragazzi delle altre classi. Al mio arrivo al museo ho trovato “l’assistenza” che avevo richiesto. La signorina ha girato la mostra con noi. Io camminavo spingendo la sedia a rotelle proprio come avevo deciso di fare. Durante la visita, mentre guardavo le varie opere d’arte di Burri, che non erano poi tanto entusiasmanti, chiacchieravo e mi divertivo a fare amicizia con gli altri ragazzi delle altre classi. Dopo questa visita siamo andati a vedere Città di Castello, il pullman ci ha lasciato vicini al centro. Io ed il professore abbiamo pensato che era meglio lasciare la mia sedia in pullman: per arrivare nel paese dovevamo prendere una scala mobile e quindi la sedia sarebbe stata solo d’impiccio. Dopo poco ci siamo incamminati verso il paese; io camminavo da sola, il professore era avanti, si girava spesso per controllare se ce la facevo, ed io gli facevo cenno che andava tutto bene. Mentre stavamo camminando una ragazza, che non era di classe mia, si avvicina a me e mi offre il braccio io ho accettato e siamo andate insieme fino al paese antico, poi da lì ci siamo divise io sono andato con una classe e i due professori al ristorante. (…) Subito dopo pranzo siamo ripartiti per Roma. Dopo questa gita sono cambiate molte cose a scuola: quando camminavo per i corridoi salutavo e scambiavo due parole con tantissime persone. Purtroppo però ci sono stati anche molti risvolti negativi: la mattina seguente stavo aspettando l’ascensore per andare in classe quando è arrivata la professoressa X con in mano la solita pila di libri, anche lei voleva prendere l’ascensore così siamo entrate in tre in ascensore, io, lei e una ragazza che si era fatta male a un piede. La prof X, in ascensore mi ha dato in mano tutta la sua montagna di libri. Non ho capito questo gesto, prima di allora non me l’aveva mai fatto perché sapeva benissimo che questo mi avrebbe messa ancor più in difficoltà. In quei giorni mi sono resa conto che lei non aveva la minima idea di come si doveva comportare con me e che la mia presenza a scuola la metteva molto in imbarazzo. la situazione all’ interno della classe era diventata insostenibile: le mie amiche seguitavano ad ignorarmi, nessuna di loro mi diede più il braccio per camminare. (…)Un giorno sono caduta le mie amiche stavano pochi metri più avanti, mi hanno visto benissimo, ma hanno continuato ad andare dritte, nessuna di loro si è fermata a darmi una mano, l’unica che l’ho ha fatto è stata la professoressa d’italiano che stava dietro di me, ci stava raggiungendo per venire al bar con noi. La preside era perfettamente al corrente della situazione perché in quel periodo io, per mia iniziativa, andavo da lei quasi tutti i giorni ad informarla di quello che stava accadendo all’interno della classe e con la professoressa X. ho più volte chiesto alla preside di fare qualcosa per aiutarmi, ma ci volle quasi un mese prima che la preside si decidesse a parlare con la famosa professoressa. Intanto io continuavo ad andare a scuola; per la verità in quel periodo non ho fatto nemmeno un giorno d’assenza perché non volevo dargliela vinta. Un giorno le mie amiche mi hanno chiesto se a ricreazione potevo rimanere in classe perché loro mi volevano parlare, ho accettato; siamo rimaste in classe senza neanche un professore. Loro mi hanno chiesto perché in quel periodo ero fredda nei loro confronti, (bisogna riconoscere che hanno avuto un bel coraggio a farmi una domanda del genere!) io gli ho risposto che veramente ero io che volevo sapere come mai dal giorno della gita si stavano mi ignoravano completamente; loro mi hanno risposto che era “colpa mia” che me l’ero cercata perché avevo combattuto tanto per partecipare alle gite da sola e quindi ora dovevo arrangiarmi. Hanno continuato la discussione dicendo che erano arrabbiate con mia madre e mia nonna perché non le avevano mai ringraziate per l’ aiuto che mi avevano dato negli ultimi cinque anni, e ancora: “secondo noi le tue amiche della parrocchia sono gentili con te per puro spirito di volontariato“. Io cercavo di difendermi, ma quando mi hanno detto quelle cose sulle mie amiche della parrocchia mi sono veramente arrabbiata, gli ho detto che non si dovevano permettere di parlarmi in quel modo e sono uscita dalla classe. Ho telefonato a mamma, le ho detto che ero veramente arrabbiata… e che volevo tornare a casa, lei ha capito e mi ha dato il permesso di uscire da scuola a quell’ora. Quando sono tornata in classe le altre mi hanno detto che era tutto a posto, che avrebbero ricominciato ad aiutarmi. Non ho risposto, ho preso le mie cose e me ne sono andata, anche se avrei voluto dirgli: “grazie mille della compassione”. Pochi giorni dopo tutta questa storia è finita senza un motivo particolare, proprio come è iniziata. L’altro giorno, ho sentito al tele giornale che la mamma di una bambina sorda ha scritto una lettera al Presidente Ciampi per informarlo che d’improvviso alla figlia li hanno tolto l’insegnante di sostegno. Ciampi ha risposto pubblicamente: “bambini difendete i vostri diritti”, Io penso che sia gravissimo che nella scuola accadano certe cose perché la scuola dovrebbe servire ad educare i ragazzi, ma a me sembra che accada tutto il contrario: sono proprio i professori che danno il cattivo esempio. Per me la responsabilità non è solo dei docenti, ma è anche del governo, in quanto sostiene che la scuola è un diritto ed un dovere di tutti i cittadini ma forse ancora non ci sono abbastanza leggi a favore degli studenti diversamente abili.

