CONFIDENZE DI UN’ALLIEVA SCRITTRICE

Cara Maria,

ho letto il suo memorandum (nota autobiografica e appunto di lavoro), e l’ho trovato molto interessante e ricco di spunti di riflessione. Pagine davvero molto istruttive anche per me, come radiografia dell’«individuale» ed ecografia del «familiare» e del «sociale», scuola compresa. Anche se è la famiglia il primo motivo poetico, meglio poematico, della sua narrazione. Makarenko docet. Infatti, mi sono venuti subito in mente i suoi ottimi rapporti col Poema pedagogico. Come se lei con il romanzo, in un modo o nell’altro, fosse in debito per qualcosa di più che per due esami universitari di Pedagogia generale. Quanto al risultato letterario, non avrei dubbi. Apprezzabile così com’è: un po’ saggetto narrativo, un po’ esercizio morale. Un repertorio di fatti, sentimenti, idee, concernente insieme le dimensioni del «personale» e dell’«interpersonale», e dunque gli ambiti del formativo, dell’educativo. E questo, mediante l’effettiva capacità che lei ha di raccontare di sé, trasferendo l’esperienza soggettiva della differenza in un prontuario di elementare nuova umanità, che aiuta a crescere anche chi legge. Altro che Nulla di utile! Alquanto indispensabile, direi invece. Perché ci racconta della particolare diversità della singola persona, come ingresso ad una generalizzabile diversa uguaglianza di più alto profilo. Quasi a voler dire: a me una volta è successo questo e quest’altro di singolare; vediamo quindi, adesso, cosa fare di ulteriormente «altro». Cosa fare pertanto di differente, anche nel senso di opposto ad indifferente, a noncurante, negligente, disinteressato? Capace di coinvolgerci, al contrario, in un’azione davvero importante, significativa, eminente? Ecco perché mi è venuta voglia di scriverle. E non tanto per dirle semplicemente bene!, brava! – quanto per chiederle e adesso? e dopo? Come vincere, cioè, lo sgomento della sproporzione che persiste, tra una battaglia vinta e tutte le guerre che restano da combattere? Come fare di necessità virtù, per se stessi, per gli altri? Non è per l’appunto la differenza l’elemento discriminante dell’«umanamente nuovo»? Zadorov ritorna a sorridere degli schiaffi ricevuti… Come vede, la trattengo ancora nel clima «antipedagogico» dei due semestri di lavoro universitario comune su Makarenko e dintorni… Però se l’è voluta lei: per avermi indotto a leggerla, suggerendomi l’idea che tra la forma autobiografica del Poema pedagogico romanzo di formazione ed il «racconto d’infanzia» di Maria vi possa essere un qualche nesso. Una specie di «gioco» tra letteratura, pedagogia e vita. Una certa familiarità. Scherzi della prospettiva, probabilmente, di cui i makarenkologi sono ghiotti. Scherzi del collettivo e del senso di responsabilità e di corresponsabilità. Scherzi dei besprizorniki «moralmente deficienti» che, facendosi «uomini nuovi», sembrano quasi voler transitare dal Poema pedagogico nei nostri stessi progetti educativi ed autoeducativi. In altre parole, ciò che più mi piace del suo scritto è questa sorta di humour makarenkiano che – fatte salve le differenze – mi pare di ritrovare, da un lato, nella sua raggiunta capacità di esorcizzare il «negativo», e, da un altro lato, nell’attitudine ad attingere elementi formativi, che Makarenko potrebbe forse riconoscere come fattori di «stile». Parola magica, questa dello stile, che – come lei sa bene -, viene a riassumere le due facce in cui, tra scrittura ed educazione, l’opera di Makarenko (pisatel’ e pedagog) organicamente consiste. Ma dovremo riparlarne ancora tra di noi: e proprio a partire dagli esiti riconoscibili della lezione makarenkiana. Perché lei, in questo senso, è un’allieva che sarebbe certo piaciuta al vecchio Anton. Il quale, se avesse potuto apprezzarla per le sue qualità di scrittrice, le avrebbe subito affidato il comando di un bel reparto: magari di un «misto d’avanguardia», con il compito della realizzazione individuale-collettiva di una qualche «scrittura creativa» a fini ulteriormente pedagogici. E letterari. Che gliene pare? Le dico di più: che il circolo pedagogia-letteratura, in quanto tende a condensarsi in un esito stilisticamente significativo, non è solo l’effetto di un’azione formativa precedente, ma è anche l’avvio di ulteriori metamorfosi educative e addirittura la prova provata dell’educabilità umana. Con tutti i rischi che l’impresa comporta. In famiglia e fuori. E lei, Maria, nel continuare a raccontare le sue storie, potrà confermarlo.

