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MEMORIE DI UNA GITA SCOLASTICA

Quanto segue è il racconto o forse una relazione di una cosa che mi è successa nel 1999. l’ho scritta subito dopo l’ accaduto. Non ne ho fatto ne un articolo ne una lettera: l’ho scritta per me, per non dimenticare, e per farla leggere a parenti e amici. Prima di metterla su questo sito ho levato i nomi, ed ho sostituito le ripetizioni con i puntini.

Ho diciannove anni. (…….) riesco a fare tante cose da sola, ma a quanto pare non posso partecipare alle gite scolastiche a meno che non venga mia madre o una persona da lei delegata. (…) Era così anche alle medie, ma più passa il tempo più la richiesta della scuola mi sembra sempre assurda. L’anno scorso mia madre e mia nonna sono andate a parlare di questo problema con la vicepreside, che è anche la mia professoressa d’inglese e, prima di allora, si era sempre dimostrata aperta e disponibile nei miei confronti. In un primo momento sembrava che la situazione si fosse appianata ma poi abbiamo visto che i problemi continuavano ad esserci, anzi la situazione andava di male in peggio: col passare del tempo la vice preside assumeva un comportamento sempre più freddo ed antipatico nei confronti miei e della mia famiglia. Si è arrivati al punto che quando i professori organizzavano una gita sembrava quasi che la organizzavano per tutta la classe tranne che per la sottoscritta, tanto questo non era un problema loro ma solo mio, della mia famiglia e di chi mi doveva accompagnare. (…) Una mattina, ci dissero che le professoresse di due classi stavano programmando una gita scolastica di un’intera giornata in Umbria. Appena l’ ho saputo ho chiesto alla prof X come mi dovevo organizzare; se dovevo essere accompagnata volevo saperlo con un po’ d’anticipo… lei mi ha risposto: “sarebbe meglio venisse qualcuno con te almeno la gita ce la goderemmo di più tutti quanti.” Come risposta era un po’ troppo acida per fargliela passare liscia. Se prima io e la mia famiglia eravamo abbastanza determinate a farmi partecipare alle gite da sola, perché infondo è anche un mio diritto, adesso eravamo irremovibili. Quando sono tornata a casa, ho raccontato a mia madre e a nonna quello che era successo, lei era dalla parte mia, ma allo stesso tempo mi lasciava carta bianca: quando ero piccola ci pensavano loro a questi problemi, invece ora ero pronta e desideravo affrontare certa gente da sola. La gita era fissata per un venerdì, il lunedì precedente io stavo tranquillamente seduta a mio banco, stavo mettendo a posto i libri. La professoressa X e una collega entrano in classe e la prof x ha cominciato a parlare; in un primo momento non gli ho dato molta importanza fin quando non ha fatto il mio nome; precisamente ha detto che avremmo usato quell’ora per parlare di problemi che si erano creati tra me e la classe. Io mi sentivo veramente spaesata: a me non risultava di aver mai avuto particolari problemi con nessuno in classe. Comunque la discussione andò avanti, le mie compagne, incitate dalla prof. X mi dicevano che non se la sentivano di “prendersi la responsabilità morale” di aiutarmi; tutto questo “gravoso aiuto” consiste nel darmi il braccio quando c’è da camminare. Per “difendermi” tentavo di spiegagli che fuori dalla scuola ho una vita “normale”: vado in giro da sola, ho tante amiche in parrocchia ed con loro ho sempre fatto tantissime cose, ho partecipato a feste, gite e pernotti senza aver problemi e quindi proprio non riuscivo a capire come mai loro mi stavano creando tutte quelle difficoltà. Il pomeriggio ero arrabbiatissima. Dopo tanti ragionamenti e lunghi discorsi con mamma; ho deciso che il giorno dopo, all’ora di inglese avrei chiesto alla professoressa se mi dava un po’ di tempo per parlare con lei e con la classe di quello che era successo; non me l’ha permesso, mi fatto parlare con lei a quattr’occhi e per pochi minuti. Il giorno prima lei mi aveva messo in difficoltà davanti a tutta la classe, poi non mi ha neanche dato la possibilità di dire “la mia”. Comunque le ho detto che avevo intenzione di partecipare alla gita come tutte le mie amiche e che mi sarei organizzata per essere autosufficiente. Lei si “arrese” ed io finalmente stavo per partecipare alla gita senza l’accompagnatore. Nei giorni precedenti alla gita ho contattato il museo, mi sono informata se c’erano barriere architettoniche. Anche se mi hanno detto che non ce ne erano, ho richiesto l’assistenza: se avessi avuto bisogno di un aiuto preferivo rivolgermi alla persona addetta, piuttosto che a qualcuno di scuola mia.(…) Il venerdì sono arrivata sul luogo dell’appuntamento attrezzatissima ed in perfetto orario; mi ero portata la mia sedia a rotelle (la uso solo quando viaggio o quando devo fare lunghe camminate) non volevo usarla per stare seduta, bensì volevo camminare spingendola perché in questo modo ho un po’ più d’equilibrio e non devo dare il braccio a nessuno. Appena sono arrivata la professoressa Y mi ha detto che per qualsiasi cosa avessi avuto bisogno potevo rivolgermi a lei; l’ho ringraziata e le ho spiegato che mi ero organizzata per essere il più possibile autosufficiente. Ero felice che in quella gita ci accompagnassero due professori diversi dalle prof del “dibattito“ in classe. Ancora oggi mi domando perché la professoressa X aveva creato quella strana situazione se poi non toccava a lei venire alla gita. Per tutta la giornata le mie compagne di classe hanno fatto finta che io non ci fossi ed io ho fatto lo stesso con loro perché ero “troppo impegnata” a socializzare con le ragazze e i ragazzi delle altre classi. Al mio arrivo al museo ho trovato “l’assistenza” che avevo richiesto. La signorina ha girato la mostra con noi. Io camminavo spingendo la sedia a rotelle proprio come avevo deciso di fare. Durante la visita, mentre guardavo le varie opere d’arte di Burri, che non erano poi tanto entusiasmanti, chiacchieravo e mi divertivo a fare amicizia con gli altri ragazzi delle altre classi. Dopo questa visita siamo andati a vedere Città di Castello, il pullman ci ha lasciato vicini al centro. Io ed il professore abbiamo pensato che era meglio lasciare la mia sedia in pullman: per arrivare nel paese dovevamo prendere una scala mobile e quindi la sedia sarebbe stata solo d’impiccio. Dopo poco ci siamo incamminati verso il paese; io camminavo da sola, il professore era avanti, si girava spesso per controllare se ce la facevo, ed io gli facevo cenno che andava tutto bene. Mentre stavamo camminando una ragazza, che non era di classe mia, si avvicina a me e mi offre il braccio io ho accettato e siamo andate insieme fino al paese antico, poi da lì ci siamo divise io sono andato con una classe e i due professori al ristorante. (…) Subito dopo pranzo siamo ripartiti per Roma. Dopo questa gita sono cambiate molte cose a scuola: quando camminavo per i corridoi salutavo e scambiavo due parole con tantissime persone. Purtroppo però ci sono stati anche molti risvolti negativi: la mattina seguente stavo aspettando l’ascensore per andare in classe quando è arrivata la professoressa X con in mano la solita pila di libri, anche lei voleva prendere l’ascensore così siamo entrate in tre in ascensore, io, lei e una ragazza che si era fatta male a un piede. La prof X, in ascensore mi ha dato in mano tutta la sua montagna di libri. Non ho capito questo gesto, prima di allora non me l’aveva mai fatto perché sapeva benissimo che questo mi avrebbe messa ancor più in difficoltà. In quei giorni mi sono resa conto che lei non aveva la minima idea di come si doveva comportare con me e che la mia presenza a scuola la metteva molto in imbarazzo. la situazione all’ interno della classe era diventata insostenibile: le mie amiche seguitavano ad ignorarmi, nessuna di loro mi diede più il braccio per camminare. (…)Un giorno sono caduta le mie amiche stavano pochi metri più avanti, mi hanno visto benissimo, ma hanno continuato ad andare dritte, nessuna di loro si è fermata a darmi una mano, l’unica che l’ho ha fatto è stata la professoressa d’italiano che stava dietro di me, ci stava raggiungendo per venire al bar con noi. La preside era perfettamente al corrente della situazione perché in quel periodo io, per mia iniziativa, andavo da lei quasi tutti i giorni ad informarla di quello che stava accadendo all’interno della classe e con la professoressa X. ho più volte chiesto alla preside di fare qualcosa per aiutarmi, ma ci volle quasi un mese prima che la preside si decidesse a parlare con la famosa professoressa. Intanto io continuavo ad andare a scuola; per la verità in quel periodo non ho fatto nemmeno un giorno d’assenza perché non volevo dargliela vinta. Un giorno le mie amiche mi hanno chiesto se a ricreazione potevo rimanere in classe perché loro mi volevano parlare, ho accettato; siamo rimaste in classe senza neanche un professore. Loro mi hanno chiesto perché in quel periodo ero fredda nei loro confronti, (bisogna riconoscere che hanno avuto un bel coraggio a farmi una domanda del genere!) io gli ho risposto che veramente ero io che volevo sapere come mai dal giorno della gita si stavano mi ignoravano completamente; loro mi hanno risposto che era “colpa mia” che me l’ero cercata perché avevo combattuto tanto per partecipare alle gite da sola e quindi ora dovevo arrangiarmi. Hanno continuato la discussione dicendo che erano arrabbiate con mia madre e mia nonna perché non le avevano mai ringraziate per l’ aiuto che mi avevano dato negli ultimi cinque anni, e ancora: “secondo noi le tue amiche della parrocchia sono gentili con te per puro spirito di volontariato“. Io cercavo di difendermi, ma quando mi hanno detto quelle cose sulle mie amiche della parrocchia mi sono veramente arrabbiata, gli ho detto che non si dovevano permettere di parlarmi in quel modo e sono uscita dalla classe. Ho telefonato a mamma, le ho detto che ero veramente arrabbiata… e che volevo tornare a casa, lei ha capito e mi ha dato il permesso di uscire da scuola a quell’ora. Quando sono tornata in classe le altre mi hanno detto che era tutto a posto, che avrebbero ricominciato ad aiutarmi. Non ho risposto, ho preso le mie cose e me ne sono andata, anche se avrei voluto dirgli: “grazie mille della compassione”. Pochi giorni dopo tutta questa storia è finita senza un motivo particolare, proprio come è iniziata. L’altro giorno, ho sentito al tele giornale che la mamma di una bambina sorda ha scritto una lettera al Presidente Ciampi per informarlo che d’improvviso alla figlia li hanno tolto l’insegnante di sostegno. Ciampi ha risposto pubblicamente: “bambini difendete i vostri diritti”, Io penso che sia gravissimo che nella scuola accadano certe cose perché la scuola dovrebbe servire ad educare i ragazzi, ma a me sembra che accada tutto il contrario: sono proprio i professori che danno il cattivo esempio. Per me la responsabilità non è solo dei docenti, ma è anche del governo, in quanto sostiene che la scuola è un diritto ed un dovere di tutti i cittadini ma forse ancora non ci sono abbastanza leggi a favore degli studenti diversamente abili.