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“che bel viso peccato” presentazione del libro di Ileana Argentin

Scritto dalla redattrice

Ieri giovedì 29 marzo 2007 al sono andata alle presentazione del romanzo autobiografico: “Che bel viso… peccato“ di Ileana Argentin.
Il titolo del libro, come ha spiegato l’autrice stessa, è la frase che più spesso si è sentita rivolgere dai suoi interlocutori. Perché sembra quasi un peccato che si possa avere un bel viso, una straordinaria voglia di vivere e una grande autoironia se si è disabili. Oppure si pensa che si debba essere necessariamente buoni o intelligenti proprio perché disabili.  Con pungente ironia ed auto ironia Ileana ha più volte detto “come peccato? Ma perché, dovrei essere anche brutta?“
In questo piccolo volume Ileana Argentin, consigliere delegato per l’Handicap del Comune di Roma, racconta, attraverso un percorso umano e biografico, una storia di impegno e di lotte per il riconoscimento dei diritti delle persone portatrici di handicap fisici o mentali, per l’abbattimento delle barriere architettoniche ma soprattutto di quelle culturali.
Inoltre Ileana si mette nella testa e ne sentimenti della mamma, del papà, del suo compagno e del suo cane: fa raccontare a loro la sua nascita, la sua disabilità, la sua vita sentimentale e sessuale. Questa tecnica di scrittura l’ho trovata molto toccante e appassionante per il lettore ed è anche scorrevole e molto curata nei dettagli, nelle descrizioni di vicende, personaggi, battaglie, stati d’animo  e… odori.
“Vorrei tanto far capire alla gente che la disabilità è uno status di vita, non una malattia“. Così Ileana si impegna, nel suo lavoro ed anche con questo romanzo per  sottrarre la condizione del disabile agli atteggiamenti di indifferenza, pietà, compassione o  imbarazzo. Ileana ritiene giustamente che le differenze fanno parte del mondo. Ogni disabile è diverso da un altro disabile, gli uomini e le donne sono molto diversi gli uni dagli altri, le persone si differenziano per l’abilità nel fare una cosa piuttosto che un’altra, chiudi conclude l’Argentin “la diversità tocca tutti, per fortuna.“

Ileana Argentin è consigliere delegato del Comune di Roma per l’Handicap. È stata presidente dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare, sezione di Roma.

