Gli apprezzamenti dei personaggi “famosi” a Nata viva

Fausto Bertinotti,  Massimo Gramellini, la Tamaro, Mattarella, Papa Francesco, Marco Masini e Cannavacciuolo hanno apprezzato “Nata viva”!

Ecco alcune testimonianze:

“La ringrazio per l’invio del libro e per l’interesse che ha voluto dimostrarmi. Molto cordialmente Fausto Bertinotti“.

 

“Gentile Dottoressa Castiglione Humani, ringrazio Lei e Zoe per il libro: una storia che poteva essere pesante ed invece scorre leggera. Un’autentica spremuta di cuore. Grazie! Massimo Gramellini“.

“Cara Zoe, che bella cosa che mi scrivi! Comprerò la tua autobiografia e la leggerò con piacere. Sei una ragazza coraggiosa e ti auguro tutto il successo che meriti. Un caro saluto, Susanna Tamaro“.

Ed infine c’è la lettera di Cannavacciuolo:

“Cara Marzia, voglio ringraziarti per avermi scritto e per avermi raccontato di te attraverso il cortometraggio che hai realizzato. La tua storia mi ha colpito perché è la storia di una donna forte che ha lottato e che lotta per i suoi diritti e per le sue passioni.

Sono proprio le persone come te quelle che secondo me hanno tanto da insegnare, perché troppo spesso anche nel mio lavoro incontro ragazzi che pretendono senza volersi sacrificare, che non lottano per seguire i loro sogni.

Leggerò molto volentieri il tuo romanzo e credo che tutti dovrebbero leggerlo per trarne un insegnamento importante.

Vorrei contraccambiare mandandoti il mio libro “Pure tu vuoi fare lo Chef?” dove ho voluto raccontare un po’ la mia storia e la mia filosofia da Chef.

Se mi farai avere il tuo indirizzo te lo farò spedire il prima possibile.

Tu puoi spedire il tuo all’attenzione della mia assistente:

(…)

Ti mando un grande abbraccio. Antonino Cannavacciolo”

E dopo qualche giorno è arrivato il libro dello chef con dedica:

“Cara Marzia, la tua forza è una scuola di vita per tutti i giovani che  lottano per i loro sogni. Con affetto Antonino”.

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Genitori di ragazzi “speciali”: un’occasione per essere utili e fare rete

Quante associazioni conosco di genitori con figli disabili: “l’Associazione Risveglio onlus, Oltre lo Sguardo Onlus, l’Associazione figli inabili, Fede e Luce, Genitori tosti, A.ge.di: Associazione genitori di bambini ed adulti disabili…” Nate tutte dall’esigenza di non sentirsi soli con la propria storia e darsi da fare.

L’Associazione Risveglio Onlus, prende vita dalla speranza che da un brutto incidente automobilistico potesse derivare una rinascita per la famiglia colpita e per molte altre famiglie. Così con costanza e tenacia la storia non è rimasta nell’ambito domestico. È stato creato il Centro Adelphi, un centro diurno di neuro-riabilitazione integrata di eccellenza e Casa Iride: un nuovo modello sociale unico in Europa, per le persone delle fasi di coma e post-coma.

Di recente ho partecipato alla messa a vent’anni dell’incidente stradale. È stato emozionante sentire le parole del padre del ragazzo che è rimasto disabile dopo un periodo di coma, periodo nel quale quel padre si è chiesto cosa vuole il signore da me? Ecco la risposta appare chiara oggi vedendo i progressi del ragazzo e la nascita dell’associazione e dei due centri all’avanguardia.

Il padre, nel suo toccante discorso ha ringraziato i tanti amici che gli stanno accanto ed il figlio che continua ad insegnargli molto. Concetti semplici, ma che ricordano che anche noi dis-abili possiamo insegnare qualcosa, che non siamo solo la somma di brutti ricordi e di esperienze da non ripetere. Anche l’amicizia   è stata esaltata, una cosa semplice ma che spesso viene dopo la fretta, il lavoro, i vari doveri, il successo, il non rimanere per ultimo e tagliato fuori.

L’esempio dell’Associazione Risveglio Onlus non è l’unico nel suo genere,  i genitori di figli disabili sono tanti, a volte si diventa disabili e la famiglia si trasforma altre volte la vita può essere contrassegnata fin dalla sua origine. A questo proposito riporto le parole di un articolo pubblicato sul sito dell’associazione Guarda con il Cuore Onlus: “La nascita di un figlio disabile lascia sempre una traccia e un senso di colpa. Magari a livello inconscio, ma pur presente. E questo condiziona l’atteggiamento di noi genitori nei confronti del piccolo”.  Detto ciò non è raro che i sensi di colpa e di inadeguatezza, passino da una generazione all’altra.

Nello stesso articolo, Michelle Diament noto giornalista americano, fratello di una persona con handicap, afferma che: “il modo con cui i genitori interagiscono ed educano i loro bambini disabili è direttamente legato a quanto poi questi saranno indipendenti, ma anche capaci di relazionarsi con gli altri, nella loro vita futura. In una analisi comparata degli studi esistenti che analizzano l’influenza della genitorialità sui bambini con bisogni speciali, i ricercatori hanno scoperto che quando le mamme e i papà adottano uno stile genitoriale positivo, i loro bambini acquistano più facilmente una maggiore indipendenza, facilità di esprimere emozioni e un temperamento più aperto.”

Certo non è semplice per nessuno crearsi una propria indipendenza, non avere rimpianti, non dare la colpa a qualcuno o semplicemente al fato per una serie di disgrazie, ma c’è chi trova la forza, l’interesse, sente la missione di fare qualcosa per se e per gli altri e chi questi interessi ed esigenze proprio non li sente.

La mamma di una bambina disabile si definisce felice anche se racconta: “mia figlia avrà sempre bisogno di me perché da sola non può fare nulla. Sono le sue gambe, le sue braccia e il suo pensiero. Sono la mamma di una bambina eternamente piccola ma con un corpo che la farà diventare adolescente e poi donna.

Ogni fase della crescita non è altro che un crudele segnale dei progressi che lei non ha raggiunto, non ha imparato a camminare, a parlare, a mangiare e non lo farà mai.

