Limiti impliciti ed imposti alla disabilità

L’indipendenza e l’autonomia sono nodi cruciali della vita di un disabile ed una preoccupazione costante di chi gli vuole veramente bene. Il disabile si trova quotidianamente a fare i conti con il limite. Questo assume varie forme, il limite del suo handicap quindi legato a uno stato fisico, psichico. Non può, non riesce a fare determinate cose… a volte i limiti fisici si tollerano bene, quelli che più pesano sono i limiti nella libertà, nel movimento inteso come autonomia ed i limiti della società.

Al concetto di limite si associa ed è in qualche modo contrapposto quello di libertà. Ma che cos’è la libertà? Non condivido la definizione del termine libertà fornita dal dizionario: “Condizione di chi può agire senza costrizioni di qualsiasi genere.“ Tutti siamo in qualche modo legati ed interconnessi, chi più o chi meno, ma la libertà, come anche la felicità, dovrebbero essere un diritto più che un dovere. Essa può dipendere da noi stessi, ma purtroppo dobbiamo fare i conti con la realtà dei fatti e con una societàche spesso, soprattutto nelle grandi città, non ha tempo e risorse per i più deboli. Magari le risorse si hanno ma vengono mal gestite. Tornando ai concetti della libertà e felicità non penso che questi dipendano solo ed unicamente dalla nostra volontà ed impegno.  In questo articolo vorrei riflettere su diverse tematiche correlate al concetto di disabilità nel nostro paese. A mio avviso il discorso delle pari opportunità, non sta in piedi, è solo un modo di negare i limiti fisici di una persona per nascondersi dietro all’uguaglianza che non rispetta e non riconosce, i limiti, i talenti e la diversità delle persone “diversamente abili“.

Avete mai avuto a che fare con l’esperienza del tirocinio-lavoro pensato apposta per i disabili? Chissà com’è nessuno più offrirvi nulla che faccia al caso vostro.  Non si tratta solo di un’esperienza ed un’opinione del tutto personali: i dati sul lavoro e disabilità riportati in un articolo di Maria Giovanna Faiella per il Corriere della sera non sono incoraggianti, ma meritano di essere riportati: “L’Italia è indietro rispetto agli altri Paesi riguardo all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, come dimostrano i dati sui tassi di occupazione. In Francia, dove come da noi il 4,6% della popolazione ha un riconoscimento amministrativo della propria condizione di disabilità, si arriva al 36% di occupati tra i 45-64enni disabili, mentre in Italia, per la stessa fascia di età, il tasso si ferma al 17%. In Germania si arriva al 50% di occupati. Secondo la ricerca, da noi è difficile trovare un lavoro una volta completato il percorso formativo: meno di una persona con sindrome di Down su tre lavora dopo i 24 anni, e appena una su dieci tra gli ultraventenni che soffrono di autismo. Non è facile nemmeno mantenere l’occupazione in seguito a una malattia cronica che causa una progressiva disabilità, come la sclerosi multipla: lavora meno della metà di chi ha tra i 45 e i 54 anni.“

Anche uscire di casa, muoversi, spostarsi, avere degli amici, vivere una relazione di coppia possono essere traguardi raggiungibili o irraggiungibili. Molto, anzi troppo, è ancora affidato alle singole famiglie e persone. Tanto per fare un esempio di come vanno le cose in Italia per chi ha una disabilità motoria ma è cresciuta cercando di vivere nella maniera più normale possibile: è ingiusto che per un cambiamento di legge e l’opinione del tutto personale di un ingegnere mi sia stata sospesa la patente di guida. Io è da quando sono nata che faccio i conti con i miei limiti, grazie alla mia famiglia ed ai miei sacrifici, ho imparato a camminare, essere autonoma, ho una laurea quinquennale e non riesco a tollerare che una persona mi abbia costretto a tornare indietro.

