Il corpo dell’amore, quattro racconti coraggiosi contro i pregiudizi

L’amore e la sessualità delle persone con disabilità portano spesso con sè dei molteplici tabù, un carico di timori e curiosità dei diretti interessati, ma anche di chi si trova coinvolto.
Per fortuna negli ultimi anni se ne parla di più: si cerca di andare verso un lento ma progressivo cambiamento culturale. In quest’ottica ho molto apprezzando “Il corpo dell’amore”, un programma coraggioso, completo e complesso, che è andato in onda su Rai 3,  la regia è stata di Pietro Balla e Monica Repetto, prodotto da Deriva Film, con la voce narrante di Enrica Bonaccorti.
In ogni puntata de “Il corpo dell’amore” si racconta una vita, la ricerca dell’amore, dell’affettività e la voglia di scoprire la sessualità.

È un viaggio per l’Italia, ma è anche un viaggio dentro la disabilità, entrando nelle vite di famigliari, amici ed assistenti. Sono state scelte quattro storie emblematiche che aiutano a capire la disabilità anche a chi non la vive.

Le narrazioni sono quelle di una madre con figlio con la sindrome di Williams, quella di un’attivista omosessuale disabile, c’è la storia di una giovane donna su sedia a rotelle dalla nascita, ed infine il racconto di un’aspirante assistente sessuale.
I piccoli film sono emozionanti, forti ed autentici.

Capitolo I Patrizia. L’ombra della madre

Il primo episodio ha fatto entrare lo spettatore nel mondo di Patrizia, madre di un ragazzo con sindrome di Williams che vorrebbe fare un’esperienza sessuale con una donna. Per questo la madre si rivolge anche ad una prostituta; la disponibilità di quest’ultima far fare un’esperienza al ragazzo è narrata in un’ottica positiva e di aiuto. La puntata non ci svela come andrà a finire; ma apre anche delle finestre sul tema della prostituzione che non viene affrontato nella sua complessità e del desiderio di amare del figlio della protagonista.

Capitolo II Giuseppe: Todos Santos

Il secondo film dal titolo: “Giuseppe: Todos Santos” affronta un tema ancora più complesso, quello di una persona disabile ed omosessuale. Giuseppe Varchetta  è un giovane attivista omosessuale e disabile che vive a Bologna, ma è originario di Napoli dove torna per partecipare al Gay Pride. La puntata ci mostra perfettamente come accettarsi per Giuseppe, non sia stato facile, anche perché a non accettare i disabili per di più omosessuali, molto spesso sono gli altri.

Capitolo III Valentina. La settimana enigmistica

Il viaggio del programma continua facendoci entrare nella vita di Valentina Tomirotti. La trentaseienne, personaggio pubblico su web, nota per via del suo modo estroverso di affrontare la vita, ha dichiarato in più occasioni di avere una sessualità disinibita, per questo è un esempio positivo.
La displasia diastrofica -è questo il nome del problema della ragazza, causata proprio dalla mancanza di una proteina- è una malattia che rende gli arti più piccoli del normale. Nonostante ciò lavora, progetta di vivere da sola, ha molti amici e non le sono mancate le esperienze sessuali.
La puntata  racconta la vita della blogger quando “transita” l’attore Carlo. I due mettono in atto una sfida coraggiosa: raccontare l’incontro tra corpi diversi, per rivelare la consuetudine di un’intensità che non deve conoscere barriere per nessuno.
L’elemento potente della protagonista è il suo carattere forte e spigliato che trasmette tutto il suo essere adulta anche se dichiara di vivere sempre con l’ombra di qualcuno. Lei racconta di essere sia una figlia modello, che una ragazza come tutte che vive le sue storie tra “mille casini”.

I genitori e gli amici le fanno capire che è meglio lasciar perdere Carlo, ma la bella principessa eternamente seduta, andrà fino in fondo e vivrà tutta la dolcezza che c’è nel fare l’amore perché a volte si scopre di essere simili tra diversi.
Il messaggio della puntata è chiaro: l’importante delle persone non è tanto il corpo, bensì cosa pensano e le loro affinità; per citare le parole della giovane blogger: “ci sono le stesse voglie con diversi punti di vista: il mio da seduta, come pochi, il suo da in piedi come molti.”

Dopo l’intensità  con Carlo la vita di Valentina riprende tra la scuola guida e gli amici, il piccolo film ci porta, ancora una volta di fronte ad una ragazza che analizza le situazioni in tutte le loro sfumature e quindi decide con maggior consapevolezza e coraggio.

Capitolo IV Anna la prima prova

La quarta ed ultima puntata affronta l’attuale tema dell’assistente sessuale.

È la storia di Anna, 45 anni, massaggiatrice olistica abituata alla spiritualità del massaggio  e a donare con questa pratica benessere psicofisico. Ho trovato interessante che è stata scelta proprio una massaggiatrice olistica: è stata una mia intuizione quando nel 2006  ho scritto, il mio primo articolo sui benefici dei massaggi tantrici dal titolo: Il piacere magico del massaggio tantrico.

La puntata racconta le vite e l’incontro tra Anna e Matteo, l’uomo ha una paralisi parziale dei muscoli di braccia e gambe, alla soglia dei 40 anni sogna il matrimonio pur non avendo avuto una relazione con una donna.

Anna è stata scelta dai promotori del comitato lovegiver come prima tirocinante dopo il corso per diventare assistente all’emotività, all’affettività ed alla sessualità delle persone disabili. In questo esperimento è supportata dal professor Fabrizio Quattrini, vice presidente della lovegiver psicologo, psicoterapeuta e sessuologo.

Matteo è determinato nella ricerca dell’indipendenza e nello sperimentare una sessualità che non sia solo autoerotica, per questo partecipa al tirocinio di Anna.

Il film spiega bene la relazione tra Anna e Matteo, tra tentativi ed errori. L’assistente mette in luce le aspettative di Matteo che dice “noi abbiamo diritto come gli altri”. Anna rende esplicito il fatto che l’operatrice OEAS non può avere un rapporto completo e che è li per aiutarlo a scoprire il proprio corpo e i propri desideri; così a poco a poco, Matteo vivrà l’autoerotismo e il contatto con il corpo di Anna senza paura.

Matteo si sentirà finalmente uomo, libero da quel malessere che con gli altri non è riuscito a superare.

Tutte le storie fanno riflettere sui bisogni delle persone con disabilità quando diventano adulte. Si parla tanto del Dopo di noi, ma mancano le leggi o andrebbero aggiornate. Essere un adulto consapevole implica anche una crescita affettiva, amorosa e sessuale.

“Vorrei che la politica non si divida su questo tema perché non ci sono colori politici che tengano. C’è solo il colore dell’amore. Le persone con disabilità non sono un mondo a parte ma fanno parte del mondo. Il principio, a livello giuridico, di vivere la propria sessualità deve valere per tutti, anche per i disabili. Nel nostro paese c’è ancora un problema culturale da superare. La politica deve cercare di abbattere le barriere perché i tabù non portano da nessuna parte”. Ha dichiarato il Sottosegretario Zoccano. Intanto, però, ad abbattere il tabù è stato il piccolo schermo.

Speriamo che il viaggio del programma non si fermi ad un’unica stagione dato anche il successo che ha avuto. Il coraggio degli autori nell’entrare con delicatezza nelle storie e nell’intimità delle persone è stato apprezzato e premiato da molti, mi auguro che i programmi, i dibattiti aprano nuove strade come si è già fatto in molti paesi. E’ una prospettiva auspicabile e condivisa da molti.

Mi piacerebbe partecipare a programmi, film e progetti sull’amore, la sessualità e l’affettività delle persone con disabilità. In caso scrivetemi in privato sulla pagina Zoe Rondini, grazie.

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Un bagno di libertà: l’accoglienza è uguale per tutti?

Da più di dieci anni passo volentieri un periodo delle vacanze estive in un paese della Toscana da una mia parente, Ali.

Da sempre ritengo questa regione un esempio di ospitalità e accoglienza per tutti, anche per me. Nel paese dove mi reco mi conoscono un po’ tutti. I miei amici; si sono accorti dell’accoglienza e dell’ospitalità nei miei confronti di tutto il paese.