La mia bimba rimane piccola ma è grande e cambiare il pannolino a una ragazza non è la stessa cosa che farlo a chi ha le dimensioni di un neonato e sai che prima o poi non ne avrà più bisogno. (…)”.

A volte vedo più serenità di fronte ad una disabilità molto accentuata e ciò mi sembra un ossimoro, una cosa che nella sua complessità ha dell’enigmatico.

Oggi nell’era delle reti, dove abbondano le associazioni, i siti, i gruppi di sostegno… per persone e famiglie con bisogni speciali, dove ci sono  molti psicologi, medici e personale preparato per aiutare l’intero nucleo famigliare… è triste vedere la solitudine, il distacco, il disinteresse di quei genitori che si sentono le maggiori vittime anche nel confronto con le situazioni degli altri…  e si leccano le ferite senza riuscire ad affrontare le situazioni per essere d’aiuto a se stessi (prima di tutto) ed agli altri.

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Indivisibili, ma libere

sorelle

Il film Indivisibili di Edoardo De Angelis, con Marianna Fontana, Angela Fontana, Antonia Truppo, Massimiliano Rossi, Toni Laudadio è ispirato a due gemelle siamesi realmente vissute tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti, nella prima metà del 900.

Daisy e Viola invece sono nate a Castelvolturno. Unite fin dalla nascita all’altezza del bacino, non hanno organi in comune. Un’altra prerogativa le distingue dagli altri: le loro voci neomelodiche le fanno esibire ad ogni cerimonia del paese e dintorni, tanto da creare due star. Due persone quasi sante già in vita, in quanto toccare la loro menomazione, il loro punto di giuntura sembra di buon auspicio.

Le vicende narrate si snodano quando le due ragazze hanno compiuto la maggior età. Gli equilibri, sino a quel momento, si basavano sulle esibizioni delle gemelle come se fossero un fenomeno da baraccone. Ma che succede quando un medico dice loro che può dividerle? Ecco sulla scena rappresentato il profondo legame di due sorelle, sole di fronte alla possibilità di una vita normale. Per entrambe in fondo, ma apparentemente per una  più dell’altra, il desiderio di normalità è forte, la voglia  di magiare un gelato, viaggiare, ballare, bere vino senza temere che l’altra si ubriachi… fare l’amore. “Perché sono femmina”.

Nella realtà famigliare e sociale delle due protagoniste, come spesso avviene con le persone disabili, ruotano personaggi diversi con connotazioni molto forti, a tratti magistralmente esasperati in un crescendo  di patos. Il padre pieno di sensi di colpa che ripete, a se stesso e alla famiglia di volerle bene e di voler il massimo per le figlie. La madre che non riesce a proteggerle dal padre ma scappa… Gli zii che escono dal quadro famigliare, si dissociano dall’andarle a cercare e riportarle a casa quando le sorelle fuggono… Il parroco del paese che trova nell’handicap fisico un pretesto per ammaliare  le folle di fedeli e tenerle vicine ad una chiesa che si basa sui simboli.

Quante volte queste dinamiche famigliari si mettono in atto più o meno coscientemente di fronte al diverso, alla persona che risulta errata; per fortuna spesso sono proprio le sorelle ad accettarsi ed aiutarsi vicendevolmente. Forse il legame tra sorelle disabili e normali esula dal senso di colpa che troppo spesso, invade e si dilaga nei genitori, nei parenti e nel disabile stesso, come se fosse  indispensabile  dimostrare di essere bravo e adoperarsi, anche davanti ad un palese senso di rifiuto e di negazione.

Nel loro viaggio, le gemelle, ormai sole e presenti una per l’altra, chiederanno aiuto a persone poco raccomandabili. Veritiera la loro ingenuità, per due persone che fino a diciotto anni non hanno avuto neanche il cellulare, che si trasformerà in forza per entrambe.

Ma di chi si possono fidare? Daisy si vuole dividere, il motivo è semplice e veritiero, si innamora di un uomo che lavora in ambito musicale e le promette chissà cosa fin quando non si svela per quello che è realmente. La sorella più debole fino a quel momento, diventa la più forte salvando entrambe le ragazze. Ecco due facce della stessa medaglia che si sovrappongono, si scambiano i ruoli,  si rendono conto dei pericoli che ci sono fuori. 

La conquista della libertà però si rileva più complessa di come Daisy e Viola si aspettano, la corsa le sfianca e le ragazze sembrano ricadere nella rete del padre e del parroco, che le riportano a casa. Le due sorelle ancora fisicamente unite, sono in balia del padre sopraffatto dalla rete da lui stesso costruita per non perdere le ragazze e sfruttare al meglio le loro doti. La madre delle ragazze lo ha abbandonato, e lui  è l’unico rimasto per loro e con loro. Le prepara e le porta in processione, ma la crescita e il desiderio di libertà e normalità non può essere messo in trappola.

La pellicola dura 100 minuti durante i quali, lo spettatore è portato a ragionare sul senso del limite, sull’amore viscerale che però non impedisce di essere libere, di camminare con le proprie gambe pur capendo che la sorella è, e rimarrà, un pezzo importante della propria vita, tutto ciò con una colonna sonora sublime.

Indivisibili è un film sulla separazione e sul dolore che comporta. 
Traspare l’idea, che nella maggior parte dei casi, per crescere e rendersi autonomi per quanto possibile, bisogna mettersi in gioco e spesso soffrire.

Il regista Edoardo De Angelis, ci rivela:  “ho cercato un’immagine che rappresentasse al meglio questo concetto e l’ho trovata: due gemelle siamesi appena maggiorenni che scoprono di potersi dividere. Due ragazze attaccate per il bacino che, guardate singolarmente, dovevano essere belle per permettermi di realizzare quell’equilibrio tra attrazione e repulsione che è la linea guida estetica di ogni inquadratura che compongo.
Io vedo il mondo così: sempre in bilico tra la bellezza e la bruttezza. La frequentazione assidua di questo bilico mi ha portato ancora una volta a Castelvolturno. (…) Quel territorio è un simulacro straziato di una bellezza passata, materiale perfetto per costruire la gabbia dalla quale i miei uccellini vogliono disperatamente scappare. Il loro sogno è la normalità.”