Auguri affettuosi di buon lavoro, dal suo

Nicola Siciliani de Cumis
PS. Ho ricevuto il suo commento ai miei due scritti precedenti apparsi in questa rubrica, e la ringrazio dell’attenzione. Le sue osservazioni risultano appropriate. Tuttavia sarei del parere che, nella graduatoria dei valori «familiari» espressi nel testamento di Emilio Colosimo, quello relativo all’unità della proprietà e del maggiorascato occupi un posto privilegiato, forse il primo posto. Il che non toglie che, per lui, la famiglia «sia tutto»; ma lo è nel quadro della sua concezione del mondo di proprietario, e all’interno, per l’appunto, dei suoi valori economico-sociali. 

Sella Marina (Catanzaro), agosto 2003

NULLA DI UTILE

Quando ero piccola tutti mi dicevano che ero uguale agli altri bambini, poi crescendo mi è venuto qualche dubbio. Adesso mi domando quand’è che ho cominciato a capire che avevo qualcosa che mi «distingueva» dagli altri, qualcosa che non gli permetteva di accettarmi, li metteva a disagio. Non a tutti si intende, ma già dal modo in cui la gente si avvicinava a me riuscivo subito a distinguere se una persona era sensibile, senza pregiudizi e senza imbarazzi, oppure no. Forse percepivo questo fin dall’asilo, visto che i miei primi ricordi risalgono a quegli anni, forse da molto, molto tempo prima, quando osservavo gli altri bambini sgambettare dall’interno dell’incubatrice. O forse l’avevo già intuito quando mi trovavo nella pancia di mia madre e avevo tutta quella fretta di uscire e tutta quella paura, non potevo non aver paura, «qui sono al sicuro», devo aver pensato. Non volevo ritrovarmi in un mondo troppo grande per me, troppo rumoroso, pieno di doveri e regole da rispettare. Dove tutti corrono e poche persone hanno tempo e voglia di aiutare chi resta indietro. «La nascita è un cambiamento troppo grande per me», devo essermi detta, e io ho sempre temuto i cambiamenti. Non so dire quando ho intuito che avevo qualcosa di «diverso», ma so che la consapevolezza della mia diversità l’ho acquisita piano piano, crescendo, sentendo gli altri bambini che di nascosto ridevano e parlavano di me e dicevano «guarda i suoi scarabocchi». O quando rimanevo seduta ad osservare tutti gli altri muoversi, bambini che correvano, dispettosi e allegri, saltavano, salivano e scendevano dagli alberi, dalle altalene, dai muretti alti, ogni giorno sempre più alti. E poi c’erano i grandi che sempre dovevano andare da qualche parte, sempre avevano qualcuno da chiamare, da andare a cercare, qualcun altro con cui stare. Non capivo perché avessero bisogno di muoversi tanto. Forse sto meglio io, non mi stanco come loro, posso giocare qui per terra, potrei giocare qui in ginocchio per interi pomeriggi. Mi dicevo questo e non pensavo a quello che mi mancava. Quando avevo pochi mesi giocavo per terra con i miei coetanei: è normale, tutti i bambini giocano per terra, tutti i bambini iniziano giocando per terra. Poi, un giorno, gli altri hanno prima cominciato a gattonare e dopo, piano piano, ad alzarsi in piedi, come i grandi. Decisi di provare anch’io, sembrava facile, ginocchia sul pavimento, mani giù per terra, guardare avanti, facile come è facile per tutti, ma io non ci riuscivo. Mi chiedevo come mai, visto che mi sentivo uguale a loro. Forse non ero abbastanza grande, forse non ero abbastanza uguale? Venivo invitata alle feste. Mamma mi comprava dei vestiti «eleganti» che sceglieva lei, mi preparava e mi ci portava: i medici le avevano spiegato che mi faceva bene stare in mezzo alla gente perché avevo bisogno di «essere stimolata», dicevano. Io speravo solo di divertirmi, ma non sempre succedeva, non succedeva quasi mai in effetti. Anche dopo, da grande, andavo alle feste perché lo facevano tutti, ma non mi divertivo. L’euforia