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Maria Montessori: l’educazione del bambino in età prescolare

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Pedagogista ed educatrice, fu la prima donna in Italia a conseguire la laurea in medicina, questo fu senza dubbio un traguardo importante per lei e per il paese stesso che prima d’allora non ammetteva le donne all’università. I suoi studi e il suo carattere tenace e deciso la portarono a viaggiare molto nei paesi poveri, dove operò come medico, e nel resto del mondo dove fu conosciuta come pedagogista. Fece molti congressi per portare le sue idee ed il suo metodo educativo. Ho letto dei libri dove c’erano molte relazioni dei congressi fatti. La Montessori sosteneva che l’adulto non ricorda più il suo essere “puro e fanciullo“, quindi è ormai incapace di capire e assolvere le necessità dei più piccoli. Secondo me questa visione è troppo netta ed esasperante, in quanto vede il bambino solo vittima, e l’adulto solo incompetente ed incapace. Ho letto tante relazioni dei suoi congressi, dove non si tiene mai in considerazione che certi bambini sono più scontrosi e capricciosi di altri e dunque l’educatore dovrebbe dire un bel “no“ autoritario.
Oltre a viaggiare molto, la Montessori lavorò anche a Roma nel quartiere di san Lorenzo. Ai primi del 1900 questo quartiere era molto povero, è proprio qui che la Montessori si dedica a bambini con problemi psichici, convincendosi che con il trattamento educativo otteneva maggiori risultati che con l’uso di cure mediche tradizionali. Da questa esperienza la Pedagogista pensò che se il suo metodo avrebbe dato dei buoni risultati sui bambini con handicap mentale, ed avrebbe potuto essere anche applicato con successo ai bambini normodotati, da qui viene l’idea di aprire le scuole montessori. Nel 1906 fonda “la casa dei bambini.“
La Montessori fu anche criticata per la sua volontà di trasferire su tutti i bambini un metodo che nasceva per aiutare bambini con handicap e che quinti partivano da un livello di scolarizzazione, percezione di se e della realtà circostante completamente differente da un coetaneo normodotato. Un’altra critica, che condivido, è relativa alle questioni economiche, ai costi elevati che hanno sempre avuto le scuole montessoriane, raprpesentando fonti di grande discriminazione tra bambini nati in realtà sociali diverse. La Pedagogista frequentava la nobiltà romana e proprio da questa cerchia si era fatta dare dei locali all’interno di Palazzo Taverna, è ovvio che i primi e unici utenti di questi locali furono i figli delle famiglie benestanti.
Il metodo che si è sempre applicato, dagli albori delle scuole montessoriane a oggi, consiste in giochi manipolativi, stimolando ad andare da soli verso la scoperta, la conoscenza, la crescita; ma esulava da comminazioni di punizioni e conferimento di premi, ritenendo che l’autonomia e la serenità che raggiungevano potesse essere una ricompensa ben più adeguata. Il fanciullo doveva avere un ambiente adatto a lui adatto: i materiali (sedie, tavoli, utensili per pulire la casa e fare giardinaggio) dovevano essere piccoli e leggeri per permettere al bambino di svolgere da solo le attività che vedeva svolgere dalle persone che gli stavano intorno. Ritengo sia sbagliato pensare di ricreare, a scuola ed in famiglia, un ambiente apposta per il piccolo spendendo soldi, tempo e energie. Trovo più giusto preoccuparsi di accogliere un bambino nella serenità e nell’amore. Queste
La maestra montessoriana deve avere particolari qualità che consistono nel dover “regolarizzare“ il bambino che arriva all’asilo da un ambiente per lui caotico e quindi lui stesso è agitato e con poca capacità di concentrazione. Dopo questa prima fase, la maestra deve essere “umile“, capace di tirarsi indietro e lasciare libero il bambino di autogestirsi. Infine anche la maestra, dopo aver osservato le attività svolte dalle classe, deve rielaborarle e scriverle sul registro di classe che viene usato anche al giorno d’oggi ma risale proprio alla Montessori.
Tornando alle mie idee critiche sul metodo montessoriano ho avuto modo di confrontare delle situazioni: la testimonianza di una madre che ha fatto educare il figlio alla Scuola Montessori e una giovane che ha frequentato questa Scuola. Nel primo caso, la mamma ha lamentato l’ingombro dei materiali didattici ed il permissivismo delle insegnanti; mentre nel secondo caso la giovane ha vissuto un impatto traumatico nel passare alle scuole ordinarie.
 