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“che bel viso peccato” presentazione del libro di Ileana Argentin

Scritto dalla redattrice

Ieri giovedì 29 marzo 2007 al sono andata alle presentazione del romanzo autobiografico: “Che bel viso… peccato“ di Ileana Argentin.
Il titolo del libro, come ha spiegato l’autrice stessa, è la frase che più spesso si è sentita rivolgere dai suoi interlocutori. Perché sembra quasi un peccato che si possa avere un bel viso, una straordinaria voglia di vivere e una grande autoironia se si è disabili. Oppure si pensa che si debba essere necessariamente buoni o intelligenti proprio perché disabili.  Con pungente ironia ed auto ironia Ileana ha più volte detto “come peccato? Ma perché, dovrei essere anche brutta?“
In questo piccolo volume Ileana Argentin, consigliere delegato per l’Handicap del Comune di Roma, racconta, attraverso un percorso umano e biografico, una storia di impegno e di lotte per il riconoscimento dei diritti delle persone portatrici di handicap fisici o mentali, per l’abbattimento delle barriere architettoniche ma soprattutto di quelle culturali.
Inoltre Ileana si mette nella testa e ne sentimenti della mamma, del papà, del suo compagno e del suo cane: fa raccontare a loro la sua nascita, la sua disabilità, la sua vita sentimentale e sessuale. Questa tecnica di scrittura l’ho trovata molto toccante e appassionante per il lettore ed è anche scorrevole e molto curata nei dettagli, nelle descrizioni di vicende, personaggi, battaglie, stati d’animo  e… odori.
“Vorrei tanto far capire alla gente che la disabilità è uno status di vita, non una malattia“. Così Ileana si impegna, nel suo lavoro ed anche con questo romanzo per  sottrarre la condizione del disabile agli atteggiamenti di indifferenza, pietà, compassione o  imbarazzo. Ileana ritiene giustamente che le differenze fanno parte del mondo. Ogni disabile è diverso da un altro disabile, gli uomini e le donne sono molto diversi gli uni dagli altri, le persone si differenziano per l’abilità nel fare una cosa piuttosto che un’altra, chiudi conclude l’Argentin “la diversità tocca tutti, per fortuna.“

Ileana Argentin è consigliere delegato del Comune di Roma per l’Handicap. È stata presidente dell’Unione italiana lotta alla distrofia muscolare, sezione di Roma.

