Il mito del normale

             Disabilità e affettività, il rapporto con l’altro tra paure stereotipi, riconoscimenti.

Anton Semenovyc Makarenko, notissimo pedagogo russo vissuto a cavallo tra XIX e XX sec., ha posto molta attenzione al tema dell’attività condivisa, nel suo Poema Pedagogico. Attraverso questo concetto si fa riferimento al processo interattivo della formazione dell’Io. Questa avviene infatti attraverso un dinamico ed essenziale confronto con gli altri. Per le persone disabili il processo è il medesimo, ma con delle problematiche diverse. Nel confrontarsi con l’altro per crescere e formarsi il disabile si scontra contro il muro della normalità. Si tratta, di un modello perfettibile verso cui si cerca di adeguarsi per rientrare nel senso comune. Per chi nasce diverso la normalità rappresenta un mito, un obiettivo da raggiungere con fatica e sacrificio. Un paradosso reso faticoso dal continuo confronto con gli altri. Quanto detto corrisponde a verità se ci arrendiamo ad un’idea di normalità quale paradigma immobile, già dato e immodificabile;  attraverso le scienze quali la pedagogia e la psicologia conviene accogliere la lezione di Lev Semënovič Vygotskij, psicologo sovietico contemporaneo di Makarenko, che ci invita a comprendere il fatto che  il diversamente abile è solo una persona che deve trovare, o proporre, un percorso alternativo alla via normale . Vygotskij ci esorta a non arrenderci alla biologia, ma a porre il problema delle abilità e della loro formazione  lì dove nasce e dove va affrontato, cioè nella psicologia e nella pedagogia.

Nella mia personale esperienza di disabilità motoria ho affrontato il rapporto mio e degli altri con la disabilità nel mio romanzo di formazione Nata viva. Il romanzo rappresenta la concretizzazione della ricerca costante di una comunicazione con gli altri. Il fil rouge dell’opera è senza dubbio il rapporto con l’altro, rappresentato prima dalla famiglia, poi dalla scuola, dalla relazione tra pari e infine dall’altro sesso.

La famiglia è l’ambiente della socializzazione primaria, in cui si viene accettati e non accettati, nel quale vengono fissate le prime regole di comportamento e dove ci si prepara per il confronto con il mondo esterno. Il modo di porsi dei familiari nei confronti di un membro disabile può assumere diverse connotazioni. Si passa dal rifiuto, alla negazione, alla compassione e infine all’empatia e alla comprensione. Posso dire, nella mia vita, di aver sperimentato buona parte di questi atteggiamenti. Emerge la tendenza a voler proteggere il disabile, considerato più debole e quindi indifeso. Le conseguenze di questo modo di porsi sono più incisive nello sviluppo della socialità della persona disabile di quanto si creda. Tali ricadute si palesano, non tanto nella fase dell’infanzia, ma dall’adolescenza fino al raggiungimento dell’età adulta. È in questa fase che le persone disabili, percepite come eterni bambini  dalla comunità, si rapportano con esigenze e necessità comuni ai loro coetanei. Come la necessità di aumentare la propria autonomia, l’indipendenza e la privacy, di esplorare il campo dell’affettività e della sessualità.

Dopo la famiglia, un tassello fondamentale nello sviluppo del rapporto con l’altro delle persone disabili è rappresentato dalla scuola. È qui che si entra in contatto con il mondo esterno, con un piccolo campione di società che sono i compagni di classe.  La consapevolezza della mia diversità l’ho acquisita proprio a scuola sentendo gli altri bambini che di nascosto ridevano e parlavano di me e dicevano «guarda i suoi scarabocchi» . Nella mia esperienza la scuola ha rappresentato un ostacolo, più che un sostegno. Ero bambina nei primi anni ottanta e probabilmente non vi era una coscienza diffusa sul ruolo fondamentale che insegnanti e maestri hanno nella formazione dei bambini, specialmente se diversi. Fin dalla scuola materna mi sono confrontata e scontrata con la mia diversità. Crescendo il mio rapporto con l’istituzione scolastica non è cambiato.  Alle medie o poi al liceo professori e compagni vedevano in me un problema da risolvere più che un soggetto attivo pensante e desiderante. Era quindi complicato andare al bagno, fare ricreazione in cortile e partire in gita scolastica. Tutti erano terrorizzati di prendersi la responsabilità, forse perché mancava una figura professionale, competente, adibita ad aiutarmi. Nonostante la mia esperienza riconosco che la scuola rivesta un ruolo fondamentale e insostituibile per la crescita di tutti e in particolare delle persone con disabilità. Allo stato attuale è aumentata la consapevolezza su quanto l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità costituisca un punto di forza del sistema educativo di un paese. La scuola dovrebbe essere infatti una comunità accogliente nella quale tutti gli alunni, a prescindere dalle loro diversità funzionali, possano realizzare esperienze di crescita individuale e sociale. Questo avviene attraverso la valorizzazione delle figure professionali che si occupano di formazione e sostegno e anche tramite innovativi piani di integrazione della normale didattica con strumenti tecnologici pensati per le diverse disabilità. Mi riferisco al piano promosso dal MIUR Software gratuiti per gli alunni con disabilità Azione 6 – Progetto NuoveTecnologie e Disabilità. In questo modo si consente a ciascun alunno di portare avanti a suo modo il proprio procedimento di crescita e istruzione raggiungendo medesimi risultati.

Per ultimo, ma non meno importante, è il tema dell’affettività  vissuta dalle persone con disabilità: un tassello importante nel riconoscimento della relazione affettiva con l’altro e nell’affermazione della propria autostima. Nel rapporto affettivo l’altro smette di essere il termine di paragone per misurare la propria diversità, ma diviene complice, parte integrante del proprio Io. È probabilmente in questo settore che paure e stereotipi sulla disabilità si concentrano ed esasperano. Sul tema della sessualità delle persone con disabilità si incrociano lo stereotipo dell’eterno bambino e la paura “sociale“ nei confronti di eventuali soprusi e atteggiamenti non consapevoli. Sotto questo punto di vista si può parlare di una vera e propria discriminazione. L’amore, l’affettività e la sessualità, pongono tutti gli esseri sullo stesso piano e consistono in passaggi fondamentali nello sviluppo delle persona umana. In più sedi mi sono trovata ad approfondire questo tema sia attraverso articoli che con interviste a persone disabili o vicine al mondo della disabilità. Se da una parte ho riscontrato una certa consapevolezza nel riconoscere che questi aspetti facciano parte della vita di ciascuno, dall’altra si è ancora molto indietro sul c.d. diritto alla sessualità e alla manifestazione dei propri sentimenti.  Questa problematica è particolarmente intensa per le disabilità cognitive, che, a differenza di disabilità motorie o minori che si scontrano con tabù prevalentemente culturali, vedono nella legislazione italiana un ulteriore ostacolo. Quest’ultima da un lato paragona quasi specularmente l’attività di avere rapporti con disabili cognitivi a quella con i minori, chiaramente, in entrambi i casi, con l’intento positivo di tutelare il soggetto e dall’altro non riconosce la figura dell’assistente sessuale, già molto diffusa all’estero.

Molto è stato fatto,  molto rimane ancora da fare per sostenere e agevolare le persone disabili nella quotidianità e per un loro inserimento completo e soddisfacente nella società, senza fare della normalità un mito irraggiungibile o una prospettiva continuamente disattesa.

 

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