Nella disperata ricerca della normalità, ammesso che quella di Daisy e Viola non lo sia, ci possiamo ritrovare un po’ tutti, sia come persone che vogliono raggiungere quella che è la vita adulta, sia desiderosi di una vita senza handicap inteso come impedimento/problema che porta a percepirci diversi, colpevoli… non degni di affetto e di essere apprezzati. Oggetto di discordie tra persone, famiglie e generazioni che si rapportano tra loro e con la disabilita in una gara estenuante a chi è più presente, più bravo, chi accetta la disabilità, chi lo fa a volte,  chi fa solo finta e chi fugge convinto di essere stato portato a farlo. Spesso in tutto ciò il problema sembra solo degli altri… come se la persona con disabilità non se ne accorga e non soffra per la sua condizione e quella di chi gli sta o gli dovrebbe stare accanto 

Tutto ciò impedisce, alle molte persone, coinvolte di rientrare nella classificazione positiva, rassicurante e ben accettata dalla società… di normalità.

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E se foste disabili?

 

“Provate a immaginarvi Disabili. Come cambierebbe la vostra vita? Riuscite a immaginarvi Disabili? Avreste voglia di raccontarvi? Tempo fa proposi alla mia rete LinkedIn di rispondere a una semplice domanda: «Come immaginereste la vostra vita lavorativa se diventaste Disabili non autosufficienti?». Il quesito l’ho poi reso più conciso ed è venuto fuori un bel punto di domanda: «Se diventassi Disabile anche io?», ovviamente siete voi che vi dovete rispondere in quanto io – come molti nostri lettori – sono già Disabile”.

Queste le parole di un giornalista che mi hanno aperto tutta una serie di riflessioni sulla mia situazione e i legami con il mondo dei normodotati che da sempre mi circonda.

La domanda era posta ai così detti normali e forse c’è stato stupore leggendo su Facebook la mia reazione. Tante volte ho sentito e sento come un rimprovero il fatto che io non mi sforzo di capire gli altri, e devo ammettere che per me gli altri oggi come oggi, si dividono in chi mi capisce al volo: senza bisogno di parlare, queste persone forse mi capiscono più di quanto mi capisco io stessa, poi c’è chi mi capisce con poche parole, chi mi capisce a volte, e chi proprio non vuole capire.

La mia vita è caratterizzata da un handicap motorio cominciato quando avevo la testa in questo strano mondo ed il corpo ancora al calduccio dentro il ventre di mia madre. Quindi ho avuto un trauma, mi è stato giustamente spiegato che questo fa la differenza tra me ed una persona che si è formata diversa fin dalle sue origini nel grembo materno. A quanto pare essere disabile a causa di un trauma (durante la nascita o in un qualsiasi momento della vita), fa una grande differenza. 

Tornando ad interrogarmi sul quesito del giornalista “provate a immaginarvi disabili. Come cambierebbe la vostra vita?“ Io da disabile penso che per alcune persone sarebbe una catastrofe. Più che la vita gli cambierebbe innanzi tutto il carattere… che già non è dei migliori senza l’aggravante di un handicap certificato e palese. Conosco persone così detti normodotati che si fanno problemi immensi per un non nulla… Allora se handicap è il termine inglese per indicare un problema queste persone hanno un handicap/problema. Forse è proprio per questo che si dice handicap cognitivo e non handicap mentale, o giustamente si specifica persona con disabilità fisica e/o cognitiva.

Tornando a me, alla mia disabilità e a quanto questa interferisca, o a me sembra che interferisca, tra me e gli altri; spesso gli altri preferiscono evitarti, non vederti perché sono o forse mi fanno sentire… colpevole di avere qualche esigenza in più perché sono disabile. Sono colpevole di essere disabile. Sembra come se al momento del parto qualcuno mi avesse chiesto:

-Senti un po’ ma tu come vuoi essere?

-Eih dici a me?

-Si!

-Ammazza cominciamo con le domande difficili!

– Aoh non ti lamentare: ne dovrai prendere tante altre di decisioni difficili… Beh allora? Si può sape’?

– Beh io vorrei essere diversa, muovermi in modo anarchico, con un bel handicap motorio… che dici di questa idea?

– Contenta te! Non ti faccio respirare per 5 minuti e sei a posto per tutta la vita!

-Ma perché mi trovo qui?

-Ahahah il destino a volte si diverte, ma non ti preoccupare capirai tante cose crescendo!

Mi sa che non è andata proprio così…!

Sono nata, crescita e tanta gente è fuggita da me, dal mio handicap e soprattutto ha preso le distanze, in vario modo, dalla mia famiglia. La serie qui sarebbe bella lunga… recenti, meno recenti, uomini soprattutto, ma a anche donne… persone importanti e meno importanti (a seconda del grado di parentela, affettività, conoscenti, insegnanti, persone che per fortuna appartengono al passato. Un passato che spero si riproponga il meno possibile…) Io li divido in ordine di importanza e cronologico, ma questa sono io…! Forse altri fanno ancora di tutta l’erba un fascio, e questo è un handicap/problema, qualcosa che toglie la serenità con se stessi, con me, con gli altri.

A volte io stessa devo capirmi, capire la realtà e prendere delle decisioni. In prima battuta sbaglio perché tendo a fare una scelta piuttosto che un’altra per compiacere l’altro poi con fatica emerge la mia decisione, e con il passare del tempo questa prende forma, per me e per chi non si sforza di capirmi.

L’altra mattina ho fatto un incubo: ero rifiutata da un uomo, ciò ha rovinato un momento importate e magico… proprio perché lui pensava “ah ma  è disabile” (il sogno era più lungo ma posso anche non dilungarmi.) Le cose brutte si ricordano di più, i brutti sogni rimangono impressi per giorni e giorni. Comunque faccio finta di niente “per far star bene gli altri”, per non litigare, e funziona! Si funziona ma solo per poco tempo…! Anche se dentro hai una rabbia che spacceresti il mondo, non si vede, e funziona fino ad un certo punto! Poi arriva un pretesto banale e esplodi come una bomba ad orologeria, o implodi da sola a casa come un palazzo che viene giù all’ improvviso.