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“Poema Pedagogico” di A.S. Makarenko: dialogo col professor Nicola Siciliani de Cumis

  1. Anton Semenovyč Makarenko

    Professore, potrebbe aiutarci a comprendere meglio il significato dell’espressione “moralmente handicappato” che troviamo nel “Poema pedagogico” di Anton Semenovič Makarenko?

Per provare a spiegare con qualche attendibilità il concetto di “moralmente deficiente”, nel poema makarenkiano, mi ci vorrebbero molto tempo e diverse ricerche. Potrebbe essere addirittura il tema di un corso per la laurea specialistica. Ma provo a dirti almeno questo: il concetto non è, almeno in prima battuta, riferibile a Makarenko (al Makarenko personaggio del Poema pedagogico); è invece, al suo primo apparire nel romanzo (capitolo terzo della prima parte), una definizione dei ragazzi della colonia “Gor’kij” coniata da altri: e precisamente dai componenti del Comitato provinciale dell’alimentazione o da quelli della Commissione Rifornimenti della Prima Armata. Bisognerebbe quindi capire cosa intendessero precisamente loro, quegli “altri”, con quella definizione.

Rimane tuttavia il fatto che, nel suo romanzo, Makarenko recepisce per esplicito quella definizione. Una definizione che assume, a mio parere, un forte valore pedagogico, meglio un forte valore antipedagogico (e drammaturgico): nel senso che, quella definizione “di partenza” collabora direttamente al processo che sta al centro dell’esperienza educativa e letteraria makarenkiana e che sta alla base della formazione “dell’uomo nuovo”.

In altri termini, la mia ipotesi di lettura è questa: che lo handicap morale e sociale dei ragazzi della colonia, nel corso dei fatti vissuti e raccontati da Makarenko, si traduca gradualmente nel suo contrario, cioè in una risorsa morale e sociale per tutti. Ed è ciò che vediamo sia nella prima, sia nella seconda, sia nella terza parte del Poema, che mi piacerebbe rileggere di nuovo, pagina per pagina, per individuare le prove di ciò che dico…

2) Secondo lei, al giorno d’oggi ci sono persone che si possano definire “handicappati morali?

 Dovessi rispondere con una battuta (non è solo con una battuta “ad effetto”), direi: tutti. Tutti noi esseri umani, in quanto tali, siamo in qualche modo dei “moralmente deficienti”. Nel senso che la sproporzione tra come siamo e come vorremmo e dovremmo essere è enorme. Di più, Makarenko ci ha insegnato due cose importanti: il senso di responsabilità individuale è un valore supremo, ma che deve fare variamente i conti con il “collettivo” e diventare, quindi, senso di corresponsabilità. Il presente si alimenta di “futuro”, di “gioia del domani”, di “prospettiva”: il che vuol dire che, oggi come oggi, nel presente, nessuno può essere moralmente soddisfatto di se stesso. Tuttavia, dobbiamo convivere con le nostre contraddizioni, con le nostre insufficienze e deficienze, deficienze morali per l’appunto… Fare quello che ci riesce, pur nei nostri limiti umani, nella direzione di un “dover essere” insoddisfatto.

3) Nel “Poema pedagogico” si parla della possibilità di trasformare un handicap in una risorsa, è davvero possibile trarre del vantaggio da una situazione disagiata?

 Più che parlare di handicap che diventa risorsa, Makarenko rappresenta la vicenda di una situazione umana di “deficienza morale” che si trasforma nel suo opposto: in un’altissima proposta morale. La cosa più importante è questa: la risorsa non riguarda soltanto il deficiente morale, l’handicappato sociale in quanto tale, ma tutti: soprattutto chi handicappato non sembra essere. In altre parole, la straordinarietà della proposta di Makarenko consiste nel fatto di lavorare a più livelli. Da un lato, per il recupero degli svantaggiati morali, per il loro inserimento nella società; da un altro lato, in funzione della formazione di “uomini nuovi”: uomini-pilota, uomini-modello, uomini-esperimento, che esperimentano valori morali e sociali inediti. Valori morali e sociali più alti, rispetto a quelli di senso comune. Pertanto, i ragazzi delle colonie di rieducazione dirette da Makarenko, nell’attingere per se stessi ad una umanità “altra”, finiscono per elaborare un modo inedito di essere uomini, di cui tutti possono giovarsi. Gli ultimi diventano i primi. Il negativo dell’esistenza è la condizione necessaria per concretizzare una positività prima inesistente. La deficienza morale di alcuni rimane alle spalle, trasformandosi in risorsa morale per tutti. Il passato dei ragazzi si azzera di fronte al futuro che ne prende il posto.

4) Al giorno d’oggi, l’handicap fisico può rappresentare davvero una risorsa per la famiglia, per le Istituzioni e finalmente per la società?

 Quando si parla di esseri umani, è impossibile separare nettamente gli aspetti fisici dalla unicità complessiva della persona: intelligenza, bontà, motivi estetici, generosità, equilibrio, senso pratico, progettualità, volontà, capacità di socializzazione, senso degli altri, competenze tecniche. Tutte qualità che non solo “riducono” l’handicap, ma anche e soprattutto fondano risorse. D’altra parte, non si può parlare di handicap in maniera indifferenziata: c’è handicap e handicap; ci sono combinazioni infinite tra questo specifico handicap e le altre qualità della persona; c’è la determinazione del soggetto che può promuovere un esito piuttosto che un altro; c’è il grado di cultura che ciascun portatore di handicap riesce a raggiungere, a decidere dove stare, come collocarsi in mezzo agli altri, quale risorsa rappresentare per sé e per il prossimo.

Voglio dire, in altre parole, che rispetto alle entità collettive che sono la famiglia, la scuola, la società, l’individuo con handicap vale esattamente quanto un individuo senza (apparenti) limitazioni. Tutto sta nel riuscire a fare o tendere a fare la “cosa giusta”; nel riuscire a “farsi valere” come quello o quella che fa e farà la cosa “più” giusta, la cosa “migliore”, la cosa più “apprezzabile”, la cosa “che gli altri non sanno fare”, la “cosa-risorsa” non solo per se stessi, ma per tutti.