Nelle giornate più calde le ho trascorse sempre  in piscina, passavo le giornate tra decine di vasche e collegarmi ad internet con il mio portatile. Mi piace starci da sola, parlare con i turisti, i dipendenti, i proprietari. Amo nuotare, è il mio sport ideale: in assenza di peso mi muovo in modo fluido, inoltre ho fatto tanti corsi per imparare e perfezionare i diversi stili. Piccole cose che mi fanno sentire autonoma e accettata. Fino qui nulla di strano direte voi: un bell’esempio d’integrazione.

Purtroppo tutto di un tratto sono cambiate le cose: un giorno come tanti ero a tavola al bar della piscina, c’era un cameriere nuovo, chiedo il solito piatto di pomodori, ma intuisco che il nuovo personale non è abituato alla mia presenza, mi servono lentamente. Mentre mangio senza chiedere aiuto, al tavolo accanto a me, uno dei titolari, che ha un’età avanzata dice come se io non capissi: “non può stare abbandonata qui tutto il giorno”. Attonita e un po’ timida ho fatto finta di nulla.

Quando una persona è venuta a riprendermi, un altro titolare più giovane ha detto: “non la potete lasciare da noi sola tutto il giorno, lo dica a chi la ospita”. Infuriata ho provato a difendermi ma pioveva, c’era rumore attorno, lui non mi ascoltava… sono salita in macchina per tonare a casa di chi è quasi una nonna per me.

Chi era incaricata di riferire lo ha fatto.

La sera, molto arrabbiata ed incredula, ho convenuto con Ali che il giorno dopo sarei andata a parlare con il titolare, lei mi ha accompagnata, ma ho spiegato io le mie ragioni all’uomo che invece non era stato diretto con me:

Sono sempre stata in piscina da sola, lei mi conosce da anni, era gentile come i vecchi baristi, mi custodiva il computer, ora che succede?” Dissi.

Sono cambiate le regole, non puoi stare qui da sola. Se cadi i turisti si impressionano”.

Se cado mi rialzo da sola, come faccio dall’età di cinque anni –ho spiegato – non sono cambiate le regole ma il suo personale, il bagnino non mi vuole dare un braccio dalla piscina al bar e il barista si scoccia a tagliare, in caso, due pomodori”.

“Non paghi il lettino ma non puoi stare qui da sola, questo è quanto”.

“Preferisco pagare come tutti ed essere trattata come gli altri anni”.

“Non si può! Devi essere accompagnata da qualcuno.” Disse lui stizzito senza fornire spiegazioni alcune, prima di tornare velocemente al bar.

Io e altre persone abbiamo cercato il “regolamento cambiato” citato dal proprietario ma  non vi è traccia… immagino una regola scritta: “in questa struttura accettiamo persone con disabilità, ma solo se con accompagnatore.” Ottima pubblicità per attirare più clientela, che negli anni si è già drasticamente ridotta!

L’unica cosa da fare a quel punto era o rimanere a casa nel piccolo paese, o andare in piscina con Ali, che ha ottantaquattro anni.

Evviva l’integrazione e pari diritti per tutti. Sono maggiorenne, ho la patente di guida, per mia fortuna scrivo, racconto, ho una laurea di cinque anni, eppure in tanti dalla scuola in poi mi hanno creato ulteriori ostacoli. Come sarebbe andata la vicenda se al mio posto ci fosse stata una persona non perfettamente in grado di capire, di difendersi o di chiedere aiuto? Forse è proprio questo che ha sempre messo gli altri in difficoltà nel rapportarsi con me, il fatto che riesco a argomentare, pensare e scrivere.

Un tempo i disabili vivevano a casa e frequentavano classi speciali, ma oggi l’integrazione e il riconoscere le capacità, i limiti (i miei non li ho mai negati o nascosti…), le peculiarità, i talenti e la diversità di ognuno è un fatto reale e per tutti o bisogna sperare di avere un po’ di fortuna?

E pensare che  la Convenzione Onu per i diritti delle persone con disabilità si esprime chiaramente  in merito alle discriminazioni illustrandole con  queste parole: “Discriminazione sulla base della disabilità indica qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole. La Convenzione riporta anche il concetto di accomodamento ragionevole spiegandolo: “L’Accomodamento ragionevole è il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa”. Bei principi che non sempre sono conosciuti e rispettati.  Mi viene in mente una frase di Emanuela Breda che mi sembra adatta al caso: “Ogni essere umano è unico: rispettarne la diversità equivale a difendere la propria e l’altrui libertà.”

L’intento di questo articolo non è quello di “denunciare”, ma tentare di tutelare la libertà e l’autonomia di molti, cercando, nel mio piccolo, di contribuire al diffondersi di una cultura che tenga conto delle specifiche diversità degli individui, non trattandole come problematiche bensì inglobandole nella quotidianità.

Spero che quello che è successo a me non capiti ad altri e che l’accoglienza, la quiete, le tante eccellenze di tutta la Toscana rimangano tali per tutti, senza inutili distinzioni.

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La percezione della disabilità tra racconto, psicologia e pedagogia

Quando ero piccola mi hanno insegnato a cadere in avanti anzichè all’indietro, ad aggrapparmi ai miei pantaloni e camminare da sola.
Ma cadevo lo stesso e dovevo rialzarmi ad ogni costo. Così mi insegnavano in tanti, non avevo vie di scampo.
Crescendo, ho imparato a camminare da sola, ma l’equilibrio precario e le tante cadute sono rimaste.
Non è un problema di ginocchia sbucciate… quelle passano. La sensazione profonda di poter cadere, sbagliare, non farmi capire, non essere all’altezza, non spiegarmi, capire tardi quello che per me è veramente importante… è un’altra cosa.

il senso di colpa, verso le decisioni capite e prese all’ultimo momento… la rabbia prima di tutto verso me stessa e verso gli altri per la non capacità di agire, rimediare, essere assenti, vagi ed incompleti… è tanta. Inadeguatezza sì la mia e quella sensazione dei ragazzi delle medie coinvolti nel progetto di narrazione che sto portando avanti; ecco quella sensazione che ci accomuna e per la quale si è creata empatia con tutte le classi incontrate fin ora.

Alcuni adulti, a differenza dei ragazzi,  si crocchiolano nel sentirsi inadeguati: non mi va, non mi interessa, ho di meglio da fare, siamo gelosi, c’è stato e c’è chi pensa a te, sei grande, voglio pensare a me stesso/a non ce la faccio ect ma quando si tratta di “facciata” beh quella tentano di salvarla.
Ecco tanti motivi per voltarti le spalle, per sempre o per alcune situazioni. Poi non è raro che, sono io a chiudermi, a non voler più sapere, anche riparlarne mi crea fastidio.
A volte alcune persone, ci sono è veroma a me sembrano flash e poi barcollo, ondeggio, barcollo ancora.
Loro soffrono, si lamentano…  se gli altri possono farlo, la sottoscritta (che infondo non ha respirato per 5 minuti) non è tenuta a lamentarsi.
Ma continuo a credere nella scrittura e nella pedagogia, così scrivo ed incontro persone nuove, belle, un po’ pazze perché mi fanno ballare, recitare, scrivere, parlare ai convegni ed alle presentazioni, essere autrice, giornalista, lavoratrice, alunna, sorella e nipote.
È folle portare in scena lo spettacolo La Cantastorie Zoe che ha fatto piangere tutti: sconosciuti e sconosciuti, parenti e familiari, ma lo rifaremo grazie a compagni di viaggio “vecchi” e nuovi.
Ci sono persone che stimo e stimerò sempre, perché mi hanno sia aiutata a fare da sola, che insieme a loro, così abbiamo sperimentano, condividono, hanno pianto sì, ma anche riso, viaggiato, recitato, scritto, gustato, visto, insegnato, amato e tanto altro.

Ho insisto anche sbagliando anche prendendomi molte porte in faccia… ma questo spesso viene dimenticato oppure le porte in faccia le hanno prese sempre di più gli altri tanto che, a volte o per sempre non hanno più nulla da condividere.

Quando ero piccola dettavo a gli altri, non volevo studiare e iscrivermi all’università, meno male che poi hanno insistito ed ho insistito, fino a raggiungere la laurea triennale e specialistica.
Io scrivo, recito, incontro le scuole, questo è quello che ho imparato a fare, mi dispiace che per tutto ciò, involontariamente, facciano male agli altri.
Per fortuna non sono l’unica a credere, con alti e bassi… a quello che mi riesce più o meno bene, con gli aiuti certo ma che male c’è a chiedere aiuto?
C’è chi mi ha insegnato a usare il pc piuttosto che dettare, chi le tecniche di scrittura creativa e giornalistica, chi mi porta nelle scuole per parlare ai ragazzi, chi ha danzato con me, chi ha recitato.
C’è anche chi mi guarda e mi dice “cavolo se mio figlio potesse farlo”; io lo faccio ma gli altri soffrono. Non voglio insegnare niente a nessuno. Ci sono mamme di bambini e ragazzi disabili che mi chiedono consigli, aiuto, io cerco di daglieli: se posso condividere la mia esperienza e confortare un pochino sono contenta.