dell’attesa svaniva subito lasciandomi annoiata e delusa. Credevo che andare alle feste fosse un modo per essere uguale agli altri, sentirmi uguale a loro, o diventare come loro. In realtà, più mi sforzavo, più mi rendevo conto di essere diversa, e non era solo una diversità fisica, c’era dell’altro. Per anni ho cercato di capire cosa fosse, ero io che mi escludevo dagli altri o erano loro che mi escludevano? Ero io che non li capivo o erano loro che non capivano me? Più mi sforzavo di avvicinarmi e più mi sentivo lontana, più cercavo una risposta, più una risposta non c’era. La colpa, però, la colpa mi sembrava soltanto mia. Da piccola, dunque, giocavo per terra con tutti, poi però i giochi si sono fatti sempre più complessi, bisognava muoversi sempre meglio, correre, saltare, strisciare per terra. Facevano dei giochi di squadra, delle staffette, mentre io rimanevo seduta in braccio a mamma. So che per lei non è stato facile tutto questo, forse è stato più difficile per lei che per me. Non lo so, io non me lo ricordo, ma lei sì. È stata lei a dirmi che lo faceva per me, per aiutarmi, ma le pesava stare insieme alle altre mamme a guardare i loro bambini. Dagli anni dell’asilo in poi, ho soprattutto ricordi legati a medici e fisioterapisti, ma non ne parlo più e non intendo parlarne neanche ora: mi c’è voluto tanto tempo e tanta fatica per accantonarli e adesso che ci sono riuscita non voglio assolutamente tirarli fuori. A ricordarli oggi, gli anni dell’asilo sono stati quelli in cui ho semplicemente e disperatamente desiderato gattonare. Mamma, nonna, i medici che mi seguivano, non si accontentava nessuno: volevano tutti vedermi camminare. Io volevo solo spostarmi in qualche maniera, ma capivo che per loro non era sufficiente: dovevo camminare. Era un’ossessione, più mi impegnavo per riuscirci più diventava faticoso. «Non voglio camminare, voglio solo muovermi a carponi», mi dicevo. Più gli adulti insistevano per farmi camminare, più io desideravo gattonare e non capivo perché mi chiedevano di fare una fatica che mi sembrava enorme, al di sopra delle mie forze. In verità osservavo con invidia gli altri bambini che si rincorrevano nel cortile della scuola, mi sembrava assurdo ed ingiusto che io non potessi fare quei giochi. Mentre correvano sembravano così soddisfatti, era la cosa più naturale del mondo, correre. Adesso sono grande, ho studiato, ho letto dei libri. Ho studiato che il gioco è l’attività più importate che un bambino possa fare, è uno «strumento» che gli permette di sviluppare la propria curiosità, conoscere, interagire col mondo che lo circonda e con gli altri. I bambini per crescere ed arricchirsi devono giocare: questo mi hanno insegnato i libri. Nessuno ci insegna a giocare: è l’attività che tutti fanno spontaneamente, dicono i libri, in qualsiasi paese del mondo i bambini giocano, dicono i libri, in modi diversi secondo gli usi e costumi dei popoli, dicono i libri. Se il bambino vede un adulto che va a caccia o raccoglie dei frutti, lui gioca ad imitarlo, dicono i libri: così facendo imparerà delle attività che gli serviranno da grande. Tutto questo lo dicono i libri e «questo meccanismo non varia col passare dei secoli». Questo meccanismo è «uguale per tutti». Non posso dire di non aver giocato, ma è stato diverso, ho solo avuto meno tempo e meno possibilità. Pensare che quando si cresce si debbano studiare sui libri dei comportamenti spontanei mi fa uno strano effetto. Adesso studio il gioco in tutte le sue forme e funzioni, e da piccola non ho potuto giocare perché dovevo «crescere e migliorarmi». A proposito di miglioramenti, ricordo una suora che mi diceva sempre: «Volere è potere». Dentro di me pensavo «ti sbagli. Io vorrei tanto camminare bene, ma non ci riesco e non ne so