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“Poema Pedagogico” di A.S. Makarenko: dialogo col professor Nicola Siciliani de Cumis

  1. Anton Semenovyč Makarenko

    Professore, potrebbe aiutarci a comprendere meglio il significato dell’espressione “moralmente handicappato” che troviamo nel “Poema pedagogico” di Anton Semenovič Makarenko?

Per provare a spiegare con qualche attendibilità il concetto di “moralmente deficiente”, nel poema makarenkiano, mi ci vorrebbero molto tempo e diverse ricerche. Potrebbe essere addirittura il tema di un corso per la laurea specialistica. Ma provo a dirti almeno questo: il concetto non è, almeno in prima battuta, riferibile a Makarenko (al Makarenko personaggio del Poema pedagogico); è invece, al suo primo apparire nel romanzo (capitolo terzo della prima parte), una definizione dei ragazzi della colonia “Gor’kij” coniata da altri: e precisamente dai componenti del Comitato provinciale dell’alimentazione o da quelli della Commissione Rifornimenti della Prima Armata. Bisognerebbe quindi capire cosa intendessero precisamente loro, quegli “altri”, con quella definizione.

Rimane tuttavia il fatto che, nel suo romanzo, Makarenko recepisce per esplicito quella definizione. Una definizione che assume, a mio parere, un forte valore pedagogico, meglio un forte valore antipedagogico (e drammaturgico): nel senso che, quella definizione “di partenza” collabora direttamente al processo che sta al centro dell’esperienza educativa e letteraria makarenkiana e che sta alla base della formazione “dell’uomo nuovo”.

In altri termini, la mia ipotesi di lettura è questa: che lo handicap morale e sociale dei ragazzi della colonia, nel corso dei fatti vissuti e raccontati da Makarenko, si traduca gradualmente nel suo contrario, cioè in una risorsa morale e sociale per tutti. Ed è ciò che vediamo sia nella prima, sia nella seconda, sia nella terza parte del Poema, che mi piacerebbe rileggere di nuovo, pagina per pagina, per individuare le prove di ciò che dico…

2) Secondo lei, al giorno d’oggi ci sono persone che si possano definire “handicappati morali?

 Dovessi rispondere con una battuta (non è solo con una battuta “ad effetto”), direi: tutti. Tutti noi esseri umani, in quanto tali, siamo in qualche modo dei “moralmente deficienti”. Nel senso che la sproporzione tra come siamo e come vorremmo e dovremmo essere è enorme. Di più, Makarenko ci ha insegnato due cose importanti: il senso di responsabilità individuale è un valore supremo, ma che deve fare variamente i conti con il “collettivo” e diventare, quindi, senso di corresponsabilità. Il presente si alimenta di “futuro”, di “gioia del domani”, di “prospettiva”: il che vuol dire che, oggi come oggi, nel presente, nessuno può essere moralmente soddisfatto di se stesso. Tuttavia, dobbiamo convivere con le nostre contraddizioni, con le nostre insufficienze e deficienze, deficienze morali per l’appunto… Fare quello che ci riesce, pur nei nostri limiti umani, nella direzione di un “dover essere” insoddisfatto.

3) Nel “Poema pedagogico” si parla della possibilità di trasformare un handicap in una risorsa, è davvero possibile trarre del vantaggio da una situazione disagiata?