Ricordo che una volta ho regalato il mio romanzo ad un papà di due ragazzi con handicap cognitivo e lui (che viveva una situazione complessa) mi ha detto: “ti ringrazio perchè dalle tue pagine capirò meglio i miei figli”.
Cerco di fare da sola, ma sbaglio, lascio in dietro qualcosa. Cado, in qualche modo mi rialzo.
È vero i rimproveri comunque arrivano ed è sbagliato andarseli a cercare.
C’è chi mi apprezza e c’è chi lo fa con alti e bassi chi “non ne può più del mio libro ed evita i convegni che trattano la disabilità”, ma per fortuna non posso generalizzare.
C’è anche chi non mi parla ma mi invita, per salvare la faccia, ad un’occasione importante, e chi semplicemente non mi parlerà più.
Non sono d’accordo con l’idea a volte diffusa in psicologia per la quale “la nascita di un figlio con qualsiasi ritardo o problema è un trauma che ferma il tempo, generalmente i genitori vedono i figli come la continuazione di loro stessi, qualcuno con cui identificarsi, la presenza di un handicap impedisce questo processo”. Non è detto che non ci si possa identificare in una persona con difficoltà cognitive, motorie o di vario tipo, solo che ciò comporta tempo ed uno sforzo in più nel superare i propri limiti, le proprie barriere per poi superarli insieme ai figli e con chi sceglie di rimanerli a fianco: molti figli disabili sono l’orgoglio dei genitori e viceversa, anzi sono proprio loro a far fare nuove esperienze e far intraprendere nuove sfide ai genitori.
Ripenso al tanto studiato Anton Semenovyč Makarenko, pedagogista sovietico, egli parlava delle persone moralmente handicappate, cosa c’è di più attuale se in tante situazioni non mi sento ne accettata ne pronta a fare tutto da sola?
E per chi non c’è o c’è a tratti non vale la stessa definizione?
Concludo con la visione di famiglia del celebre pedagogista: per Makarenko i genitori sono chiamati ad educare, devono acquisire la mentalità del collettivo, per costruire un uomo nuovo. Questa è un’ idea centrale e costante nell’opera il Poema pedagogico, dove il pedagogo utilizza il collettivo come metodologia educativa dove ognuno ha un suo posto. I genitori – continua- devono sia essere figure di sostegno che di aiuto e devono saper utilizzare al meglio le proprie risorse personali da applicare nell’ educazione e nell’aiuto.

Forse  dovrei ascoltare maggiormente la celebre citazione di dante difronte agli ignavi: non ti curar di lor, ma guarda e passa.

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L’occasione favorevole per lavorare con orgoglio

“Le tre regole di lavoro: 1. Esci dalla confusione, trova la semplicità. 2. Dalla discordia, trova armonia. 3. Nel pieno delle difficoltà risiede l’occasione favorevole.” Lo affermava Albert Einstein. Vale anche per me, per l’esperienza importante che vi sto per raccontare: a gennaio 2016 ho iniziato a lavorare presso la testata on-line Piuculture, il giornale dell’intercultura a Roma.

Da subito la mia collega e tutor mi ha trattato alla pari, con rispetto; lei e la responsabile del giornale mi hanno affidato incarichi seri: dovevo partecipare per il giornale a conferenze sul tema delle migrazioni e scriverne un articolo.

Nulla di più gratificante per un’aspirante giornalista! Le prime settimane sono state di formazione, la mia collega mi ha insegnato le regole del mestiere, il metodo per prepararmi alle conferenze, scrivere un pezzo rispettando le cinque W, l’essere esaustiva con un certo numero di battute e molte funzioni di word-press che su Piccologenio non avevo ancora utilizzato.

Quanta pazienza all’inizio con una persona che di fatto non era mai entrata in una redazione,  non aveva la praticità del lavoro, ma solo tante nozioni universitarie. Avevo da poco scritto un romanzo, quindi fino ad allora mi ero sentita dire “più scrivi, racconti, aggiungi dettagli, sei narrativa… e meglio è”!

Tornando nel vivo del lavoro, anche andare autonomamente alle conferenze, registrare, prendere appunti, fare foto, avere i biglietti da visita del giornale per fare rete è appagante; un’esperienza nuova: ho collaborato con altre testate on-line e cartacee, ma erano e, talvolta continuano ad essere, collaborazioni volontarie e sporadiche.

Il mio entusiasmo per un vero lavoro gratificante ed articolato, in un’ambiente accogliente è stato colto non solo da famigliari ed amici, ma anche da tanti conoscenti che alla domanda ed ora di cosa ti occupi vengono travolti dal racconto minuzioso del mio essere giornalista per Piuculture. Tale narrazione non è venuta meno anche in articoli e interviste che riguardano Nata viva e alla web-radio Freccia Azzurra.

I primi tempi mi occupavo di redigere gli articoli e mettere notizie brevi sul sito del giornale; attualmente sto imparando a gestire i contenuti social di Piuculture; questo anche perché si tratta di un tirocinio formativo, oltre che di una esperienza lavorativa.

Si tratta di un piano di lavoro promosso dal Comune di Roma e dal Municipio per persone con handicap fisico e cognitivo. In passato avevo già aderito a questo tipo di progetto, ma la cooperativa che era stata incaricata dal Municipio II di seguire il programma non funzionava bene: la psicologa nelle riunioni di autoaiuto ci diceva che i tirocini erano di basso livello, che le cose erano così per tutti i tirocinanti e che a nulla sarebbe servito coinvolgere le dottoresse con incarichi più alti del suo.

Per fortuna del 2016 sono stati trovati i fondi per ripetere l’esperienza e questa è stata affidata ad una diversa cooperativa. Tutti i ragazzi sono stati inseriti in posti adatti alle loro competenze ed aspirazioni. Nell’ambito del percorso formativo si svolgono delle riunioni: si tende a facilitare il racconto del lavoro evidenziando aspetti positivi e negativi, di modo che la psicologa referente della cooperativa possa intervenire qualora ce ne fosse bisogno. Queste riunioni e il lavoro stesso, sono servite a tutti i partecipanti per migliorare sull’autonomia, la consapevolezza ed il rispetto delle regole.

In futuro non si sa se ci saranno i fondi per ripetere il progetto, se la cooperativa sarà la stessa, nel frattempo ogni ragazzo è stimolato a cercare un vero lavoro, inviare il curriculum, guardarsi gli annunci per le categorie protette, ma si sa che non è semplice trovare un lavoro vero.

Per quanto mi riguarda, mi dispiace che un’esperienza positiva, gratificante, dove ho imparato tanto, ma tanto ancora potrei apprendere, duri solo quattordici mesi. Non mi capita spesso di poter fare, rendermi utile in progetti ampi e condivisi, avere regole, scadenze da rispettare ed un impegno serio da portare avanti, trovarmi bene con le persone con le quali mi rapporto. A volte basta poco per valorizzare le competenze, i punti di forza, le piccole e grandi autonomie che ciascuno porta con se.

Mi torna in mente un aforisma di Primo Levi sulla bellezza del lavoro: “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono.”

Con questo mio articolo ed il precedente: “Abituarsi alla diversità dei normali è più difficile che abituarsi alla diversità dei diversi”, vorrei cercare di far conoscere le situazioni che meritano di essere pubblicizzate e replicate.

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E se foste disabili?

 

“Provate a immaginarvi Disabili. Come cambierebbe la vostra vita? Riuscite a immaginarvi Disabili? Avreste voglia di raccontarvi? Tempo fa proposi alla mia rete LinkedIn di rispondere a una semplice domanda: «Come immaginereste la vostra vita lavorativa se diventaste Disabili non autosufficienti?». Il quesito l’ho poi reso più conciso ed è venuto fuori un bel punto di domanda: «Se diventassi Disabile anche io?», ovviamente siete voi che vi dovete rispondere in quanto io – come molti nostri lettori – sono già Disabile”.