Di qui la necessità, per così dire, di educarsi agli altri; di curare il proprio “io”, in funzione di un criterio di retroattività dialogica, cooperativa, sociale, ai limiti delle proprie possibilità umane complessive. Insisto su questo: se una persona è convinta in se stessa di quello che positivamente fa, prima o poi, finirà con l’imporre se stessa anche agli altri (a casa propria, a scuola, nella società); e ad imporlo come qualcosa di necessario, di indispensabile e, per l’appunto, come una insostituibile risorsa.

5) Negli ultimi anni il vocabolario italiano ha inserito il termine “diversamente abile” come possibile sostituzione al termine “handicappato”. Secondo lei, quale vocabolo si addice di più ad una persona che ha un problema motorio e verbale?

 Ma è proprio necessario legare qualcuno ad una parola? Non c’è il rischio che “questa” o “quella” parola siano inadeguate a connotare la complessità e la mutevolezza di una condizione psico-fisica? Definendo isolatamente l’elemento fisico, non finiremmo col deprivarlo di ciò che caratterizza unitariamente l’intera personalità umana che abbiamo di fronte, e, dunque, con dare ad esso un “credito” assoluto che non ha? Non è meglio spostare tutto il ragionamento, e le parole che ne conseguono, verso l’“abilità” tout court, quale che sia: blogger, giornalista, scrittore-scrittrice, attore-attrice, regista, operatore-operatrice culturale, insegnante, direttore-direttrice di un’istituzione?

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intervista su bioetica ed handicap II parte

Con riferimenti alle legge 104

D Può spiegare meglio cosa comporta la legge 140/1992?
R Volentieri. E’ una legge composta di 44 articoli.
Una prima serie di articoli a carattere generale è dedicata alle finalità, ai principi sostenuti dalla legge e a individuare i soggetti che ne possono usufruire (ART 1-8).
Sono appunto i “portatori di handicap“, come all’epoca venivano denominati quelli che oggi si preferisce definirli “disabili“.
Una seconda serie riguarda l’inserimento sociale, i servizi di cui la persona con handicap può usufruire, gli interventi previsti dalla legge, l’integrazione scolastica, la formazione professionale, l’integrazione nel lavoro con i relativi accertamenti e le procedure per l’assegnazione della sede (ART 9-22).
Questa prima parte della legge si riferisce a diritti della persona, che sono correnti con i principi dei diritti dell’uomo (già affermati anche nella costituzione Italiana).
A partire dall’art. 23 la legge si rivolge più direttamente alle Amministrazioni nazionali, regionali e locali, per dettare norme che servono a attuare in pratica i diritti.
Cioè: la rimozione degli ostacoli che impediscono le attività sportive, turistiche, ricreative; eliminazione delle barriere architettoniche; accesso alla informazione e comunicazione, la mobilità personale e collettiva, facilitazioni per veicoli adatti alle persone handicappate (art. 23-28).
Poi vengono gli articoli diretti a facilitare la pratica dei diritti civili: il diritto di voto, la partecipazione sociale, riserva di alloggio; agevolazioni fiscali; provvidenze per i minori handicappati in caso di ricovero ospedaliero; tutela giurisprudenziale dell’handicappato (art. 29-37).
I compiti che spettano alle Regioni sono indicati all’art. 39; quelli che spettano ai commi all’art. 40; le competenze del Ministro degli Affari Sociali al 41; infine articoli di copertura finanziaria, abrogazione, entrata in vigore (42-44).
La 104 è, logicamente, una legge-quadro, che richiede poi molte norme applicative, alcune nazionali, altre regionali. In effetti, queste sono state emanate nei 15 anni che hanno seguito la promulgazione della legge; il problema è quello finanziario per una ampia e reale applicazione, il miglioramento della competenza degli operatori e soprattutto la costante volontà di attuare solidarietà e sussidiarietà verso gli handicappati.

D Ed in Europa?
R In Europa si cerca di rendere sempre più uniformi le provvidenze previste dei vari Paesi, ravvicinando in primo luogo le legislazioni nazionali, ma sviluppando anche programmi comuni sia per la riabilitazione, sia per l’inserimento a pieni diritti nella società attiva. Oggi si parla di “inclusione“ per meglio sottolineare l’essere dentro, pienamente contenuti nel sistema sociale dei disabili come cittadini di uno spazio morale ed economico unitario, senza discriminazioni.

D Lei ha nominato la “parola chiave“ perversa che oggi suscita ancora tante proteste e polemiche
R Certamente, questo è il problema più delicato, difficile a controllare, anche nell’atteggiamento quotidiano verso i disabili.
E’ pur vero che la sensibilità spontanea, popolare, ha fatto molta strada nel cammino della “integrazione“ del disabile nelle attività comuni, e fenomeni di manifesta e plateale intolleranza sono ormai rari (e comunque sono repressi). Ma rimangono forme più subdole di discriminazione, sostenute da pretestuose affermazioni di mancate attitudini e determinati impieghi, o da incompatibilità con i tempi di lavoro e così via.

D La bioetica può fare qualcosa?
R Certamente! Se si ragiona con il criterio del personalismo, a “pari diritti fondamentali“, che si applicano all’essere umano in quanto tale. Il godimento dei beni essenziali che deriva dai “diritti fondamentali“ deve essere assicurato di conseguenza anche al disabile, che va – anzi – sostenuto per concorrere con le sue forze, e le sue capacità, al buon esercizio della vita comunitaria.
Deve poter lavorare, come tutti i cittadini, anche se nelle forme e nella misura delle sue capacità.
Come vede, c’è molto da insegnare anche alle giovani generazioni al riguardo, e questo modello “personalistico“ della riflessione bioetica (che è poi quello della stessa nostra Costituzione Nazionale) può essere un veicolo molto convincente per raggiungere l’obiettivo.

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lettera a Indro Montanelli

A 18 SCRISSI QUESTA LETTURA E MI VENNE PUBLICATA SULLA RUBRICA DI INDRO MONTANELLI SUL “CORRIERE DELLA SERA“
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“Caro  signor Montanelli,
mi chiamo Marzia, ho diciotto anni e vivo a Roma. Sono una disabile motoria: anche se posso camminare con difficoltà, mi è molto faticoso stare a lungo in piedi e, soprattutto, ferma. Il giorno dell’Epifania con mia nonna mi trovavo a Milano. Passando davanti alla chiesa di Santa Maria delle Grazie abbiamo pensato di chiedere se era possibile entrare senza dover fare la fila. L’addetta all’ingresso, alla quale mia nonna con modi assai cortesi si era rivolta, rispondeva con modi sgarbati: “Per legge è vietato”.
Non ho capito come la legge possa vietare un atto gentile e comprensivo verso un disabile! L’addetta soggiungeva anche, alzando la voce “Se non vi sta bene tornatevene a casa vostra!”.
Spero che Lei caro signor Montanelli, voglia pubblicare questa mia lettera, perchè sono rimasta assai dispiaciuta e offesa dal comportamento di questa persona e sento il dovere di segnalare questo episodio affinché altri non debbano subire un’esperienza così sgradevole.