Tornando ad un discorso più generale sul concetto di autonomia… avete mai cercato sul dizionario questa parola? Vediamo un po’ “Facoltà di governarsi da sé.Indipendenza di giudizio, libertà d’azione.“ Già, questi tre pensieri sono dei traguardi non  impossibili da raggiungere, ma se ciò comporta degli sforzi da parte dei normodotati, la faccenda è assai meno alla portata per chi ha un handicap. Personalmente uso molto Internet, sul web sembra tutto alla portata di tutti, tutto fatto per tutti, poi nella vita reale (almeno in Italia) ci sono barriere culturali, architettoniche, leggi che rendono difficili, la patente di giuda, avere un posto fisso, un lavoro vero. Chi ha una disabilità non può avere una casa in affitto perché poi come lo cacci via? E così discorrendo.  È giusto sperare sempre nel migliorarsi e nel mettersi in gioco. Ma penso che spesso i disabili, come me del resto, abbiano seri problemi a guardare in faccia la realtà delle cose e confrontarsi con i “NO“ che la realtà ci sbatte in faccia. Spesso la famiglia se può, sulle piccole cose, ti fa contento: infondo hai già tante limitazioni. Poi da grande, per molti disabili, lo spettro di un istituto o di una casa famiglia per vivere o semplicemente per lavorare è sempre in agguato, prima c’è la scuola dell’obbligo ma, purtroppo, quello che segue, il lavoro, una vita attiva ed indipendente non sono degli obblighi, delle certezze garantite dallo stato, è più facile aprire dei centri diurni, che a volte sono dei veri e propri parcheggi piuttosto che sostenere il disabile e la sua famiglia nel loro contesto quotidiano.  A questo punto mi sembra necessaria una considerazione: i soldi dello Stato erogati direttamente alle persone disabili o alle famiglie di disabili (pensione ed accompagnamento) non sono minimamente sufficienti ad uscire di casa, a crearsi una vita autonoma. Possono essere d’aiuto per chi rimane in famiglia. Chissà perché lo stato ci vuole eterni bambini a casa, o nelle strutture delle quali parlavo pocanzi, dove generalmente si aspetta che la vita passi…

Anche i dati sono significativi per capire la situazione dei disabili in Italia: l’Istat rivela che le persone disabili che vivono in istituti sono circa 300.000. Un problema particolare è rappresentato dal “dopo di noi“. Si stima per eccesso (l’ipotesi adottata è che la speranza di vita delle persone disabili alle diverse età sia uguale a quelle relativa all’intera popolazione di età corrispondente) che il 50% delle persone disabili vivrà senza genitori e quindi senza il loro sostegno per venti anni in media. Riporto due appelli accorati e non incoraggianti trovati su due forum per persone disabili, mi sembrano significativi di come e quanto, anche le persone disabili, vogliano crearsi un futuro all’estero: “Sono disabile al 100%e voglio andare a vivere all’estero, forse con la pensione che prendiamo in qualche paese dell’Asia o sud America posso avere un aiuto che qui in Italia mi è impossibile anche perché i miei genitori sono vecchi e la situazione sta diventando difficile“. Come si fa o come si dovrebbe fare davanti a certe realtà? Di chi è la colpa e di chi le competenze  per far fronte a tante esigenze? Cosa non fa la politica che dovrebbe fare?

L’onorevole Elena Improda del PD fa  un importante iniziativa di cohousing, insieme all’associazione Oltre Lo Sguardo Onlus. Molti ragazzi con handicap cognitivo e fisico “vivono“ insieme in una casa senza genitori nel loro ambiente quotidiano. Sono aiutati da personale qualificato. Organizzano la casa, fanno la spesa, fanno le commissioni nel loro quartiere, cucinano, mangiano, intessono relazioni, si divertono… nel loro ambiente abituale, questo è importante per prevenire il Dopo di Noi che spaventa tanti genitori. Questi ragazzi disabili un giorno vivranno insieme sfuggendo alla “classica“ prospettiva dell’istituto o della casa famiglia. Ho conosciuto vari ragazzi che partecipano a questo interessante progetto di “vita indipendente“ e posso affermare che il loro entusiasmo è autentico e contagioso! Chissà se parlarne farà estendere l’esperienza!?

Purtroppo non tutti vedono delle prospettive vicine: c’è chi prende in considerazione una “fuga“ in un altro paese, vi riporto una seconda interessante testimonianza: “mi chiamo Andrea sono un invalido civile al 100% di 39 anni percepisco una pensione di invalidità più un’indennità di accompagnamento per un totale di circa 800 euro mensili. Non trovando lavoro ho seri problemi ad arrivare a fine mese ed insieme a mia moglie stavamo pensando di trasferirci all’estero. Volevo un vostro aiuto per scegliere la destinazione tenendo conto del costo della vita del rischio di perdere la pensione di invalidità e del clima (mi hanno parlato di Tunisia e Ucraina)“.

Tale esigenza di scappare in cerca di una condizione migliore, o almeno sostenibile, rappresenta per il nostro Paese una grossa sconfitta soprattutto in quanto manca di prospettive di lavoro. La seconda testimonianza mi posta a due considerazioni. In primo luogo, cosa sono 800 euro per un disabile al 100%, che deve affrontare spese  extra legate al suo handicap? La seconda riflessione nasce dal fatto che Andrea ha una moglie: ma perché in molti casi è l’uomo disabile a sposarsi una donna normodotata e non il contrario? Forse un uomo invalido ha una vita un po’ più semplice rispetto a una donna con la sua stessa disabilità? Perché c’è una forte discrepanza di genere, anche, ma naturalmente non solo, tra persone disabili? «Io, disabile, costretto a “fuggire” all’estero per riuscire a fare l’amore» è il titolo ad effetto del trailer del film “The special need“ la storia di Enea, un ragazzo autistico ad alto funzionamento che va all’estero aiutato ed accompagnato da due amici, per poter rivolgersi all’assistente sessuale. Figura molto utile per alcuni tipi di disabilità e di sostegno a tante famiglie ma che aimè per adesso in Italia non c’è! Anzi in un interessante convegno su amore, sessualità e disabilità ho “scoperto“ che da noi se una persona “normodotata“ aiuta un disabile ad andare con una prostituta può essere “condannata“ per istigamento alla prostituzione. Mi sembra proprio una cosa dell’altro mondo! Altro che pari opportunità!