Ma poi i traumi ce li hanno sempre di più gli altri, c’è chi dice: “Mi sono rotto di tutta la famiglia, mollo tutto e tutti perché non accetto la disabilità di Zoe.“ Oppure “Zoe vieni così chi ti accompagna mi da una mano… tanto tu non puoi!” Si però poi gli altri capiscono questo meccanismo e non va bene.

Poi capita che non posso guidare e ti aiutano a patto che lo sappiano tre, quattro giorni prima, se vuoi fare dei giri di punto in bianco rinunciaci! Oppure lo schiribbizzo di fare una commissione all’improvviso fattelo venire giorni prima in modo programmato, o se no cavatela da sola e pagati il taxi. Se non trovi il taxi ed hai un impegno… arrivi in ritardo!

Cito le parole di una persona da me molto stimata che ha provato a darmi delle risposte al mio post su Face-book: “qualsiasi disabilità è sì immaginabile, ma non la si può sperimentare; perchè la realtà e la vita ha senso solo se è vera; e la vita, qualsiasi essa sia, è bella e non la si può barattare con nessuna condizione di (dis)abilità. Zoe Rondini questo lo sa; e sulla sua “esperienza” ha scritto un libro fantastico “Nata Viva” che consiglio di leggere a tutti, abili e disabili, normodotati e superdotati, piccoli e grandi, maschi e femmine. Una lettura che farà ricredere chi è convinto che la (dis)abilità è… barattabile o, comunque, una condizione esistenziale di cui sbarazzarsi.”

È bello che tante persone da me stimate, tante scolaresche, alcuni professori universitari abbiano capito tanto di me con la lettura di quel libro, il rapporto con nonno, mia sorella, gli amici… è migliorato grazie al romanzo e questo è più bello dei tanti progetti portati avanti con successo e soddisfazioni.

Delle altre persone che dire? Nel poema pedagogico di Anton Semenovyc Makarenko, uno dei fondatori della pedagogia sovietica, nato a fine 800, parla dei ragazzi moralmente handicappati, niente di più attuale e convincente a mio avviso, fa riflettere che nell’800 era una cosa riconosciuta ed assodata, oggi non si può dire altrettanto.

In conclusione non auguro a nessuno di essere disabile, ne alla gente in gamba: perché lo dovrebbero essere/diventare? Ne alla gente che forse lo è… ne alla gente che ha già un carattere particolare perché augurarli l’aggravante? Poi ci sono quelli che probabilmente hanno paura di esserlo veramente o diventarlo ma già lo sono e non lo dico io, ma Makarenko. Infine non lo auguro ai bambini che nasceranno perché la disabilità è uno svantaggio, spesso è indelebile a volte ma solo per periodi di tempo rapidi e ben determinati è una risorsa.

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Auto – nomia: una luce tra le tenebre delle “patenti speciali“

Ho una disabilità motoria per la quale parlo, cammino e mi muovo con una certa difficoltà e spasticità che riguarda tutti i muscoli, volontari e involontari. Fin dalla nascita ho fatto tantissima fisioterapia il che mi ha fatto recuperare molto più di quello che i medici si auspicavano nei primi giorni e nei miei primi anni di vita. Negli anni dell’adolescenza, non ho potuto usare il motorino come tutti i miei coetanei, per questo compiuti i diciotto anni mi sono sottoposta immediatamente alla commissione medica per le “patenti speciali“. Dopo pochi mesi ho cominciato a uscire da sola, andare all’ultimo anno di liceo in modo autonomo, fare le mie commissioni etc. Dal 2000 al 2012 mi sono sottoposta al rinnovo, prima ogni cinque anni, poi ogni due come vogliono i cambiamenti legislativi. Nel suddetto periodo non ho avuto nessun problema al rinnovamento. La macchina è stata per me il primo step di un importante percorso di autonomia voluto e desiderato in primo luogo dalla sottoscritta e appoggiato dai miei familiari. Infatti, successivamente all’anno 2000 ho intrapreso un soddisfacente percorso universitario, sono andata a vivere da sola e, ovviamente, facevo tutte le cose che fanno le persone normali nella quotidianità quando vivono da sole e hanno l’autonomia. Nel 2012, per assurdi problemi burocratici e per un cambiamento di legge che prevede il rinnovo di patenti di tipo “B speciali“ da cinque anni ad un massimo di due, mi è stato negato il diritto ad avere la patente come tutte le persone che conosco. Questo ha recato un grave danno alla mia autonomia nonché all’autostima. Come di regola, il rinnovo per questo tipo di patenti si svolge in una commissione medica speciale, la stessa che mi ha consentito tutti i rinnovi! Ancora non mi capacito come dopo tanti anni di guida attenta e sicura non mi abbiano rinnovato il riconoscimento di questo importante diritto. L’ingegnere che prende la decisione finale e pone la sua firma sul certificato di rinnovo non era convinto del movimento del mio piede destro; arto che ha sempre controllato con precisione i pedali del freno e dell’acceleratore. Il braccio e la mano destra (parti che, in generale e nei movimenti “fini“, controllo e padroneggio con precisione rispetto a tutta la parte sinistra) gestivano, grazie a un pomello e a una centralina, il movimento del volante e i comandi quali frecce, doppie frecce, clacson, tergicristalli etc. L’ingegnere, prima di togliermi definitivamente la possibilità di guidare, mi ha fatto fare una prova con un apposito simulatore di guida della Fiat. L’esito della prova sostenuta con piede destro ha portato dei risultati da sufficiente a buono. Tale stress emotivo e psicologico non è stato sufficiente per far decidere l’ingegnere che, intanto, mi aveva sospeso la patente per sei mesi. Immaginate con quale stato  d’animo sono riandata dopo poco tempo a sostenere una difficile prova con lo stesso simulatore. Nonostante una notevole paura nel prestarmi ad una prova mai sostenuta prima di allora e che mi richiedeva una novità, l’uso della parte superiore sinistra… è emerso, con mia grande soddisfazione, che dai due arti superiori ho ottenuto un risultato che va da sufficiente a buono. Con il risultato ho fatto ricorso al TAR che ha dei tempi lunghissimi e tende a favorire le asrl, non i singoli cittadini.