CHE NE PENSATE? MANDATE LE VOSTRE STORIE O COMMENTI A info@piccologenio.it

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Vi presento il portale

Il portale Piccologenio nasce dalla mia vocazione per la scrittura e la comunicazione.

Nei primi anni dopo il suo esordio in rete l’8 marzo 2006, è stato un piccolo blog, con poche categorie che trattavano alcune tematiche inerenti la disabilità, i film e i miei racconti. Con il tempo sono cresciuta, è maturato il mio spirito d’osservazione; la narrazione del sè mi ha sempre aiutata a capire meglio me stessa e la realtà che mi circonda. Ho sviluppato esperienza ed interesse per la pedagogia; tutte le tematiche inerenti al mondo delle disabilità, in particolar modo come questa  percepisce e viene percepita in contesti quali: la famiglia, la scuola, il cinema, il teatro, la rete… Così da pochi scritti sono passata a creare un portale su disabilità e tematiche culturali che più mi appassionano e sento urgenti.

Pubblicare il romanzoNata vivae realizzare l’omonimo cortometraggio con la regia di Lucia Pappalardo e l’Associazione Nazionale Filmaker e Videomaker Italiani   mi ha portato a creare una apposita categoria: questa vuole essere un modo per imprimere, catalogare ed esporre i riconoscimenti ed i progetti tutt’ora in corso che hanno preso vita dal romanzo di formazione e dal mini-film.

Un progetto importante è: “Disabilità e narrazione di sé; come raccontare le proprie piccole e grandi disabilità”; è stato ripetuto dal 2012 ad oggi ed ha come intento la prevenzione al bullismo e rispetto delle differenze. Le classi dove si è svolto comprendono bambini e ragazzi dai 10 ai 18 anni.

Essere Zoe Rondini, autrice, pedagogista e blogger mi ha fatto trovare il mio posto nel mondo e nel mondo del lavoro. È grazie alla mia diversità ed al racconto di essa che ho molte soddisfazioni umanamente e professionalmente. Ho anche la possibilità di esprimere le mie idee tramite le lezioni universitari, convegni e simposi.

Nei primi anni da blogger ho avuto diverse collaborazioni creando varie sezioni che affidavo ad altri, queste sono:  fondazione26; Teatro dell’oppresso; English Theatre of Rome; A.n.g.e.t; la psicologa risponde e hadicap e sessualità. Tale scelta è poi stata abbandonata: non si tratta di un giornale e non ho più paura di non essere in grado di arricchire questo spazio virtuale con contenuti nuovi e multimediali.

Un passaggio molto importante per la mia scrittura sul web e formazione è stata l’esperienza presso il giornale online Piuculture, questa mi ha dato l’opportunità di apprendere e mettere in pratica la scrittura giornalistica più sintetica, essenziale ed immediata. La testata  mi ha anche dato l’opportunità di cimentarmi con la scrittura dei socialnework, queste nuove competenze mi hanno dato un  riscontro positivo ai post che riguardano i contenuti di Piccologenio e Nata viva. Grazie a Facebook e Twitter, mi contattano molte persone con disabilità e le loro famiglie per complimentarsi e chiedermi consigli sulle terapie, i problemi scolastici, vita indipendente, amore e sessualità.

Le categorie che aggiorno di più sono: Nata viva; Articoli della redattrice e Amore e sessualità, sfatiamo i tabù; in quest’ultima cerco di affrontare tali tematiche sfatando miti e pregiudizi. L’intento è da una parte offrire risposte concrete a chi ha un handicap e desidera fare certe esperienze e dall’altra affrontare  le tematiche dell’amore, della sessualità e dell’educazione sentimentale di tutti perché ritengo che tali tematiche ci rendano tutti uguali e tutti diversi: non è saggio negarli o reprimerli portando il disabile a farsi un’idea sbagliata o a esasperata.

Per il futuro spero di rendere il portale sempre più utile alle persone con varie disabilità, alle loro famiglie, a chi è vittima di bullismo e a chi, per diversi motivi si rapporta con questi temi: spero di contribuire ad una cultura dell’inclusione e del rispetto delle differenze. Penso che l’inclusione significhi  accettare le differenze di ognuno e condividere delle esperienze importanti. Contesti come la scuola, in mondo del lavoro, lo sport, il teatro… possono essere fondamentali per costruire un tessuto sociale positivo ed è a questi che mi rivolgo e con i quali vorrei collaborare con la scrittura, i mie studi pedagogici e la recitazione.

Guarda il mini-film:

Nata viva

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Convegno Erickson “Sono adulto! Disabilità diritto alla scelta e progetto di vita”

Zoe torna tra i banchi di scuola: il progetto “Disabilità e narrazione di sé”

Lezione per il master di psicologia della Lumsa 15.07.2018

Nata Viva“ tra i corti finalisti di Capodarco, L’anello debole 2016

L’educazione sentimentale per sviluppare autoconsapevolezza ed empatia

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Film e Libri

 Placenta
Diciotto racconti di piccoli e Grandi
Autore: Matteo Frasca

Racconti o poesie? Nell’uno o nell’altro caso, questo libro ci offre 18 occasioni per vivere una storia dove piccoli e grandi si incontrano e si confrontano, 18 metafore narrative con cui il giovane autore ci spinge nei meandri dei più terribili, profondi, meravigliosi e coinvolgenti rapporti generazionali.