 Più che parlare di handicap che diventa risorsa, Makarenko rappresenta la vicenda di una situazione umana di “deficienza morale” che si trasforma nel suo opposto: in un’altissima proposta morale. La cosa più importante è questa: la risorsa non riguarda soltanto il deficiente morale, l’handicappato sociale in quanto tale, ma tutti: soprattutto chi handicappato non sembra essere. In altre parole, la straordinarietà della proposta di Makarenko consiste nel fatto di lavorare a più livelli. Da un lato, per il recupero degli svantaggiati morali, per il loro inserimento nella società; da un altro lato, in funzione della formazione di “uomini nuovi”: uomini-pilota, uomini-modello, uomini-esperimento, che esperimentano valori morali e sociali inediti. Valori morali e sociali più alti, rispetto a quelli di senso comune. Pertanto, i ragazzi delle colonie di rieducazione dirette da Makarenko, nell’attingere per se stessi ad una umanità “altra”, finiscono per elaborare un modo inedito di essere uomini, di cui tutti possono giovarsi. Gli ultimi diventano i primi. Il negativo dell’esistenza è la condizione necessaria per concretizzare una positività prima inesistente. La deficienza morale di alcuni rimane alle spalle, trasformandosi in risorsa morale per tutti. Il passato dei ragazzi si azzera di fronte al futuro che ne prende il posto.

4) Al giorno d’oggi, l’handicap fisico può rappresentare davvero una risorsa per la famiglia, per le Istituzioni e finalmente per la società?

 Quando si parla di esseri umani, è impossibile separare nettamente gli aspetti fisici dalla unicità complessiva della persona: intelligenza, bontà, motivi estetici, generosità, equilibrio, senso pratico, progettualità, volontà, capacità di socializzazione, senso degli altri, competenze tecniche. Tutte qualità che non solo “riducono” l’handicap, ma anche e soprattutto fondano risorse. D’altra parte, non si può parlare di handicap in maniera indifferenziata: c’è handicap e handicap; ci sono combinazioni infinite tra questo specifico handicap e le altre qualità della persona; c’è la determinazione del soggetto che può promuovere un esito piuttosto che un altro; c’è il grado di cultura che ciascun portatore di handicap riesce a raggiungere, a decidere dove stare, come collocarsi in mezzo agli altri, quale risorsa rappresentare per sé e per il prossimo.

Voglio dire, in altre parole, che rispetto alle entità collettive che sono la famiglia, la scuola, la società, l’individuo con handicap vale esattamente quanto un individuo senza (apparenti) limitazioni. Tutto sta nel riuscire a fare o tendere a fare la “cosa giusta”; nel riuscire a “farsi valere” come quello o quella che fa e farà la cosa “più” giusta, la cosa “migliore”, la cosa più “apprezzabile”, la cosa “che gli altri non sanno fare”, la “cosa-risorsa” non solo per se stessi, ma per tutti.

Di qui la necessità, per così dire, di educarsi agli altri; di curare il proprio “io”, in funzione di un criterio di retroattività dialogica, cooperativa, sociale, ai limiti delle proprie possibilità umane complessive. Insisto su questo: se una persona è convinta in se stessa di quello che positivamente fa, prima o poi, finirà con l’imporre se stessa anche agli altri (a casa propria, a scuola, nella società); e ad imporlo come qualcosa di necessario, di indispensabile e, per l’appunto, come una insostituibile risorsa.

5) Negli ultimi anni il vocabolario italiano ha inserito il termine “diversamente abile” come possibile sostituzione al termine “handicappato”. Secondo lei, quale vocabolo si addice di più ad una persona che ha un problema motorio e verbale?

 Ma è proprio necessario legare qualcuno ad una parola? Non c’è il rischio che “questa” o “quella” parola siano inadeguate a connotare la complessità e la mutevolezza di una condizione psico-fisica? Definendo isolatamente l’elemento fisico, non finiremmo col deprivarlo di ciò che caratterizza unitariamente l’intera personalità umana che abbiamo di fronte, e, dunque, con dare ad esso un “credito” assoluto che non ha? Non è meglio spostare tutto il ragionamento, e le parole che ne conseguono, verso l’“abilità” tout court, quale che sia: blogger, giornalista, scrittore-scrittrice, attore-attrice, regista, operatore-operatrice culturale, insegnante, direttore-direttrice di un’istituzione?

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