Queste le parole di un giornalista che mi hanno aperto tutta una serie di riflessioni sulla mia situazione e i legami con il mondo dei normodotati che da sempre mi circonda.

La domanda era posta ai così detti normali e forse c’è stato stupore leggendo su Facebook la mia reazione. Tante volte ho sentito e sento come un rimprovero il fatto che io non mi sforzo di capire gli altri, e devo ammettere che per me gli altri oggi come oggi, si dividono in chi mi capisce al volo: senza bisogno di parlare, queste persone forse mi capiscono più di quanto mi capisco io stessa, poi c’è chi mi capisce con poche parole, chi mi capisce a volte, e chi proprio non vuole capire.

La mia vita è caratterizzata da un handicap motorio cominciato quando avevo la testa in questo strano mondo ed il corpo ancora al calduccio dentro il ventre di mia madre. Quindi ho avuto un trauma, mi è stato giustamente spiegato che questo fa la differenza tra me ed una persona che si è formata diversa fin dalle sue origini nel grembo materno. A quanto pare essere disabile a causa di un trauma (durante la nascita o in un qualsiasi momento della vita), fa una grande differenza. 

Tornando ad interrogarmi sul quesito del giornalista “provate a immaginarvi disabili. Come cambierebbe la vostra vita?“ Io da disabile penso che per alcune persone sarebbe una catastrofe. Più che la vita gli cambierebbe innanzi tutto il carattere… che già non è dei migliori senza l’aggravante di un handicap certificato e palese. Conosco persone così detti normodotati che si fanno problemi immensi per un non nulla… Allora se handicap è il termine inglese per indicare un problema queste persone hanno un handicap/problema. Forse è proprio per questo che si dice handicap cognitivo e non handicap mentale, o giustamente si specifica persona con disabilità fisica e/o cognitiva.

Tornando a me, alla mia disabilità e a quanto questa interferisca, o a me sembra che interferisca, tra me e gli altri; spesso gli altri preferiscono evitarti, non vederti perché sono o forse mi fanno sentire… colpevole di avere qualche esigenza in più perché sono disabile. Sono colpevole di essere disabile. Sembra come se al momento del parto qualcuno mi avesse chiesto:

-Senti un po’ ma tu come vuoi essere?

-Eih dici a me?

-Si!

-Ammazza cominciamo con le domande difficili!

– Aoh non ti lamentare: ne dovrai prendere tante altre di decisioni difficili… Beh allora? Si può sape’?

– Beh io vorrei essere diversa, muovermi in modo anarchico, con un bel handicap motorio… che dici di questa idea?

– Contenta te! Non ti faccio respirare per 5 minuti e sei a posto per tutta la vita!

-Ma perché mi trovo qui?

-Ahahah il destino a volte si diverte, ma non ti preoccupare capirai tante cose crescendo!

Mi sa che non è andata proprio così…!

Sono nata, crescita e tanta gente è fuggita da me, dal mio handicap e soprattutto ha preso le distanze, in vario modo, dalla mia famiglia. La serie qui sarebbe bella lunga… recenti, meno recenti, uomini soprattutto, ma a anche donne… persone importanti e meno importanti (a seconda del grado di parentela, affettività, conoscenti, insegnanti, persone che per fortuna appartengono al passato. Un passato che spero si riproponga il meno possibile…) Io li divido in ordine di importanza e cronologico, ma questa sono io…! Forse altri fanno ancora di tutta l’erba un fascio, e questo è un handicap/problema, qualcosa che toglie la serenità con se stessi, con me, con gli altri.

A volte io stessa devo capirmi, capire la realtà e prendere delle decisioni. In prima battuta sbaglio perché tendo a fare una scelta piuttosto che un’altra per compiacere l’altro poi con fatica emerge la mia decisione, e con il passare del tempo questa prende forma, per me e per chi non si sforza di capirmi.

L’altra mattina ho fatto un incubo: ero rifiutata da un uomo, ciò ha rovinato un momento importate e magico… proprio perché lui pensava “ah ma  è disabile” (il sogno era più lungo ma posso anche non dilungarmi.) Le cose brutte si ricordano di più, i brutti sogni rimangono impressi per giorni e giorni. Comunque faccio finta di niente “per far star bene gli altri”, per non litigare, e funziona! Si funziona ma solo per poco tempo…! Anche se dentro hai una rabbia che spacceresti il mondo, non si vede, e funziona fino ad un certo punto! Poi arriva un pretesto banale e esplodi come una bomba ad orologeria, o implodi da sola a casa come un palazzo che viene giù all’ improvviso.

Ma poi i traumi ce li hanno sempre di più gli altri, c’è chi dice: “Mi sono rotto di tutta la famiglia, mollo tutto e tutti perché non accetto la disabilità di Zoe.“ Oppure “Zoe vieni così chi ti accompagna mi da una mano… tanto tu non puoi!” Si però poi gli altri capiscono questo meccanismo e non va bene.

Poi capita che non posso guidare e ti aiutano a patto che lo sappiano tre, quattro giorni prima, se vuoi fare dei giri di punto in bianco rinunciaci! Oppure lo schiribbizzo di fare una commissione all’improvviso fattelo venire giorni prima in modo programmato, o se no cavatela da sola e pagati il taxi. Se non trovi il taxi ed hai un impegno… arrivi in ritardo!

Cito le parole di una persona da me molto stimata che ha provato a darmi delle risposte al mio post su Face-book: “qualsiasi disabilità è sì immaginabile, ma non la si può sperimentare; perchè la realtà e la vita ha senso solo se è vera; e la vita, qualsiasi essa sia, è bella e non la si può barattare con nessuna condizione di (dis)abilità. Zoe Rondini questo lo sa; e sulla sua “esperienza” ha scritto un libro fantastico “Nata Viva” che consiglio di leggere a tutti, abili e disabili, normodotati e superdotati, piccoli e grandi, maschi e femmine. Una lettura che farà ricredere chi è convinto che la (dis)abilità è… barattabile o, comunque, una condizione esistenziale di cui sbarazzarsi.”

È bello che tante persone da me stimate, tante scolaresche, alcuni professori universitari abbiano capito tanto di me con la lettura di quel libro, il rapporto con nonno, mia sorella, gli amici… è migliorato grazie al romanzo e questo è più bello dei tanti progetti portati avanti con successo e soddisfazioni.

Delle altre persone che dire? Nel poema pedagogico di Anton Semenovyc Makarenko, uno dei fondatori della pedagogia sovietica, nato a fine 800, parla dei ragazzi moralmente handicappati, niente di più attuale e convincente a mio avviso, fa riflettere che nell’800 era una cosa riconosciuta ed assodata, oggi non si può dire altrettanto.

In conclusione non auguro a nessuno di essere disabile, ne alla gente in gamba: perché lo dovrebbero essere/diventare? Ne alla gente che forse lo è… ne alla gente che ha già un carattere particolare perché augurarli l’aggravante? Poi ci sono quelli che probabilmente hanno paura di esserlo veramente o diventarlo ma già lo sono e non lo dico io, ma Makarenko. Infine non lo auguro ai bambini che nasceranno perché la disabilità è uno svantaggio, spesso è indelebile a volte ma solo per periodi di tempo rapidi e ben determinati è una risorsa.

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Nata viva e l’attuale condizione dei disabili nel nostro paese

Ringrazio la giornalista Dianora Tinti che con la sua intervista mi ha dato modo di esprimermi su temi a me cari come il mio romanzo di formazione, il cortometraggio, la famiglia ma anche la condizione dei disabili nel nostro paese.

Buona lettura.

 

Zoe Rondini è uno pseudonimo. Perché questa scelta?

Ho scelto di cambiare tutti i nomi del libro, anche il mio, per essere più libera di raccontare tutta la verità dal mio punto di vista su vicende anche “scomode”, che mi hanno fatta soffrire e riguardano, la famiglia, i parenti, gli insegnanti, i medici, i fisioterapisti ect!

Sicuramente tu non incarni l’immagine della ragazza disabile. Il tuo è un aspetto costruito, il risultato di molto impegno o semplicemente il tuo modo di porti?

Mi  ritengo una ragazza disabile come tante… comunque grazie a tanta fisioterapia e logopedia sono migliorata ed è migliorato il mio modo di pormi. Se esco curo trucco e capelli… ma tutto con naturalezza, per questo non ho un immagine molto “costruita”: è semplicemente un modo di pormi.