La mia rabbia e frustrazione riguardo ad una commissione che dipende dalla Asl, ma non ha nulla di umano e non tiene presente la dignità delle persone, in più delle persone disabili, aumentava ogni volta che mi trovavo in quel posto insieme ad altri disabili ai quali veniva rinnovata la patente. Inoltre, nella sala d’attesa questi si lamentavano e si arrabbiavano per come funzionavano le cose. Ognuno di loro, come me, aveva speso diverse centinaia di euro per portare avanti le pratiche del rinnovo. A molti disabili sono stati cambiati i comandi, dagli arti inferiori a quelli superiori; forse è solo una tendenza, una presa di posizione per far finta di cambiare le cose e far perdere tempo e soldi alle persone con disabilità, sia per spostare i comandi speciali dai piedi alle mani sia per ritornare a pagare le lezioni pratiche di guida. È così che funzionano le cose nel nostro Bel Paese? Dov’è il diritto a una vita dignitosa e autonoma anche se si ha una disabilità? Questa è un’utopia o solo una forte volontà delle persone “diverse“ e delle loro famiglie? È giusto che le singole famiglie non siano adeguatamente supportate dalla società in questo importante percorso di vita? Mi ha colpito un fatto accaduto mentre stavo nella sala d’attesa: faceva molto caldo e diverse persone che attendevano la visita medica per il rinnovo della “patente speciale“, come la sottoscritta, guardavano con perplessità il cartello su cui era scritta la frase “È severamente vietato aprire le finestre“. In quel mentre è passata un’inserviente, un signore le ha domandato come mai ci fosse quel cartello e se fosse possibile cambiare un po’ l’aria; la signora gli ha risposto che un giorno la madre di un ragazzo disabile si era gettata dalla finestra in quanto al figlio non era stata rinnovata la patente di guida. Io capisco la rabbia e lo sconforto di quella madre che chissà quanti sforzi avrà fatto per far raggiungere una discreta autonomia al figlio e poi, da un giorno all’altro, una commissione medica ha il potere e la facoltà di far tornare indietro tutti e due e la sottoscritta di chissà quanti anni. Qualche mese dopo (troppo pochi) tornate in commissione abbiamo notato che le patenti speciali erano state spostate ad un piano sotto terra, così le finestre potevano rimanere aperte senza pericolo… Purtroppo poi, proprio quel giorno l’ascensore era guasto, ed una persona in sedia a rotelle che doveva sostenere la visita aveva lasciato gli occhiali da vista nella sua macchina. Bene, ascensore guasto e macchina per strada, la soluzione prospettata dagli addetti al settore era quella di rimandare la visita. Fortunatamente un terzo si è offerto di fare una corsa a prendere gli occhiali all’interessato, e l’appuntamento è stato salvato.

Non a caso mi sembra di essere tornata adolescente quando non potevo uscire liberamente e passavo interminabili pomeriggi di solitudine in compagnia della scrittura. Non è da sottovalutare anche il fatto che quando guidavo ero io a dare dei passaggi ai miei amici e famigliari che si trovavano sprovvisti di mezzi di locomozione. Vorrei raccontare un altro fatto emblematico. Un giorno mia sorella si è recata alla commissione in quanto doveva prendere l’appuntamento per la mia visita; c’erano diverse file, sbagliando fila e facendo quella per le analisi del sangue, si è resa conto che avevano messo nello stesso “girone dantesco“ i disabili e le persone a cui avevano sospeso la patente a causa di alcol e droga. Capisco i tagli alla sanità, ma si può trattare alla stessa maniera una persona che purtroppo vive e convive con una menomazione fisica, ad una persona che magari per depressione e chissà quali disagi psicologici, sociali, lavorativi, familiari… fa uso di alcool e droga? Perché i tagli non tengono conto della dignità, delle sofferenze, e delle reali necessità delle persone? Per tornare alla mia situazione, adesso non posso guidare e sto aspettando i tempi infiniti del ricorso al TAR. Intanto i mesi passano, ho smesso di cercare un lavoro perché ho delle serie problematiche negli spostamenti e forse anche nell’autostima. È  stata particolarmente significativa l’esperienza avuta l’anno scorso di un tirocinio organizzato dal Comune di Roma nel quale ero abbandonata a me stessa; impiegavo le mie mattinate al bar di un istituto per disabili invece di fare cose più utili, tipo scrivere, collaborare in un giornale, prepararmi per convegni sulla disabilità, fare fisioterapia, avere una vita autonoma con diversi compiti e mansioni da svolgere. Chi mi risarcirà per i danni morali subiti?  E, soprattutto, mi ridaranno prima o poi il diritto a guidare visto che è una cosa che non si dimentica ed è, scusatemi l’espressione proverbiale, come andare in bicicletta?

A questo discorso che riguarda l’autonomia e i diritti miei e di tante persone con disabilità, si collega in modo coerente e concreto il discorso del lavoro affrontato da me nell’articolo intitolato “La mia esperienza di tirocinio – lavoro“. Potete leggere il resoconto nel seguente link: http://www.piccologenio.it/2014/07/10/la-mia-esperienza-di-tirocinio-lavoro/

Secondo voi è giusto che io debba ringraziare la mia famiglia, la quale ha ripreso a darmi assistenza per quanto riguarda gli spostamenti, o è un mio diritto tornare a una vita più “normale“ possibile? Che cosa c’è di più normale nell’aspirare a uscire da sola, avere un posto di lavoro adeguato alla mia laurea triennale in Scienze dell’Educazione e della Formazione e alla laurea specialistica ottenuta alla facoltà di Lettere nell’indirizzo di Editoria e scrittura, entrambe conseguite all’Università la Sapienza di Roma.