il motivo». Non sopportavo la sua affermazione, era sbagliata. Ma non avevo il coraggio di dirglielo in faccia, così mi limitavo a pensarlo. La cosa peggiore era che non riuscivo a farmene una ragione: nessuno mi aveva spiegato il motivo dei miei problemi. Mamma e nonna parlavano tra loro per ore interminabili, usando termini a me sconosciuti. E poi si andava dal dottore, dallo «specialista», da chi avrebbe dovuto risolverli, quei problemi. Io, in genere, mi annoiavo e non capivo. Capivo che parlavano di me, questo sì, ma anche il medico parlava quella loro lingua fatta di termini sconosciuti. Capivo anche che a quel dottore chiedevano di aiutarmi a camminare proprio come l’avevano chiesto a un’infinità di medici prima di lui e come avrebbero fatto con altrettanti dopo. «Facciamola camminare», dicevano. Per quanto riguarda me, quando finalmente sono riuscita a gattonare, mi sono sentita già soddisfatta. Potevo difendermi da tutti quegli adulti che mi chiedevano troppo, così appena non mi vedevano mi mettevo per terra e mi spostavo a carponi. Mi piaceva stare a terra. Trascorrevo tantissime ore a giocare in ginocchio appena rimanevo da sola, senza qualche fisioterapista che mi perseguitava con i suoi esercizi. Se poi mi dovevo spostare per casa, lo facevo gattonando: avevo imparato bene e ne ero fiera. Ancora oggi ho le ginocchia segnate da quei lunghi tragitti. Penso che negare le differenze non sia un’arma per combatterle: mi facevano terribilmente arrabbiare tutte quelle persone che si ostinavano a ripetermi che non esisteva nessuna differenza tra me e i miei coetanei. Avrei voluto dirgli «ma non capite… allora spiegatemelo voi perché non posso fare tante cose che le altre persone fanno normalmente. Come fate a dire che le mie differenze non esistono…». Oggi capisco che tutte quelle persone che mi ripetevano che ero una bambina assolutamente «normale», lo facevano a fin di bene. Allora, però, mi sembrava che nessuno riuscisse a comprendere gli sforzi che facevo per fare cose «normali», della vita di tutti i giorni. Avrei voluto che qualcuno riconoscesse il mio impegno e le mie difficoltà, invece mi sembrava che ogni giorno dovessi impegnarmi al massimo per ottenere qualche cosa, e nessuno se ne rendeva conto. Più la gente mi diceva che ero normale, più mi sentivo esclusa dalla «loro» classificazione di normalità. Ho sempre ritenuto la «normalità» un concetto astratto. Che cosa è normale? Niente. Chi è normale? Nessuno. Negavo la normalità, forse, per legittima difesa. Un mio compagno di scuola era balbuziente, Luca. A ricreazione giocavamo a nascondino e Luca riusciva sempre a fare «tana libera tutti» che in questo gioco significa che l’ultimo che arriva alla tana può liberare quelli che sono stati catturati. Lui era molto più bravo di me. Per questo era il primo ad essere invitato a giocare, mentre per me c’era la maestra di sostegno che diceva agli altri bambini: «Aspettate, gioca anche Maria» e mi aiutava a correre. Giocavo con tutti gli altri, ma capivo che il mio modo impacciato di correre faceva ridere. Volevo giocare e divertimi ma c’era sempre chi arrivava alla «tana» prima di me. Avevamo tutti e due dei problemi, ma per lui era più facile farsi accettare, perché correva veloce. Luca è stato solo il primo di una lunga lista di persone più brave di me. Io sapevo che i miei compagni di classe non erano così bravi come sembravano, perché erano facilitati: loro non facevano molta fatica nel fare le cose, io lo sapevo, ma il fatto di saperlo non mi ha mai consolata più di tanto. Se giocare a nascondino non è mai stato il mio forte, Luca non riusciva molto bene nella lettura ad alta voce: quando leggeva s’inceppava su una parola o su una frase intera e i nostri compagni scoppiavano a ridere. Mi