 Tu vivi da sola in una bella casa, guidi l’auto, hai un Blog, una laurea di cinque anni e scrivi.  Secondo te i pregiudizi sui disabili sono veramente soltanto gli altri ad averli oppure a volte sono loro stessi a crearseli?

A mio avviso in Italia i pregiudizi legati ai disabili e vari aspetti della vita sono ancora tanti, qui c’è l’assistenzialismo, “poverino il disabile non può amare, lavorare, uscire da solo e come gli altri, divertirsi, avere storie sentimentali… ma perché anche loro “pretendono“ queste cose?” è chiaro che così le persone si sentono discriminate e ghettizzate… si sentono vittime di un sistema che non li aiuta e li valorizza abbastanza (basti pensare che per un posto di lavoro valgono più i tirocini dei vari titoli di studio) questo genera rabbia, frustrazione, senso di inadeguatezza. Con la nostra società attuale  per l’autocommiserazione ed il vittimismo c’è molto spazio, il passo è breve  anche se non dovuto e giustificato…

Per il mio prossimo libro ho intervistato molti disabili e persone normodotate che conoscono bene il mondo della disabilità; è stato interessante e positivo vedere come i disabili affrontano i loro limiti e le sfide della loro condizione, come desiderano una loro “normalità“ ed emancipazione. Le donne più degli uomini, questi ultimi, non tutti s’intende… ma molti sono più propensi a rimanere eterni bambini. Gli piacciono le coccole della mamma e ricercano lo stesso trattamento nella loro donna (e questo in parte mi ha fatto perdere la fiducia in una vita di coppia piena ed appagante per me…). È stato difficile ma entusiasmante aiutare i disabili a parlare di sé, della loro situazione, di come cambierebbero le cose, dei loro sogni ed aspettative.

Pensi che la condizione dei disabili negli ultimi anni sia migliorata in Italia?

Ci sono molte leggi, anche troppe, ma secondo me siamo ancora lontani da un sistema in grado di garantire una vita “dignitosa” ed autonoma alle persone disabili. Questa conquista riguarda purtroppo poche persone, ed è dovuta il più delle volte ad uno sforzo personale a al sostegno della famiglia. Le realtà dei disabili che vivono in case-famiglia e istituti è ancora significativa: si stima che queste strutture abbiano circa 300.000 “ospiti“ .In queste strutture spesso non si fanno abbastanza percorsi individualizzati, non si promuove abbastanza l’autonomia e spesso si tende a far vivere insieme persone con handicap cognitivo con chi ha solo un handicap motorio. Sono dei parcheggi, dove si fanno vari laboratori manuali, si mangia, si dorme, si prega… Certo meglio che vivere abbandonati a se stessi… ma nella vita di chi non ha un deficit cognitivo ci può e ci deve essere di più.

Una valida alternativa sarebbe promuovere l’autonomia e la coabitazione delle persone con disabilità. Ma pochi attuano percorsi di questo tipo… conosco solo l’Associazione Oltre lo Sguardo Onlus che si batte per questo! Lo stato preferisce aprire altre strutture e fa lavorare le cooperative…!

Quando ero piccola tutti mi dicevano che ero uguale agli altri bambini, poi crescendo mi è venuto qualche dubbio… Inizia così Nata viva il tuo romanzo d’esordio in gran parte autobiografico, fra l’altro simpatico ed ironico. Cosa o chi ti ha spinto a scriverlo?

Ho cominciato a scrivere i miei ricordi a 13 anni, a causa di un lutto famigliare improvviso, inaspettato e doloroso. Fin dall’inizio volevo narrarmi agli altri, volevo scrivere un’autobiografia non un diario giornaliero. Ho interrotto la scrittura due volte, per correggere e ampliare anni dopo con l’aiuto di esperti. Come dici tu lo stile è volutamente ironico ed autoironico, rapsodico, alterno capitoli seri a tematiche più leggere. Questo lo rendono un libro avvincente, da leggere tutto di un fiato per scoprire presto l’epilogo delle vicende di Zoe.

Dopo varie stesure e correzioni, finalmente l’ho concluso e fatto pubblicare. Il sogno si è avverato: il libro ora è per i lettori!

Qual è il target di persone al quale si rivolge Nata viva?

Dopo aver riscosso successo tra gli adulti, i genitori di persone disabili, professori ed appassionati di romanzi autobiografici… l’ho presentato alle scuole medie e superiori, lo rifarò perché con i ragazzi ho riscosso molto successo: tocco tematiche dell’infanzia, l’adolescenza, cose a loro affini…

Comunque è bello avere un target eterogeneo ed ascoltare buoni riscontri nelle varie presentazioni, nelle scuole, all’università  (ho tenuto degli incontri nella facoltà di Scienze dell’Educazione e della Formazione, alla Sapienza di Roma). Non nego che fa anche piacere avere parecchi riscontri di persone che mi scrivono su F.B. o via mail dicendo che hanno letto il libro o lo vogliono leggere per capire meglio un figlio, un parente disabile o perché loro stessi vivono una condizione di disabilità e cercano degli esempi, degli spunti, delle soluzioni.

Ed in particolare, cosa possono ricavare da queste pagine i lettori con disabilità?

Tanti mi hanno scritto che anche loro hanno combattuto le mie stesse battaglie, hanno o volevano la mia tenacia. Anche mamme di bimbi disabili si stanno interessando al libro, per capire meglio come affrontare la crescita dei figli senza far mancare loro i sostegni necessari.

Quali sono i ricordi principali legati alla tua infanzia e adolescenza?

Racconto i ricordi belli e divertenti legati a Rickie, il secondo marito di mia madre, scomparso prematuramente ad agosto 1994, i tanti insegnamenti dei miei nonni ( allegato in appendice alla seconda edizione il lettore troverà il racconto “L’ultimo acquarello“ che approfondisce la figura di mio nonno  Adriano) il rapporto un po’ conflittuale con mia madre, anche se poi era lei che giocava con me e mi raccontava barzellette e storie dei pirati prima di darmi la buona notte. I bei viaggi, le vacanze e i conflitti con i fisioterapisti ed il personale scolastico… insomma c’è tanto nella mia vita e nel mio romanzo!

Come è cambiato nel tempo il rapporto con il tuo corpo e la tua femminilità?

Anche se ho una disabilità, per fortuna non ho avuto i soliti complessi che hanno le ragazze. In generale mi piaccio, a volte un po’ di più a volte un po’ meno, ma è normale. Mi piaceva molto essere apprezzata da mio uomo… purtroppo adesso sono single: dopo l’ultima storia finita più male di quanto ho dato a vedere… ho smesso di cercare!

In una recentissima intervista rilasciata al Venerdì di Repubblica hai parlato anche delle donne importanti della tua vita, soprattutto mamma e nonna. Cosa hanno significato per te?

È vero, mi hanno trasmesso tanto, abbiamo condiviso tante battaglie, viaggi, vacanze, ore di attesa da innumerevoli medici. È stato un successo l’articolo di Repubblica, la mia famiglia, il mio migliore amico, gli amici sono fieri di me e credo e spero anche i miei nonni e Ricky da lassù. Un’altra donna importante della mia vita è mia sorella, quando ho scritto il libro i 9 anni di differenza si sentivano molto, per lei leggere il libro è stato un modo per capirmi di più, adesso che siamo entrambe adulte condividiamo interessi, viaggi, cinema, musei, amicizie in comune… e perché no buon cibo. Mi sono pentita di aver parlato poco di lei… ma nel secondo libro ha ampio spazio con un’ intervista, nei ringraziamenti ed ho dato il giusto risalto ad altre sorelle e fratelli di persone con disabilità.

Quali sono i tuoi progetti per il futuro? Scriverai ancora?

Ora vorrei pubblicizzare il romanzo Nata viva, edito dalla Società Editrice Dante Alighieri e l’omonimo cortometraggio della regista Lucia Pappalardo realizzato grazie al supporto dell’Associazione Nazionale Filmaker Videomaker Italiani.

Sto anche ultimando, appunto il secondo libro, un saggio su disabilità e temi di tutti i giorni: famiglia, lavoro, scuola ed università, amore e sessualità, arte, hobby ect. Anche quest’ultimo progetto è condiviso con Matteo Frasca, amico e consulente letterario con il quale ho terminato di scrivere Nata viva e l’abbiamo portato nelle scuole.

Ma di questo secondo libro preferisco aggiungere altri dettagli più avanti!