Capisco le associazioni per le vittime della strada, ma ciò non giustifica un accanimento nei miei confronti. Il giorno in cui mi sono recata con mia sorella alla commissione medica “patenti speciali“ nostro nonno lottava tra la vita e la morte al Policlinico Gemelli, in seguito a quattro giorni passati in terapia intensiva dopo essere stato investito da un motorino mentre attraversava. La persona che guidava il motociclo è stata accecato dal sole. Purtroppo, dopo questi lunghi giorni, la situazione di mio nonno è terminata in maniera tragica. Questo episodio che ha colpito me, come tutti i miei famigliari, non ci ha mai fatto trovare un nesso tra le “patenti speciali“ e le vittime della strada, infatti, ricordo io stessa, sulle nostre strade si contano ancora 182.700 incidenti che provocano 3.400 decessi e il ferimento di 259.500 persone. Forse a causare questi incidenti ci sono diversi fattori quali velocità, stanchezza, orari nei quali ci mettiamo alla guida, uso di alcol e droga, nottate senza freni in discoteca ed età del guidatore; fattori, comunque, non riconducibili a un handicap momentaneo o permanente. Cercando in internet ho trovato solo dati da cui emerge che la disabilità è l’effetto di incidenti stradali e non la causa. Perché? Forse non ci sono dati rilevanti tra guidatori disabili e incidenti stradali? Eppure a molti disabili che ho visto nella sala d’attesa della commissione medica è stata rinnovata la patente. Quindi non posso pensare che non ci siano molti disabili alla guida!

Chissà se questo mio articolo servirà a creare una sensibilità non solo da parte dei disabili e delle loro famiglie o della gente comune, ma anche, e soprattutto, tra gli addetti ai lavori e a chi ha il potere di elargire o rinnovare le patenti di tipo “B speciale“. Io e la mia famiglia, intanto, non smettiamo di combattere e stiamo facendo il possibile per farmi riacquistare il diritto alla mobilità, ad una normalità per quanto possibile e ad una vita più autonoma e dignitosa.

L’autonomia, l’indipendenza, il lavoro sono traguardi faticosi da raggiungere per chi convive con un decifit fisico. Trovo che trattare con tale superficialità il percorso delle persone con disabilità è una forma di discriminazione. Ci vorrebbero più interventi mirati per le singole persone anziché trattare e a volte maltrattare tutti allo stesso modo come avviene in molti istituti, case famiglia, commissioni mediche e centri “specializzati“ . E’ di stamani la notizia che in una casa-famiglia di Santa Marinella abusavano e maltrattavano gli ospiti (minori e disabili) per fortuna sono avvenuti cinque arresti.

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Consapevolezza della diversità come maturità conquistata

Resoconto del Convegno Narrare la disabilità tra parole e musica

 promosso dal Comitato Unico di Garanzia (CUG) e dal Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne (DICAM) dell’Università degli Studi di Messina.

In prossimità della Giornata Mondiale del Libro, edizione 2015, ho avuto l’onore ed il privilegio di presentare il mio romanzo di formazione “Nata viva“, edito nel novembre 2015  grazie alla Società Editrice Dante Alighieri.

La presentazione ha avuto luogo presso l’Aula Magna del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne (DICAM) dell’Università di Messina. L’evento aveva come titolo: Narrare la disabilità tra parole e musica e vi hanno preso parte la prof.ssa Antonella Cocchiara, presidente del CUG, la prof.ssa Annamaria Curatola, associata di Didattica e Pedagogia speciale, nell’ambito del convegno sono poi intervenuti, con relazioni che si sono focalizzate sul romanzo di formazione, la Prof.ssa Caterina Benelli, ricercatrice di Pedagogia; il Prof Giuseppe Fontanelli, associato di Letteratura Italiana e Contemporanea, la Prof.ssa Marianna Gensabella, ordinaria di Filosofia Morale e, a chiusura dell’evento, mi è stata passata la parola per un intervento conclusivo in quanto autrice dell’opera. L’evento è stato aperto dall’introduzione e dai saluti del Professor Mauro Bolognari, direttore del DICAM.

L’uditorio era attento e composto da studenti in formazione del corso di laurea di pedagogia, presenti anche esponenti di associazioni che si occupano dell’handicap su tutto il territorio nazionale e i tirocinanti del TFA, insegnanti in formazione, che hanno saputo ben cogliere l’aspetto pedagogico del romanzo, sottolineato dai relatori.

La presentazione del libro è stata fortemente voluta ed organizzata dalla Prof.ssa Gensabella nell’ambito della più ampia manifestazione su disabilità, narrazione e musica che si è svolta nelle giornate del 23 e 24 aprile.

Il romanzo è stato presentato sotto tre diverse prospettive: letteraria, pedagogica e filosofica.

Ad aprire la discussione è stata la prof.ssa Cucchiara, Presidente del CUG, Comitato Unico di Garanzia per le pari opportunità, che ha ringraziato gli organizzatori delle due giornate, spiegando il programma di esse e parlando più nello specifico dell’attività del CUG. Esso è andato a sostituire il Comitato delle Pari Opportunità dell’Università di Messina, ed affronta i temi della discriminazione in modo ampio, spaziando dal razzismo, alla discriminazione di genere, razza e religione, al mobbing, alla violenza sulle donne e alla disabilità.

La Cucchiara, nel suo intervento, ha posto l’accento su un aspetto rilevante: la disabilità si può trasformare da motivo di discriminazione in risorsa, perché ciò avvenga, continua la professoressa, bisogna innanzitutto conoscere le diversità, e poi avviene il riconoscimento e quindi l’elemento fondamentale – tanto auspicato da noi disabili – quello della valorizzazione.

E’ infatti fondamentale, come affermato dalla Cucchiara, e ampiamente condiviso da chi scrive, riconoscere un valore nella diversità e saperle dare il giusto rilievo. La disabilità va guardata in faccia senza paure, pietismi o pregiudizi. Purtroppo ancora spaventa tanti perché mette loro di fronte alle proprie fragilità e mancanze, allora si tende ad evadere.

Quanta emozione e sgomento ho provato nel veder condivisi i temi affrontanti nella mia scrittura (il libro, gli articoli del mio portale, i copioni teatrali e di un cortometraggio, i post su Facebook) dai relatori del convegno.