dispiaceva che lo prendessero in giro proprio quando si trovava in difficoltà, ma in un certo senso eravamo pari. Comunque mi sembrava che, nonostante ciò, lui avesse meno problemi nel farsi accettare dai coetanei ma anche dagli adulti. Forse la gente non considera la balbuzie un problema vero e proprio, una netta differenza, un handicap che la infastidisce; ma quando la cosa diventa un po’ più complicata, la gente tende a difendersi e ad allontanare il problema. Per me era un problema anche scrivere, così fin dall’asilo cominciai ad avere dei compiti. Dovevo riempire intere pagine di quaderno prima con dei segmenti e poi con delle lettere. Trascorrevo gran parte della mattinata a tentare di scrivere, poi il pomeriggio veniva un fisioterapista a casa e mi faceva fare altri esercizi preparatori per la scrittura. Nella mia stanza c’era una scrivania bassa, di legno, con delle sporgenze fatte a posta per farmi appoggiare i gomiti, quelle sporgenze mi incastravano, non potevo scappare. Quando gli adulti non mi vedevano tentavo di svitare le viti: pensavo che se fossi riuscita a distruggere quel tavolo nessuno mi avrebbe costretta a «studiare». Posso dire di avere cominciato a studiare prima ancora di andare a scuola e lo dovevo fare sempre. Anche in vacanza veniva la fisioterapista. La mattina ci mettevamo sulla veranda io e lei. Mamma non ci disturbava, sapeva che dovevo esercitarmi, lo sapevo anch’io. Non mi dovevo distrarre, non mi potevo distrarre, dovevamo essere sole io e la fisioterapista. Ricordo che un giorno iniziai a giocare con un fazzoletto, lei me lo tolse dalle mani esclamando: «anche con questo ti distrai». Un’altra volta avevo appena aperto il libro quando sentii al di là della siepe mia cugina gridare: «mamma, sono pronta, andiamo al mare». Non era giusto, pensai, anch’io volevo andare in spiaggia con mia madre, invece non potevo muovermi, dovevo rimanere li seduta a esercitarmi nella scrittura. Gli adulti riuscivano a farmi fare sempre quello che dicevano loro, ma nessuno poteva impedirmi di viaggiare con la fantasia. Quel giorno cominciai ad immaginare mia cugina in spiaggia, si divertiva, incontrava i nostri amici e costruivano con la sabbia una pista per le biglie, poi facevano una partita tutti insieme, e alla fine facevano il bagno, si schizzavano ed erano felici. Sapevo che per loro era così e desideravo stare anch’io tutto il giorno lì. Avrei giocato con i miei amici, avrei fatto quello che facevano tutti gli altri bambini, volevo solo andare al mare e non avere orari proprio come non li aveva mia cugina. Non mi sembrava giusto che la mia giornata fosse scandita dai doveri anche in vacanza. Ogni inverno aspettavo l’estate per essere finalmente libera e poi l’estate arrivava e con lei la fisioterapista e tutto il resto. Oggi capisco che dovevo tenermi in allenamento tutto l’anno, ma all’asilo tutto questo mi sembrava una condanna. Dovevo imparare a scrivere perché qualche dottore aveva detto che avrei avuto difficoltà, mentre per leggere avrei rispettato i tempi di tutti i bambini. Mi piacerebbe incontrarlo adesso e dirgli che poteva anche risparmiarmi tutti quegli esercizi perché ormai uso il computer, la mia grafia non è molto chiara nonostante gli esercizi, mentre ho molte difficoltà nella lettura. Anche se all’asilo facevo fatica a scrivere, dall’elementari in poi mi è sempre piaciuto: riuscivo ad esprimermi scrivendo. Da piccola gli unici compiti che riuscivo a fare bene e che facevo quasi con piacere erano i temi. In quel periodo però, non avrei mai immaginato che per me la scrittura sarebbe diventata una passione, una sorta di unico appiglio nei momenti più difficili della vita. Ho deciso di cominciare a scrivere su un quaderno per raccontare i momenti più importanti