Dove possiamo trovare te e il tuo libro (link, blog etc) ?

Il libro è in vendita sul sito della Società Editrice Dante Alighieri

ed il cortometraggio si trova su You-tube 

 

 

Vuoi lasciare una frase, una citazione, un pensiero, una riflessione per i lettori di Letteratura e dintorni?

L’incipit l’hai citato giustamente tu. Per non ripetermi mi piace anche l’ultima frase: Eppure la vita riserva inaspettate sorprese alle persone che nonostante tutto… nascono vive!

 

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Consapevolezza della diversità come maturità conquistata

Resoconto del Convegno Narrare la disabilità tra parole e musica

 promosso dal Comitato Unico di Garanzia (CUG) e dal Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne (DICAM) dell’Università degli Studi di Messina.

In prossimità della Giornata Mondiale del Libro, edizione 2015, ho avuto l’onore ed il privilegio di presentare il mio romanzo di formazione “Nata viva“, edito nel novembre 2015  grazie alla Società Editrice Dante Alighieri.

La presentazione ha avuto luogo presso l’Aula Magna del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne (DICAM) dell’Università di Messina. L’evento aveva come titolo: Narrare la disabilità tra parole e musica e vi hanno preso parte la prof.ssa Antonella Cocchiara, presidente del CUG, la prof.ssa Annamaria Curatola, associata di Didattica e Pedagogia speciale, nell’ambito del convegno sono poi intervenuti, con relazioni che si sono focalizzate sul romanzo di formazione, la Prof.ssa Caterina Benelli, ricercatrice di Pedagogia; il Prof Giuseppe Fontanelli, associato di Letteratura Italiana e Contemporanea, la Prof.ssa Marianna Gensabella, ordinaria di Filosofia Morale e, a chiusura dell’evento, mi è stata passata la parola per un intervento conclusivo in quanto autrice dell’opera. L’evento è stato aperto dall’introduzione e dai saluti del Professor Mauro Bolognari, direttore del DICAM.

L’uditorio era attento e composto da studenti in formazione del corso di laurea di pedagogia, presenti anche esponenti di associazioni che si occupano dell’handicap su tutto il territorio nazionale e i tirocinanti del TFA, insegnanti in formazione, che hanno saputo ben cogliere l’aspetto pedagogico del romanzo, sottolineato dai relatori.

La presentazione del libro è stata fortemente voluta ed organizzata dalla Prof.ssa Gensabella nell’ambito della più ampia manifestazione su disabilità, narrazione e musica che si è svolta nelle giornate del 23 e 24 aprile.

Il romanzo è stato presentato sotto tre diverse prospettive: letteraria, pedagogica e filosofica.

Ad aprire la discussione è stata la prof.ssa Cucchiara, Presidente del CUG, Comitato Unico di Garanzia per le pari opportunità, che ha ringraziato gli organizzatori delle due giornate, spiegando il programma di esse e parlando più nello specifico dell’attività del CUG. Esso è andato a sostituire il Comitato delle Pari Opportunità dell’Università di Messina, ed affronta i temi della discriminazione in modo ampio, spaziando dal razzismo, alla discriminazione di genere, razza e religione, al mobbing, alla violenza sulle donne e alla disabilità.

La Cucchiara, nel suo intervento, ha posto l’accento su un aspetto rilevante: la disabilità si può trasformare da motivo di discriminazione in risorsa, perché ciò avvenga, continua la professoressa, bisogna innanzitutto conoscere le diversità, e poi avviene il riconoscimento e quindi l’elemento fondamentale – tanto auspicato da noi disabili – quello della valorizzazione.

E’ infatti fondamentale, come affermato dalla Cucchiara, e ampiamente condiviso da chi scrive, riconoscere un valore nella diversità e saperle dare il giusto rilievo. La disabilità va guardata in faccia senza paure, pietismi o pregiudizi. Purtroppo ancora spaventa tanti perché mette loro di fronte alle proprie fragilità e mancanze, allora si tende ad evadere.

Quanta emozione e sgomento ho provato nel veder condivisi i temi affrontanti nella mia scrittura (il libro, gli articoli del mio portale, i copioni teatrali e di un cortometraggio, i post su Facebook) dai relatori del convegno.

La Cucchiara nel suo intervento ha fornito alcuni dati rilevanti: i disabili nel mondo sono circa seicentocinquanta milioni, oltre il 10% della popolazione globale, solo in Italia sono sei milioni… A mio avviso si può essere orgogliosi di essere diversi per genere, razza, orientamento sociale, religioso, sessuale etc.. ma non di essere disabili, perché aldilà di quanto si afferma non è semplice fare di una “debolezza“ una virtù, non è semplice in un contesto sociale in cui chi richiede un aiuto in più, un sostegno, è visto come un peso.

Tornando ai punti del discorso della prof.ssa, essa mette in luce un altro concetto veritiero, riprendendo il pensiero del prof. Gaetano Tortorella: “ciò che temono i disabili, non sono tanto le barriere architettoniche, quanto le barriere mentali“ e io posso aggiungere che non c’è rabbia più grande di quella che scaturisce nei confronti di chi non vuol vedere la mia disabilità, di chi minimizza o peggio di coloro che offendono, non riconoscendo le mie capacità e punti di forza.

Sostiene la prof.ssa Cocchiara: “attraverso la narrazione autobiografica dell’autrice, il cui nome d’arte è Zoe Rondini, il narrarsi è il modo per rielaborare e riprogettare la propria esistenza, ciò vale per Rondini, ma anche per tutti coloro che scrivono un’autobiografia. Zoe ci racconta che quando era piccola è nel disagio degli altri che lei percepiva il suo non essere uguale agli altri bambini.“

L’handicap diventa una risorsa quando le capacità vengono stimolate e valorizzate. Così finalmente la disabilità diviene l’input per raggiungere e far raggiungere traguardi che ci parevano imprevedibili, sia ai normodotati, sia alle persone con disabilità; ciò dimostra come quest’ultima rappresenti un motivo di realizzazione non solo per il disabile, ma anche per tutti i così detti normodotati!

Di seguito la parola passa alla professoressa Annamaria Curatola, la quale si sente di condividere la constatazione precedente sull’impreparazione della società ad accogliere ed includere l’handicap. Interessante risulta l’invito a guardare oltre, per creare una società migliore non solo per i disabili, ma anche per molte categorie di persone. La professoressa ha coinvolto i suoi studenti del corso di Pedagogia Speciale a vivere la città bendati, o a partecipare a delle cene al buio. Trovo lodevole queste iniziative atte a mettersi nei panni di chi è diversamente abile, peccato che certi “esperimenti didattici“ non siano estesi a tutta la nostra società, a tutte le scuole e facoltà umanistiche presenti in tutto il territorio nazionale.

È necessario, secondo la Prof.ssa, che i disabili e le loro famiglie trovino un valido supporto per vivere la scuola, trovare un lavoro adatto alle proprie competenze e capacità, è fondamentale essere adeguatamente supportati per portare avanti il proprio progetto di vita. C’è dignità in un lavoro vero e proprio, non in situazioni scolastiche e lavorative dove la persona disabile non fa nulla ed è abbandonata a se stessa. Per tutto questo è necessario un valido aiuto formativo e costante per un progetto di vita ad ampio respiro.

Successivamente a prendere la parola è la prof.ssa Marianna Gensabella, ordinaria di Filosofia Morale. Il suo è stato un intervento appassionato ed appassionante poiché mi conosce da vicino e non solo per mezzo delle pagine della mia autobiografia. La prof.ssa ha messo in luce l’importanza delle testimonianze autobiografiche e non, che le persone con disabilità possono fornire alle persone normodotate. Questo perché forniscono dei canali di accesso all’esperienza della disabilità piena. La professoressa Gensabella distingue infatti tra una disabilità piena e una disabilità temporanea, occasionale o parziale. Di quest’ultima tutti, sostiene la Gensabella, abbiamo avuto esperienza quando siamo stati malati, ma anche semplicemente bambini e incapaci di badare a noi stessi. La condizione di disabilità piena è però cosa diversa, ristretta ad un porzione, seppure considerevole, della popolazione. I filoni che si vanno affermando dell’etica narrativa e della bioetica narrativa possono, in questo senso, presentare il valore aggiunto di far entrare, attraverso la voce narrante di persone che hanno diretta esperienza di disabilità, dentro quell’esperienza, riuscire ad attirare lo sguardo che Joan Tronto, esperta di etica della cura, definisce lo sguardo dell’attenzione. In questa prospettiva la professoressa Gensabella inserisce, il romanzo autobiografico e di formazione Nata viva. 