Una leggenda narra di una mamma che non voleva partorire. Non voleva abortire. Voleva tenersi il bambino dentro, ecco tutto.
E così avvenne, il bambino non nacque.
“Se non è nato, non potrà mai morire” pensò la mamma. “In questo modo anch’io non morirò e vivremo sempre insieme”.
I piccoli e i Grandi vivono in mondi completamente diversi… quasi sempre. A volte, infatti, i sogni di entrambi coincidono e allora la placenta diventa veramente un mondo a parte, il contatto reale tra due mondi altrimenti lontani e incomunicabili. I racconti di Matteo Frasca narrano, attraverso l’ironia fantastica che li connota, lo svelamento dell’innocenza dell’infanzia, il recupero della parte bambina che è presente, magari nascosta, in tutti noi. Nel mondo di Placenta l’aria è rarefatta, leggera e allo stesso tempo carica di senso critico. I piccoli, con la loro personalissima filosofia di vita, i gesti e le parole, contribuiscono a mutare radicalmente la visione utilitaristica dei grandi, impegnati nella maggior parte dei casi a valorizzare se stessi e incuranti dei bisogni o dei semplici desideri di chi, stupefatto, li osserva e non comprende il perché delle loro azioni. Leggere questa raccolta significa compiere un viaggio, partire dal profondo e al profondo arrivare. Significa che, almeno per una volta, i giochi dei piccoli e dei Grandi possono essere gli stessi.
«Mi interessa pensare alla scrittura come ad uno smascheramento delle ovvietà. Credo che nulla sia ovvio o scontato quando diventa narrabile. Quando si parla, troppo spesso non si “racconta” ma si “rendiconta” e tante sfumature si perdono, così come viene a mancare l’incanto, la lentezza, l’universo sconfinato delle parole. Scrivere mi aiuta a dare importanza a quello che sfugge ma che continuamente è sotto i nostri occhi. La parola analizza, ferma il mondo e lo re-inventa. Il mio sogno è riuscire a parlare un giorno, grazie alla scrittura, come i piccoli cantastorie, come leggeri ma epici narratori di infinite novelle svelanti noi stessi.»
Matteo Frasca
Casa editrice: Il Filo
Anno di pubblicazione: 2007
ISBN: 978-88-7842-746-4

il libro è in vendita su molti siti, qui ne riporto un paio:

http://www.lafeltrinelli.it/products/2479993.html;jsessionid=B7A7EDB0E0BA593F5776A0A1C2132573.applprod04?atd=1583242

http://www.ibs.it/code/9788878427464/frasca-matteo/placenta-diciotto-racconti.html

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GIOCHI IN CALABRIA

Giochi in Caloria
Durante la vacanza mi è stato chiesto di tenere un laboratorio di narrazione e giochi finalizzati alla socializzazione all’interno del gruppo. Il primo giorno mi sono resa conto che per i ragazzi con ritardo mentale (tutti i ragazzi del laboratorio) era molto difficile lavorare su concetti astratti ed inventare delle favole, ho continuato a stimolarli con nuovi giochi e nuovo materiale i risultati sono stati positivi in quanto i ragazzi hanno prodotto molteplici gioie e cartelloni. Anche i giochi di movimento e di socializzazione sono stati produttivi. Infine posso dire che i ragazzi si sono divertiti ed erano soddisfatti di questo laboratorio.
Qui di seguito sono elencati i giochi che sono stati fatti con la relativa preparazione e relazione finale.

Diamante 17.7.2004    Cesto delle favole
Materiale: Occorre un numero di oggetti pari ai partecipanti.
Modalità: Ad ogni ragazzo dare un oggetto scelto a caso e chiedere di cominciare una storia poi   a turno ognuno va avanti nel racconto inserendo il proprio oggetto
Partecipanti: Carolina, Marina, Francesco, Jenny
Osservazioni: Ho potuto notare che nei soggetti con ritardo mentale è molto difficile formulare   concetti astratti e quindi l’educatore deve pilotare molto il gioco e in qualche modo   quasi sostituirsi alla fantasia del ragazzo

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Diamante 17.7.2004    Le coppie di figure
Ad ogni partecipante ho dato una carta con una figura. La prima parte del gioco è di riconoscere le figure e formare delle coppie dopo di che si passava ad una presentazione incrociata.
I componenti dicevano il proprio nome, la città di provenienza, il proprio hobby, mestiere, ecc.. Nella terza ed ultima parte ogni partecipante presentava il proprio partner al gruppo intero.
Partecipanti: Carolina, Marina, Francesco, Jenny
Osservazioni: Non è possibile giocare con coppie casuali perché sono sempre sbilanciate. E’ preferibile che sia l’educatore a formare le coppie prima di iniziare il gioco.
   
Diamante 20.7.2004    La mezza foto

Materiale: Foto prese da una rivista e tagliate a metà poi incollate su cartoncini rigidi.
Attività: Mescolare e distribuire le foto ai partecipanti. Ognuno copre la sua carta in questo   modo si vengono a formare le coppie. Nella seconda parte del gioco ogni coppia si   deve scambiare delle informazioni personali e poi si passa ad una presentazione    incrociata al gruppo.
Obiettivo: Questo gioco permette di unire un gruppo di persone che non si conoscono e questo è   consigliabile farlo come attività di apertura
Partecipanti: Jenny, Marina, Carolina, Maria Rosaria.

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Diamante 25.7.2004    Isola

Materiale: Cartellone con la foto dell’isola, fogli di carta e matite
Osservazioni: Ho scelto il gioco dell’Isola deserta, ho fatto vedere al gruppo un grande cartellone con l’isola disegnata. Ho chiesto di immaginarsi naufraghi e di avere la possibilità di portare una cosa molto importante, ad  esempio l’oggetto preferito, un animale, degli amici ecc. Ogni partecipante ha manifestato una sviluppata creatività. Hanno deciso di portare un salvagente, delle coperte, un gruppo di amici ed un cane.
Ognuno è riuscito ad illustrare la propria giornata tipo trascorsa sull’isola.

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Diamante 25.7.2004    Cantare una canzone

Dopo il gioco dell’Isola per terminare il laboratorio ho fatto cantare una canzone degli 883 ad Alvaro e Gianni, accompagnati dal gruppo che suonava gli strumenti. Erano tutti in sintonia. Il gioco era stato troppo corto qualche giorno prima, ma ero riuscita a far partecipare tutto il gruppo ed è durato pochi minuti. La soluzione è stata quella di stimolare loro creatività facendogli scegliere la canzone ed il ruolo da interpretare senza imporglielo dall’esterno.
Diamante 27.7.2004  L’attualità  (corto)

Materiale: Parecchie riviste con foto
Attività: Distribuire le riviste, chiedere di scegliere una foto e di spiegare al gruppo il perché   della scelta fatta.

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Diamante 28.7.2004  Collage a tema (lunghissimo)

Materiale: Riviste, forbici, colla, un cartellone
Preparazione: Raccogliere numerose riviste
Attività: Invitare i partecipanti a scegliere un tema,  dare il tempo di cercare foto riguardanti il   tema scelto. Formare un cartellone con le immagini e spiegare il perché si è scelta   quella foto. Infine, inventare una storia su tutte le fotografie.