della mia vita, quelli che non volevo assolutamente dimenticare. Era l’autunno del 1994. L’idea mi è nata dopo la morte di Roby, quando mamma ha spiegato che Roby se n’era andato in cielo e che non l’avremmo più rivisto. Io avevo bisogno di non dimenticare nulla, così ho cominciato a scrivere per trattenere tutti i minimi dettagli. Roby non c’era più, questo è il fatto. Ma io conservo ricordi dentro di me e li scrivo sulla carta, in modo che non sbiadiscano con il tempo che passa. In questi ultimi tre anni sono cresciuta ed è cresciuta anche la consapevolezza che è tramite il dolore che diventiamo grandi. Quando Roby era vivo mi raccontava che in America esistono i teen-agers; prima sei considerato un bambino e poi diventi teen-ager. Diventi adolescente e cominciano le cose piccole, ma importantissime, dell’adolescenza: le uscite il sabato, gli amici, i primi flirt. Io sono arrivata a tredici anni e ho capito che non era vero niente. Sì, ho fatto delle cose da teen-ager, ma si contano sulle dita di una mano. Per me, ad esempio, il sabato è un giorno come gli altri, mentre per tutti i miei coetanei il sabato pomeriggio è il pomeriggio in cui si esce e ci si diverte. È il momento più atteso della settimana, per il quale ci si organizza dal lunedì precedente facendo una serie infinita di telefonate agli amici. Vi posso assicurare che è veramente triste rimanere a casa da sola e sapere che tutti i tuoi amici escono in gruppo, vanno a ballare e si vanno a divertire. Quando i miei amici cominciavano ad uscire io tentavo di unirmi al gruppo: facevo telefonate, cercavo di organizzare io le uscite, tentavo di lanciare idee che a me sembravano divertenti… ma i risultati erano a dir poco catastrofici. Non riuscivo ad rassegnarmi all’idea: non vedevo nessun motivo valido per questo isolamento forzato. Sono arrivata al punto di odiare queste quattro mura di casa mia. Volevo uscire da questa prigione. Avevo la stessa voglia di divertimi dei miei coetanei, e proprio non riuscivo a capire perché non avessi lo stesso diritto di godermi la mia età. Come la vogliamo chiamare questa «adolescenza»? Ti fai dei bei castelli in aria e poi ti crollano addosso. Teen-ager. In quegli anni trascorrevo interminabili pomeriggi in casa e scrivevo: era l’unica cosa che potevo fare senza l’aiuto di nessuno. Non potevo uscire da sola, tutti i pomeriggi veniva o la fisioterapista o qualche ragazza che mi faceva studiare. Non ero autonoma ed avevo molto tempo libero tra una cosa e l’altra; tempo in cui mi annoiavo, mi sentivo in colpa perché non facevo nulla di utile e mi deprimevo, quindi colmavo quei vuoti scrivendo. Sapevo che i miei amici trascorrevano i pomeriggi in modo diverso, ma facevo finta di non pensarci. Scrivere mi aiutava a non sentirmi inutile. Mi faceva compagnia. Ho sempre avuto paura della solitudine, ma ancora di più della noia. È la noia che porta la depressione, l’assenza di attività, la monotonia, la ripetizione del nulla. Per me era una vergogna, il mio peccato più grave: gli adulti mi hanno sempre richiesto tanto impegno e costanza e quando trascorrevo del tempo senza far niente era come se non mi sforzassi per migliorare. E questo non mi era permesso. Però potevo scrivere e ho imparato a farlo da sola. Non ho ancora capito cosa sto scrivendo, forse la mia autobiografia o forse solo qualche appunto che rimarrà in un file del mio computer; ma penso che per capire uno debba guardarsi bene dentro, pensando al futuro senza dimenticare mai il proprio passato. Per questo, forse, è meglio cominciare a raccontare tutto dall’inizio, cercando di mettere in ordine quei ricordi che si accalcano nella mia memoria come la gente che fa ressa all’uscita di un brutto film.

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