La professoressa si è dunque soffermata a narrare il libro, cominciando dalla scelta del nome d’arte: Zoe indica la vita, e Rondini simboleggia la libertà, il volo degli uccelli. Il valore del testo sottolineato dalla Gensabella è quello di rinvenire in un romanzo quelle teorie e quei principi sulla disabilità che si ritrovano in testi didattici, filosofici e di bioetica.

Zoe narra la difficoltà di vivere da uguale agli altri bambini, ma pian piano prende coscienza di essere diversa. Il libro mette però in luce, secondo la prof.ssa, che non si è risparmiata di leggere alcuni brani durante la presentazione, una crescente consapevolezza della diversità riflessa nello sguardo degli adulti, nei movimenti e giochi degli altri bambini. Anche secondo lei “negare le differenze come scrivo nella premessa non è un’arma per combatterle, anzi ciò genera rabbia. La normalità è un valore rassicurante, ma è anche e soprattutto un concetto astratto. Cos’è normale? Niente. Chi è normale? Nessuno. Negavo la normalità forse per legittima difesa“.

La normalità è un concetto diventato valore, ma dovrebbe essere ridiscusso e ripensato. È anche un concetto con il quale dobbiamo fare i conti per capire ciò che si può realizzare e cosa no.

Anche la professoressa Gensabella sottolinea l’importanza del ruolo che hanno le persone normodotate nel creare una società più giusta. Nel parere di chi scrive, tuttavia, la costruzione di una società più giusta, più etica ed inclusiva non è una missione che deve essere affidata esclusivamente alle persone normodotate, ma vi dovrebbe essere una collaborazione tra disabili e non. A tale proposito riprendo le parole della Professoressa Gensabella: “dobbiamo, quella differenza, non semplicemente rimuoverla dal punto di vista ideologico, fermandoci all’uguaglianza, ma cercare di vederla, accoglierla, capirla ed aiutarla”.

Per aiutare i disabili la parola chiave emersa dal convegno è stata: inclusione. In molti momenti della vita di Zoe e della sua famiglia appare la voglia e la ricerca un aiuto da parte di una società più giusta. La Gensabella sottolinea come nel romanzo un ruolo importante viene rivestito dalla fisioterapia, ma questa appare quasi violenta nel tentativo di normalizzare e viene rifiutata, perché dolorosa, perché impedisce il gioco, perché non tiene conto della psiche di Zoe, ma è anche utile ed essenziale.

Quante verità e sfaccettature sono emerse, ma forse le pagine più importanti sono quelle dedicate all’inclusione negata; ovvero le pagine nelle quali si esce dal territorio “protetto“ della famiglia, per arrivare in quello meno protetto dei coetanei. La prof.ssa si è soffermata sulle pagine dolenti della scuola (dove anche qui il tono ironico non reca sconti a nessuno), condivido questa selezione di argomenti visto che la maggior parte degli uditori si trova o si troverà a lavorare nel mondo della scuola. Zoe, racconta la Gensabella: “è in qualche modo privilegiata, appartiene a una famiglia con un certo spessore culturale, con possibilità economiche, disponibilità intellettuali alte, e tuttavia si è scontrata con molti contesti ostici, che non l’hanno aiutata malgrado una famiglia attenta, vigile, che ha sempre cercato e voluto il suo bene. Si è messo in evidenza la negazione da parte delle compagne di classe nel porgere il braccio per camminare, era tutta qui la richiesta d’aiuto di Zoe. Perciò Zoe ha avuto problemi a viversi i momenti ludici e di socializzazione come la ricreazione e le gite scolastiche.”

Infine la Gensabella ha fatto riferimento al progetto, portato avanti da me e dal mio consulente letterario, Matteo Frasca, per diffondere “Nata viva“ nelle scuole medie e superiori, per far sì che gli studenti di oggi non si trovino a vivere le mie esperienze di disagio.

La professoressa Benelli sottolinea, inoltre, l’aspetto sociale della lettura del romanzo di formazione Nata viva, in quanto occuparsi ed inserire nell’ambito delle lezioni universitarie, ma non solo, testi di questo tipo aiuta a conoscere e ad avvicinarsi a situazioni diverse. Si concentra quindi sul testo “Nata viva“ e sull’origine del desiderio di espressione di sé dell’autrice e su quanto la scrittura sia stata per Zoe una compagna di viaggio. Le tematiche affrontante nel romanzo risultano condivisibili e ricorrenti in numerosi altri testi autobiografici, alle quali poi si aggiungono le tematiche specifiche legate alla disabilità, che fa da filtro ad ogni esperienza di Zoe. 

Prende da ultimo la parola il professore Giuseppe Fontanelli, associato di Letteratura Italiana Contemporanea, “Il romanzo è di formazione, secondo il professor Fontanelli, anche dal punto di vista personale, nel momento in cui Zoe arriva ad affermare “sono grande. Ho studiato, ho letto molti libri. Ho studiato che il gioco è l’attività più importante che un bambino possa fare“, ma si trova poi a scoprire, nel contempo, che quanto studiato è in antitesi con l’esperienza vissuta, perché da piccola Zoe non ha potuto giocare.

Il romanzo registra la consapevolezza dell’esclusione e insieme lo sforzo per essere come gli altri. In questo l’opera insiste sul valore della normalità, perseguita e sempre disattesa, come nel tentativo di entrare, adolescente, in una discoteca.

Fontanelli nota che in più parti del romanzo ritornano le dimensioni e le sproporzioni del tempo e degli spazi: i cinque minuti in cui è mancato il respiro e gli interminabili corridoi da percorrere camminando senza l’aiuto di nessuno. Ma anche i compagni di classe e le loro urla appaiono a Zoe come un gigante, e messi insieme risultano invincibili. Il romanzo è il continuo tentativo di colmare questi spazi vuoti. Spazio e tempo finiscono per avere una dimensione smisurata. Tale sproporzione ritorna nell’uso frequente dell’avverbio troppo e infine, riprendendo le parole di Fontanelli “una disabile è un persona che chiede agli altri troppo tempo e troppe premure.“

Il romanzo è anche ricerca di un colpevole, il tentativo di urlare contro qualcuno, ma poi Zoe finisce per sentirsi lei stessa responsabile, ma infine viene espressa una maturità conquistata nel momento in cui Zoe afferma “adesso non mi sento più in colpa“. 

Il professore rintraccia alla base del romanzo una poetica del paradosso secondo la quale i normodotati nel dolore e nei sacrifici richiedono il doppio dell’impegno ai disabili, mentre non riescono ad offrire loro divertimento e svago. 

La morale che Fontanelli trae dal romanzo è che il concetto della vita non può essere sequestrato, come non può essere imprigionato il respiro.

A chiusura del convegno mi è stata data la possibilità di tenere un intervento conclusivo, ho voluto concentrarmi su alcuni aspetti importanti per l’inclusione sociale delle persone con disabilità e che non emergono particolarmente nel romanzo, in quanto questo fa riferimento ad un periodo della mia vita maggiormente legato al mondo della scuola e poi dell’università. Queste sono il lavoro e l’autonomia personale. In tal senso ho riportato la mia esperienza mortificante del mio primo tirocinio-lavoro . Esperienza che mi ha rivelato una società impreparata ad interagire con le differenze, che le mette da una parte, per non pensarci e non occuparsene.

Per fortuna con il libro e attraverso la scrittura partecipo ad eventi gratificanti e trovo uno scopo nella comunicazione e nella condivisione della mia esperienza nell’intento di sensibilizzare la società e migliorare, nel mio piccolo e con i miei strumenti, la situazione delle persone disabili in Italia.

A concludere il pomeriggio il concerto dell’Orchestra del Mondo Nuovo, la quale ha eseguito, diretta dal dr. Massimo Diamante, la Fiaba Musicale “Blog o taccuino? Vera storia di un libro e di una blogger che volle tornare alla vita reale“. L’Orchestra vede la presenza di musicisti disabili perfettamente integrati ed all’unisono con musicisti “normodotati“.  

 

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La mia prima esperienza di tirocinio-lavoro

Sono una ragazza che ha conseguito la laurea triennale in Scienze dell’Educazione e della Formazione con lode. Ho terminato il mio percorso di studi specializzandomi in Editoria e Scrittura  alla facoltà di Lettere della Sapienza, votazione 108 su 110.