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Diamante 29.7.2004   gioco STOP        (corto)

Obiettivo   esercizio di coordinamento dei movimenti del corpo coordinare il gruppo in una    melodia
Partecipanti:   Jenny, Carolina, Angela, Marina, Alvaro e Maria Carmen
Modalità:  primo giro un solo movimento
  Secondo giro un movimento diverso
  Terzo giro i due movimenti precedenti legati in un unico movimento
  Quarto giro nuova sequenza di movimenti con un nuovo ritmo e aggiunta del canto   “Giro giro tondo“ durante l’esecuzione
Diamante 29.7.2004  Dimmi la verità (medio)

Materiale: Fogli, penna, pennarelli
Preparazione: Preparare dei cartoncini con delle domande
Attività: Distribuire i cartoncini casualmente, invitare i partecipanti a rispondere alle    domande, incoraggiando una discussione.

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Diamante 30.7.2004  Dibattito aperto (lungo)

Materiale: Sedie posizionate a cerchio
Attività: dare un tema, ad esempio questa vacanza. Ogni partecipante dovrà dire una cosa    positiva e una negativa, avviare una discussione.

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    Tutti in posa
Attività:  Conoscere i movimenti e memorizzare
Finalità: Mimare dei lavori ad esempio la commessa, il barista ed altri mestieri che si possono   mimare in coppia

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    Mimiamo l’orchestra
Materiale: Strumenti musicali
Attività: Usare gli strumenti oppure fare un ritmo battendo le mani oppure facendo altri    movimenti con le parti del corpo, cantare una canzone tutti insieme

   

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IL SIGNIFICATO DELLA SOFFERENZA

Diamante 21.7.2004

Conferenza di Padre Donato Cauzzo La sofferenza è un argomento difficile. Fin dall’antichità l’umanità si è scontrata con questo interrogativo: perché a me ? L’uomo da sempre per sua natura aspira alla felicità, alla gioia. Ma l’esperienza della sofferenza è la più universale: i drammi delle guerre, terremoti, la fame nel mondo ne sono l’esempio più vistoso. Il soffrire è connaturato all’esistenza umana. Allo stesso tempo la sofferenza è un’esperienza strettamente personale, due persone possono essere affette dalla stessa malattia ma viverla in modo differente. Non potremo mai comunicare fino in fondo la nostra esperienza di sofferenza. L’esperienza personale del soffrire è la risonanza che l’evento malattia può avere dentro di me. Ognuno di noi è solo nel viverla, ognuno di noi deve scontrarsi con essa “ Ognuno sta solo sul Cuor della terra trafitto Da un raggio di sole ed È subito sera “ S. Quasimodo L’uomo vive lo scontro tra il desiderio di serenità e l’esperienza del soffrire. Cosa può alleggerire il nostro soffrire ? Il dare significato senza un perché si soffre maggiormente. Scoprire il senso della sofferenza, per poterla vivere in modo significativo, in questo modo aumentano le nostre risorse interiori per affrontarla . La sofferenza come concetto teorico non esiste, esistono uomini e donne che soffrono. La sofferenza tocco il cuore e la carne di chi ne fa esperienza. Quindi la sofferenza è esperienza universale e personale allo stesso tempo. La sofferenza è una realtà difficile da trattare. L’uomo da sempre non si è accontentato di alleviarla ma si è sempre domandato il perché “ che significato ha nella mia vita ?“ Se non si trova diventa assurdo viverla. L’uomo contemporaneo è fragile di fronte alla sofferenza. Il progresso scientifico ha illuso l’umanità di poterla sconfiggere oggi poi si è psicologicamente più fragili rispetto a 70 anni fa quando il soffrire, la morte, facevano parte della vita e pertanto era quasi naturale soffrire, erano più forti perché si riteneva inevitabile soffrire. Noi oggi ci ribelliamo di fronte a qualcosa che pensavamo di poter sconfiggere. La sofferenza è considerata un’ingiustizia quindi viene rifiutata, contestata. Ci sentiamo frodati del diritto alla felicità. Si tende a colpevolizzare qualcuno fuori di noi del nostro soffrire inquinamento, la mala sorte il medico incompetente ……… più frequentemente si dà la colpa a Dio!!! Se Dio è buono e vede soffrire perché non interviene? Perché non elimina la sofferenza dal mondo ? Gesù ha combattuto la sofferenza anche noi dobbiamo combattere evitare quella evitabile, molta sofferenza ce la procuriamo noi, la guerra, gli incidenti stradali, lo sfruttamento delle popolazioni ………. Durante la sterminio del popolo ebreo ci si è chiesti dov’era Dio, ma l’uomo dov’era? L’uomo continua a procurare il male all’uomo. Che significato dare alla sofferenza innocente ? Bambini che muoiono ad esempio è una sofferenza che ci aggredisce. Se Dio è un Padre buono perché permette questo ? Nella Bibbia sono presenti tutte le esperienze umane comprese le tragedie, il dolore, la morte, il male fisico. Nell’antico testamento emblematica è la figura di GIOBBE che la rappresenta la sofferenza dell’innocente. Giobbe uomo buono, ricco rispettoso di Dio, amico di tutti, con una bella famiglia. Viene colpito da un serie di tragedie perde tutto ricchezza, famiglia, si ammala e va a vivere seduto su un letamaio. Gli fanno visita tre amici e sentenziano che la sua sofferenza è un castigo di Dio per qualcosa che lui sicuramente ha commesso. La sofferenza vista come castigo divino è un pregiudizio che sopravvive ancora oggi. Giobbe rifiuta questo. Lui è un uomo buono è insoddisfatto di questa risposta. Egli si rivolge direttamente a Dio, lo contesta e chiede il perché, non riceve una risposta non risolte l’interrogativo, ma ha il privilegio di parlare con Dio il quale lo ammonisce: Cosa pretendi di capire? Richiamo all’umiltà. La sofferenza non è spiegabile alla ragione umana solo Dio ne comprende il significato. Giobbe non ha capito il perché del suo soffrire ma è stato faccia a faccia con Dio ha discusso con lui lo ha conosciuto direttamente ed è contento. Gesù da Dio si è fatto uomo ha preso su di sé la sofferenza umana, non l’ha eliminata. Per realizzare la salvezza ha accettato liberamente di condividere la sofferenza fisica e ance morale. Abbandonato da tutti anche dal Padre. “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Il grido di Gesù è di tanti ammalati dell’umanità che soffre. Gesù passando attraverso la sofferenza ha portato la salvezza. Non ha mai dato spiegazioni teoriche sulla sofferenza, solo nel caso del cieco nato ha ribadito che essa è un castigo di Dio per colpe commesse. La sofferenza è un’esperienza misteriosa che fa parte integrante della nostra vita non spiegabile a livello umano. Come Gesù siamo chiamati a produrre del bene attraverso la sofferenza la quale non è da buttare. Gesù l’ha affrontata per amore nostro. L’uomo attraverso di essa può trovare il vero significato della vita e fare così scelte di solidarietà. La sofferenza è scuola di solidarietà. Chi ha fatto esperienza di sofferenza lascia cadere le cose inutili va all’essenziale ed è più forte nelle situazioni difficili. Attraverso la sofferenza si scopre il vero volto di Dio si instaura con lui un vero rapporto, si purifica una fede sbagliata si inizia un cammino più vero anche se più duro. La sofferenza può produrre del buono vivendola nella solidarietà. Bisogna tentare di trasformarla in occasione positiva. Quindi l’unico spiraglio è la solidarietà. “Cerchi la felicità? “ Seminala nel giardino di chi ti è accanto e la vedrai fiorire nel tuo“.