La Cucchiara nel suo intervento ha fornito alcuni dati rilevanti: i disabili nel mondo sono circa seicentocinquanta milioni, oltre il 10% della popolazione globale, solo in Italia sono sei milioni… A mio avviso si può essere orgogliosi di essere diversi per genere, razza, orientamento sociale, religioso, sessuale etc.. ma non di essere disabili, perché aldilà di quanto si afferma non è semplice fare di una “debolezza“ una virtù, non è semplice in un contesto sociale in cui chi richiede un aiuto in più, un sostegno, è visto come un peso.

Tornando ai punti del discorso della prof.ssa, essa mette in luce un altro concetto veritiero, riprendendo il pensiero del prof. Gaetano Tortorella: “ciò che temono i disabili, non sono tanto le barriere architettoniche, quanto le barriere mentali“ e io posso aggiungere che non c’è rabbia più grande di quella che scaturisce nei confronti di chi non vuol vedere la mia disabilità, di chi minimizza o peggio di coloro che offendono, non riconoscendo le mie capacità e punti di forza.

Sostiene la prof.ssa Cocchiara: “attraverso la narrazione autobiografica dell’autrice, il cui nome d’arte è Zoe Rondini, il narrarsi è il modo per rielaborare e riprogettare la propria esistenza, ciò vale per Rondini, ma anche per tutti coloro che scrivono un’autobiografia. Zoe ci racconta che quando era piccola è nel disagio degli altri che lei percepiva il suo non essere uguale agli altri bambini.“

L’handicap diventa una risorsa quando le capacità vengono stimolate e valorizzate. Così finalmente la disabilità diviene l’input per raggiungere e far raggiungere traguardi che ci parevano imprevedibili, sia ai normodotati, sia alle persone con disabilità; ciò dimostra come quest’ultima rappresenti un motivo di realizzazione non solo per il disabile, ma anche per tutti i così detti normodotati!

Di seguito la parola passa alla professoressa Annamaria Curatola, la quale si sente di condividere la constatazione precedente sull’impreparazione della società ad accogliere ed includere l’handicap. Interessante risulta l’invito a guardare oltre, per creare una società migliore non solo per i disabili, ma anche per molte categorie di persone. La professoressa ha coinvolto i suoi studenti del corso di Pedagogia Speciale a vivere la città bendati, o a partecipare a delle cene al buio. Trovo lodevole queste iniziative atte a mettersi nei panni di chi è diversamente abile, peccato che certi “esperimenti didattici“ non siano estesi a tutta la nostra società, a tutte le scuole e facoltà umanistiche presenti in tutto il territorio nazionale.

È necessario, secondo la Prof.ssa, che i disabili e le loro famiglie trovino un valido supporto per vivere la scuola, trovare un lavoro adatto alle proprie competenze e capacità, è fondamentale essere adeguatamente supportati per portare avanti il proprio progetto di vita. C’è dignità in un lavoro vero e proprio, non in situazioni scolastiche e lavorative dove la persona disabile non fa nulla ed è abbandonata a se stessa. Per tutto questo è necessario un valido aiuto formativo e costante per un progetto di vita ad ampio respiro.

Successivamente a prendere la parola è la prof.ssa Marianna Gensabella, ordinaria di Filosofia Morale. Il suo è stato un intervento appassionato ed appassionante poiché mi conosce da vicino e non solo per mezzo delle pagine della mia autobiografia. La prof.ssa ha messo in luce l’importanza delle testimonianze autobiografiche e non, che le persone con disabilità possono fornire alle persone normodotate. Questo perché forniscono dei canali di accesso all’esperienza della disabilità piena. La professoressa Gensabella distingue infatti tra una disabilità piena e una disabilità temporanea, occasionale o parziale. Di quest’ultima tutti, sostiene la Gensabella, abbiamo avuto esperienza quando siamo stati malati, ma anche semplicemente bambini e incapaci di badare a noi stessi. La condizione di disabilità piena è però cosa diversa, ristretta ad un porzione, seppure considerevole, della popolazione. I filoni che si vanno affermando dell’etica narrativa e della bioetica narrativa possono, in questo senso, presentare il valore aggiunto di far entrare, attraverso la voce narrante di persone che hanno diretta esperienza di disabilità, dentro quell’esperienza, riuscire ad attirare lo sguardo che Joan Tronto, esperta di etica della cura, definisce lo sguardo dell’attenzione. In questa prospettiva la professoressa Gensabella inserisce, il romanzo autobiografico e di formazione Nata viva. 

La professoressa si è dunque soffermata a narrare il libro, cominciando dalla scelta del nome d’arte: Zoe indica la vita, e Rondini simboleggia la libertà, il volo degli uccelli. Il valore del testo sottolineato dalla Gensabella è quello di rinvenire in un romanzo quelle teorie e quei principi sulla disabilità che si ritrovano in testi didattici, filosofici e di bioetica.

Zoe narra la difficoltà di vivere da uguale agli altri bambini, ma pian piano prende coscienza di essere diversa. Il libro mette però in luce, secondo la prof.ssa, che non si è risparmiata di leggere alcuni brani durante la presentazione, una crescente consapevolezza della diversità riflessa nello sguardo degli adulti, nei movimenti e giochi degli altri bambini. Anche secondo lei “negare le differenze come scrivo nella premessa non è un’arma per combatterle, anzi ciò genera rabbia. La normalità è un valore rassicurante, ma è anche e soprattutto un concetto astratto. Cos’è normale? Niente. Chi è normale? Nessuno. Negavo la normalità forse per legittima difesa“.

La normalità è un concetto diventato valore, ma dovrebbe essere ridiscusso e ripensato. È anche un concetto con il quale dobbiamo fare i conti per capire ciò che si può realizzare e cosa no.

Anche la professoressa Gensabella sottolinea l’importanza del ruolo che hanno le persone normodotate nel creare una società più giusta. Nel parere di chi scrive, tuttavia, la costruzione di una società più giusta, più etica ed inclusiva non è una missione che deve essere affidata esclusivamente alle persone normodotate, ma vi dovrebbe essere una collaborazione tra disabili e non. A tale proposito riprendo le parole della Professoressa Gensabella: “dobbiamo, quella differenza, non semplicemente rimuoverla dal punto di vista ideologico, fermandoci all’uguaglianza, ma cercare di vederla, accoglierla, capirla ed aiutarla”.