Mentre studiavo ho pubblicato il mio primo libro, un romanzo di formazione dal titolo Nata viva.

Come tanti altri giovani, anch’io da  neolaureata ho cominciato ad inviare il curriculum ad un numero considerevole di enti sia privati sia pubblici. Molti di questi si sono congratulati per le mie esperienze pregresse, dicendomi che gli sarebbe piaciuto avermi nel loro organico, ma purtroppo non avevano possibilità di assumermi.

Dopo mesi di ricerche, mi si aprì un unico spiraglio per il curriculum inviato al comune di Roma, precisamente allo Sportello Disabili Adulti. Una dottoressa mi chiamò dicendomi che potevo iniziare un “tirocinio-lavoro”. Accettai. E fu così che scoprii la realtà del lavoro per disabili, una realtà che quando mi impegnavo per tenere alta la media dei tanti esami universitari, non avrei mai immaginato. Prima di una vera e propria assunzione bisogna fare un lungo tirocinio e non conta se hai un bel curriculum o meno, se hai una disabilità solamente fisica o un ritardo cognitivo, se sei plurilaureato o hai conseguito la licenza media… Il tirocinio dura sei mesi senza prospettive garantite per il dopo, ed è per tutti di basso livello. C’è chi sistema libri tutto il giorno, chi mette a posto le merci nel magazzino di un supermercato e chi come me dovrebbe catalogare le foto in un grande istituto  per disabili. E’ proprio in un istituto per disabili che mi sono trovata. Avendo una disabilità motoria mi è  stato offerto un “compito” al pc di catalogazione foto e di scrittura. Poca roba direte voi, ma si sa che all’inizio c’è la gavetta per tutti! Andavo lì ogni giorno come un vero par-time peccato che il pc era sempre occupato! Ho fatto pochissime ore di  lavoro effettivo, anche se dovevo andare lì comunque tutti i giorni in quanto avevo firmato un contratto con il comune di Roma, dal quale ho ricevuto un piccolo rimborso spese; mentre il pc serviva ad altro, ad altri o non era ancora stato formattato mi era stato detto che potevo sedermi al bar a prendere un caffè. Pensavo che sarebbe stata una cosa momentanea, invece passavano giorni, settimane,  mesi ed il mio posto sembrava essere solo al bar con altri handicappati che come me non facevano nulla. Non potevano fare nulla! Io attendevo senza rassegnarmi: raccontavo tutto alla psicologa del Comune di Roma che a  sua volta parlava con la mia tutor all’interno della struttura, ma l’unico computer disponibile o non era pronto o era occupato e nell’Istituto non c’era nessuna mansione più utile e gratificante da svolgere. La noia, l’accidia e l’inutilità incombevano, ma non i sensi di colpa. Non potevo sentirmi in colpa per il mal funzionamento dovuto ad altri.

Questa non era la mia prima esperienza all’Istituto, durante la laurea triennale avevo svolto un altro tipo di tirocinio, mi  ero trovata bene. Affiancavo una dottoressa, osservavo dei casi di bambini, disabili e non, con problemi scolastici. Sempre in quell’occasione avevo inoltre seguito un interessante corso sulla Comunicazione Aumentativa Alternativa. A conclusione di quell’esperienza formativa avevo anche tenuto una conferenza, per gli insegnanti, sugli ausili informatici per l’handicap. C’è stata anche un’altra occasione dove il mio vissuto è servito a dare lustro all’Istituto: in occasione della presentazione del mio romanzo autobiografico. In quell’occasione, oltre a parlare del libro, ho presentato la mia evoluzione professionale, all’interno dell’Istituto e all’esterno con un progetto pedagogico nelle scuole. Quest’ultimo progetto è stato molto gratificante: mi ha permesso di raccontare l’handicap a tanti ragazzi di medie e licei che mi hanno accolta e benvoluta anziché  negare la disabilità o non volerla capire come spesso avviene a quell’età.

Al bar vedevo altri disabili che passavano interminabili mattinate a guardare il vuoto, mi ha colpito un ragazzo la cui disabilità non gli permetteva di parlare, lo vedevo sonnecchiare in una posizione scomodissima, erano pochi i disabili non inseriti in qualche interessante laboratorio.

Mentre mi annoiavo feci amicizia con un ragazzo che come me  ha solo una disabilità motoria. Anche lui si annoia ed è molto critico verso l’Istituto. Ci siamo messi d’accordo e abbiamo iniziato a vendere il mio libro a tante persone che passavano per quel bar. Lo so che è sconcertante farsi i propri interessi sul luogo di lavoro, aspettavo  che la mia tutor mi dicesse qualcosa ed ero pronta a rispondere “lo so che non devo farlo ma qui continuo a non aver nulla da fare!” Gli affari andavano a gonfie vele, la mia tutor mi vide fare le dediche, prendere i soldi e non mi disse mai nulla. Le chiesi spesso se la biblioteca, con l’unico pc disponibile, si fosse liberata; mi rispondeva che era questione di pochi giorni.

-Nel  frattempo posso restare a casa? – le chiesi- Comincio a sentire la fatica di venire qui tutti i giorni.-

-Facciamo così: il lunedì sarà il tuo giorno libero, gli altri giorni vieni perché anche se l’esperienza non è come te l’aspettavi puoi firmare la presenza.-

Non capisco questa mentalità di volere vedere gli handicappati  impegnati in qualcosa, non importa cosa e se siano veramente impegnati.

Mi rendo conto della difficoltà di realizzare piani individuali, ma la frustrazione, la rabbia, l’aggressività e l’autolesionismo che possono  sfociare da questa marginalizzazione dei disabili nel mondo del lavoro, o nell’assistenzialismo, di questo sembra che, nella maggior parte dei casi, nessuno se ne preoccupi o se ne occupi nel modo giusto.

All’istituto mi ha colpito una ragazza con ritardo cognitivo e con un problema di udito molto accentuato. Con me era dolce, mi accarezzava, mi chiedeva se avevo una caramella, mi salutava sempre… con gli operatori che la richiamavano ai suoi compiti era aggressiva, urlava e diceva moltissime parolacce. Anche se noi tutti le  dicevamo che le parolacce non si dicono lei continuava: era l’unico modo che aveva per ribellarsi e mostrare i suoi stati d’animo.

Tornando alla spinosa questione del lavoro per le persone disabili, l’articolo 1 della Legge 68/99 recita: “La presente legge ha come finalità la promozione dell’inserimento e della integrazione lavorativa delle persone disabili nel mondo del lavoro attraverso servizi di sostegno e di collocamento mirato”. La Legge 68/99 stabilisce che i datori di lavoro privati e pubblici con più di 15 dipendenti al netto delle esclusioni, siano tenuti ad avere alle proprie dipendenze lavoratori appartenenti alle categorie protette (disabili) iscritti in appositi elenchi gestiti dall’Agenzia del lavoro della provincia di riferimento.

Per le aziende che occupano più di cinquanta dipendenti la percentuale riservata all’assunzione delle persone disabili è il 7%. La legge prevede questo, ma nella prassi applicativa le cose sono molto diverse, molte aziende preferiscono pagare una multa piuttosto che assumere personale con varie invalidità. Inoltre è importante notare che la realtà imprenditoriale italiana è costituita in buona parte da piccole e medie imprese a conduzione familiare (si stima infatti che la dimensione media delle imprese italiane sia di 3,7 impiegati ) per cui è quanto meno residuale, se non irreale, l’obbligo di assunzione previsto dalla suddetta legge e riferito alle aziende con più di 15 dipendenti.

È riconoscibile un fenomeno di integrazione subalterna dei disabili, che prescinde dal titolo di studio e dalle attitudini personali.

Ci sono molte persone che non si arrendono a questa realtà, organizzano associazioni, convegni, bussano a tutte le porte possibili… ma la strada è ancora lunga e la rabbia  cresce di giorno in giorno.

L’esempio riportato dimostra come, ancora una volta, per ottenere il rispetto dei propri diritti si debba portare avanti una battaglia solitaria.

La mia riflessione non vuole essere un’accusa o una lamentela. Durante la recente esperienza sono stata affiancata da due persone, la mia tutor e la psicologa del Comune di Roma, valide, presenti e molto attente al loro lavoro, ma purtroppo impotenti di fronte ad un sistema in difetto.

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