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LA MIA ESPERIENZA IN CALABRIA

Diamante 29.7.2004

Dal 12 al 30 luglio sono stata all’Hotel dei Focesi a Diamante in un soggiorno organizzato dall’Oasi Federico di cui la Presidente del Comitato scientifico è Sr. Michela Carrozzino. In questo progetto Sr. Michela ha voluto dare l’opportunità a persone diversamente abili appartenenti a un contesto sociale disagiato, di assaggiare moltissime iniziative. Il soggiorno era dedicato a ragazzi con disabilità principalmente mentale, il progetto mirava a svolgere diverse attività: giochi sulla spiaggia, terapia in acqua, cure odontoiatriche, laboratori di musica e durante il pomeriggio venivano effettuati dei laboratori artistici, laboratori narrativi e giochi di socializzazione. Questa esperienza per me è stata come un soggiorno di studio e di tirocinio molto diversa dal mio concetto di vacanza. Un aspetto completamente innovativo sono state le giornate dedicate all’igiene orale con la partecipazione di specialisti esperti nel settore dell’handicap. Questi medici sono stati la Dr.ssa Emanuela Fraschini, il Dr. Simone Bartolotta e l’igienista Gianna Nardi. Questi professionisti hanno visitato i ragazzi, hanno fornito loro consigli su come avere cura dell’igiene orale infine sono andati perfino nelle stanze per verificare il corretto uso dello spazzolino da denti. Secondo me sono state inserite troppe attività, mi domando cosa voleva essere questa esperienza visto che non mi sento di dire né che si è trattata di una vacanza in quanto gli operatori hanno lavorato notte e giorno e per i ragazzi si è trattato di prendere parte ad una serie di attività. Mi sento di paragonare questo soggiorno alle comunità terapeutiche in genere in quanto esse si basano sul bene e sull’organizzazione del collettivo e non del singolo individuo. A questo proposito mi sento di citare il “POEMA PEDAGOGICO“, anche Makarenko, per raggiungere il bene di tutto il suo collettivo utilizza dei metodi forti con i ragazzi privandoli anche di piccole libertà. Per persone portatrici di handicap gravi non è stato possibile un intervento mirato in quanto queste persone hanno bisogno di personale più qualificato. Questo soggiorno è stato positivo per tutti gli altri ragazzi perché purtroppo trascorrono tutto l’inverno chiusi in casa. Qui all’Hotel hanno vissuto una realtà di integrazione. L’Oasi Federico è riuscita a dare un assaggio di normalità e nello stesso tempo si è preoccupata di tutelarli in una struttura adeguata poiché tutte le attività si svolgevano all’interno dell’albergo Un altro obiettivo che “L’oasi Federico“ è riuscita a raggiungere, e non è facile, è stato quello di svolgere varie attività terapeutiche in un luogo che normalmente viene utilizzato per svolgere le vacanze e con persone “normodotate“ che soggiornavano nel periodo estivo. Ho notato molti ragazzi nel laboratorio di narrazione: il primo giorno ho chiesto ai partecipanti di immaginare una storia, avevano molte difficoltà a lavorare su concetti astratti e a liberare la loro fantasia. Con l’aiuto di esercizi svolti utilizzando riviste, cartelloni, pennarelli e oggetti vari sono riusciti a manifestare la loro creatività inventando molteplici favole. Anche la socializzazione all’interno di gruppo è stata stimolata da giochi ed interviste. Anche in questo caso i risultati sono stati evidenti. Considerando che i ragazzi ospitati nell’albergo vivono tutto l’anno esclusi dalla società perché in Calabria mancano le strutture adeguate sia per le cure mediche sia per attività ludiche e di lavoro ritengo opportuno, per ripetere questa esperienza di vacanza, ridurre gli obiettivi dando priorità a quelle attività che possono avere un seguito durante l’inverno anche in questo territorio per una integrazione dei ragazzi disabili nella società. Personalmente preferisco curare in modo completo pochi aspetti piuttosto che dare un assaggio di tante cose che non possono più avere. Ci sono state anche due conferenze nella sala comunale del Comune di Diamante: la prima è stata tenuta da Padre Donato Cauzzo, lui è un padre Camilliano. La conferenza si intitolava “Perché proprio a me ?“. Padre Donato si interrogava sulla sofferenza umana: questa non trova una risposta nella vita dell’uomo. Ha citato il racconto di Giobbe, uomo giusto, che viene colpito da una serie di disgrazie ma che alla fine tutto ciò lo mette in condizione di avere un colloquio intimo con Dio. Padre Donato ha spiegato che il soffrire è un evento che fa parte dell’esistenza umana. Allo stesso tempo la sofferenza è un’esperienza strettamente personale. La sofferenza come concetto teorico non esiste, esistono uomini e donne che soffrono. La sofferenza tocca il cuore e la carne di chi ne fa esperienza. L’altra conferenza è stata tenuta da Sr. Michela Carrozzino e da me, Marzia Castiglione. Questa conferenza era intitolata “Stampa e disabilità“. Avendo esaminato numerose testate ho potuto costatare che l’argomento disabilità non viene quasi mai preso in considerazione. I pochi articoli che lo riguardano sono quasi sempre riportati come fatti di cronaca negativi. Sporadicamente troviamo articoli che riguardano eventi positivi ad esempio atleti disabili che gareggiano e vincono anche persone normodotate. Infine, per me che vivo a Roma, che frequento l’Università, che mi muovo per la città con la mia macchina nonostante il mio handicap questa esperienza è stata formativa ma non una vacanza. Secondo me non è stato formativo tenere sempre i ragazzi chiusi nella struttura, pur rendendomi conto che mancando i mezzi non e stato possibile far vivere loro la vita di tutti i giorni. Per un futuro soggiorno, a mio avviso, cercherei, sacrificando qualche attività, di organizzare delle uscite per far vivere a questi ragazzi un contesto il più possibile “normale“.

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