Per aiutare i disabili la parola chiave emersa dal convegno è stata: inclusione. In molti momenti della vita di Zoe e della sua famiglia appare la voglia e la ricerca un aiuto da parte di una società più giusta. La Gensabella sottolinea come nel romanzo un ruolo importante viene rivestito dalla fisioterapia, ma questa appare quasi violenta nel tentativo di normalizzare e viene rifiutata, perché dolorosa, perché impedisce il gioco, perché non tiene conto della psiche di Zoe, ma è anche utile ed essenziale.

Quante verità e sfaccettature sono emerse, ma forse le pagine più importanti sono quelle dedicate all’inclusione negata; ovvero le pagine nelle quali si esce dal territorio “protetto“ della famiglia, per arrivare in quello meno protetto dei coetanei. La prof.ssa si è soffermata sulle pagine dolenti della scuola (dove anche qui il tono ironico non reca sconti a nessuno), condivido questa selezione di argomenti visto che la maggior parte degli uditori si trova o si troverà a lavorare nel mondo della scuola. Zoe, racconta la Gensabella: “è in qualche modo privilegiata, appartiene a una famiglia con un certo spessore culturale, con possibilità economiche, disponibilità intellettuali alte, e tuttavia si è scontrata con molti contesti ostici, che non l’hanno aiutata malgrado una famiglia attenta, vigile, che ha sempre cercato e voluto il suo bene. Si è messo in evidenza la negazione da parte delle compagne di classe nel porgere il braccio per camminare, era tutta qui la richiesta d’aiuto di Zoe. Perciò Zoe ha avuto problemi a viversi i momenti ludici e di socializzazione come la ricreazione e le gite scolastiche.”

Infine la Gensabella ha fatto riferimento al progetto, portato avanti da me e dal mio consulente letterario, Matteo Frasca, per diffondere “Nata viva“ nelle scuole medie e superiori, per far sì che gli studenti di oggi non si trovino a vivere le mie esperienze di disagio.

La professoressa Benelli sottolinea, inoltre, l’aspetto sociale della lettura del romanzo di formazione Nata viva, in quanto occuparsi ed inserire nell’ambito delle lezioni universitarie, ma non solo, testi di questo tipo aiuta a conoscere e ad avvicinarsi a situazioni diverse. Si concentra quindi sul testo “Nata viva“ e sull’origine del desiderio di espressione di sé dell’autrice e su quanto la scrittura sia stata per Zoe una compagna di viaggio. Le tematiche affrontante nel romanzo risultano condivisibili e ricorrenti in numerosi altri testi autobiografici, alle quali poi si aggiungono le tematiche specifiche legate alla disabilità, che fa da filtro ad ogni esperienza di Zoe. 

Prende da ultimo la parola il professore Giuseppe Fontanelli, associato di Letteratura Italiana Contemporanea, “Il romanzo è di formazione, secondo il professor Fontanelli, anche dal punto di vista personale, nel momento in cui Zoe arriva ad affermare “sono grande. Ho studiato, ho letto molti libri. Ho studiato che il gioco è l’attività più importante che un bambino possa fare“, ma si trova poi a scoprire, nel contempo, che quanto studiato è in antitesi con l’esperienza vissuta, perché da piccola Zoe non ha potuto giocare.

Il romanzo registra la consapevolezza dell’esclusione e insieme lo sforzo per essere come gli altri. In questo l’opera insiste sul valore della normalità, perseguita e sempre disattesa, come nel tentativo di entrare, adolescente, in una discoteca.

Fontanelli nota che in più parti del romanzo ritornano le dimensioni e le sproporzioni del tempo e degli spazi: i cinque minuti in cui è mancato il respiro e gli interminabili corridoi da percorrere camminando senza l’aiuto di nessuno. Ma anche i compagni di classe e le loro urla appaiono a Zoe come un gigante, e messi insieme risultano invincibili. Il romanzo è il continuo tentativo di colmare questi spazi vuoti. Spazio e tempo finiscono per avere una dimensione smisurata. Tale sproporzione ritorna nell’uso frequente dell’avverbio troppo e infine, riprendendo le parole di Fontanelli “una disabile è un persona che chiede agli altri troppo tempo e troppe premure.“

Il romanzo è anche ricerca di un colpevole, il tentativo di urlare contro qualcuno, ma poi Zoe finisce per sentirsi lei stessa responsabile, ma infine viene espressa una maturità conquistata nel momento in cui Zoe afferma “adesso non mi sento più in colpa“. 

Il professore rintraccia alla base del romanzo una poetica del paradosso secondo la quale i normodotati nel dolore e nei sacrifici richiedono il doppio dell’impegno ai disabili, mentre non riescono ad offrire loro divertimento e svago. 

La morale che Fontanelli trae dal romanzo è che il concetto della vita non può essere sequestrato, come non può essere imprigionato il respiro.

A chiusura del convegno mi è stata data la possibilità di tenere un intervento conclusivo, ho voluto concentrarmi su alcuni aspetti importanti per l’inclusione sociale delle persone con disabilità e che non emergono particolarmente nel romanzo, in quanto questo fa riferimento ad un periodo della mia vita maggiormente legato al mondo della scuola e poi dell’università. Queste sono il lavoro e l’autonomia personale. In tal senso ho riportato la mia esperienza mortificante del mio primo tirocinio-lavoro . Esperienza che mi ha rivelato una società impreparata ad interagire con le differenze, che le mette da una parte, per non pensarci e non occuparsene.

Per fortuna con il libro e attraverso la scrittura partecipo ad eventi gratificanti e trovo uno scopo nella comunicazione e nella condivisione della mia esperienza nell’intento di sensibilizzare la società e migliorare, nel mio piccolo e con i miei strumenti, la situazione delle persone disabili in Italia.

A concludere il pomeriggio il concerto dell’Orchestra del Mondo Nuovo, la quale ha eseguito, diretta dal dr. Massimo Diamante, la Fiaba Musicale “Blog o taccuino? Vera storia di un libro e di una blogger che volle tornare alla vita reale“. L’Orchestra vede la presenza di musicisti disabili perfettamente integrati ed all’unisono con musicisti “normodotati“.  

 

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