Ritengo che molto si è fatto, ma moltissimo rimane ancora da fare, non tanto per le barriere architettoniche, ma soprattutto per quelle culturali.

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Il mito del normale

             Disabilità e affettività, il rapporto con l’altro tra paure stereotipi, riconoscimenti.

Anton Semenovyc Makarenko, notissimo pedagogo russo vissuto a cavallo tra XIX e XX sec., ha posto molta attenzione al tema dell’attività condivisa, nel suo Poema Pedagogico. Attraverso questo concetto si fa riferimento al processo interattivo della formazione dell’Io. Questa avviene infatti attraverso un dinamico ed essenziale confronto con gli altri. Per le persone disabili il processo è il medesimo, ma con delle problematiche diverse. Nel confrontarsi con l’altro per crescere e formarsi il disabile si scontra contro il muro della normalità. Si tratta, di un modello perfettibile verso cui si cerca di adeguarsi per rientrare nel senso comune. Per chi nasce diverso la normalità rappresenta un mito, un obiettivo da raggiungere con fatica e sacrificio. Un paradosso reso faticoso dal continuo confronto con gli altri. Quanto detto corrisponde a verità se ci arrendiamo ad un’idea di normalità quale paradigma immobile, già dato e immodificabile;  attraverso le scienze quali la pedagogia e la psicologia conviene accogliere la lezione di Lev Semënovič Vygotskij, psicologo sovietico contemporaneo di Makarenko, che ci invita a comprendere il fatto che  il diversamente abile è solo una persona che deve trovare, o proporre, un percorso alternativo alla via normale . Vygotskij ci esorta a non arrenderci alla biologia, ma a porre il problema delle abilità e della loro formazione  lì dove nasce e dove va affrontato, cioè nella psicologia e nella pedagogia.

Nella mia personale esperienza di disabilità motoria ho affrontato il rapporto mio e degli altri con la disabilità nel mio romanzo di formazione Nata viva. Il romanzo rappresenta la concretizzazione della ricerca costante di una comunicazione con gli altri. Il fil rouge dell’opera è senza dubbio il rapporto con l’altro, rappresentato prima dalla famiglia, poi dalla scuola, dalla relazione tra pari e infine dall’altro sesso.

La famiglia è l’ambiente della socializzazione primaria, in cui si viene accettati e non accettati, nel quale vengono fissate le prime regole di comportamento e dove ci si prepara per il confronto con il mondo esterno. Il modo di porsi dei familiari nei confronti di un membro disabile può assumere diverse connotazioni. Si passa dal rifiuto, alla negazione, alla compassione e infine all’empatia e alla comprensione. Posso dire, nella mia vita, di aver sperimentato buona parte di questi atteggiamenti. Emerge la tendenza a voler proteggere il disabile, considerato più debole e quindi indifeso. Le conseguenze di questo modo di porsi sono più incisive nello sviluppo della socialità della persona disabile di quanto si creda. Tali ricadute si palesano, non tanto nella fase dell’infanzia, ma dall’adolescenza fino al raggiungimento dell’età adulta. È in questa fase che le persone disabili, percepite come eterni bambini  dalla comunità, si rapportano con esigenze e necessità comuni ai loro coetanei. Come la necessità di aumentare la propria autonomia, l’indipendenza e la privacy, di esplorare il campo dell’affettività e della sessualità.

Dopo la famiglia, un tassello fondamentale nello sviluppo del rapporto con l’altro delle persone disabili è rappresentato dalla scuola. È qui che si entra in contatto con il mondo esterno, con un piccolo campione di società che sono i compagni di classe.  La consapevolezza della mia diversità l’ho acquisita proprio a scuola sentendo gli altri bambini che di nascosto ridevano e parlavano di me e dicevano «guarda i suoi scarabocchi» . Nella mia esperienza la scuola ha rappresentato un ostacolo, più che un sostegno. Ero bambina nei primi anni ottanta e probabilmente non vi era una coscienza diffusa sul ruolo fondamentale che insegnanti e maestri hanno nella formazione dei bambini, specialmente se diversi. Fin dalla scuola materna mi sono confrontata e scontrata con la mia diversità. Crescendo il mio rapporto con l’istituzione scolastica non è cambiato.  Alle medie o poi al liceo professori e compagni vedevano in me un problema da risolvere più che un soggetto attivo pensante e desiderante. Era quindi complicato andare al bagno, fare ricreazione in cortile e partire in gita scolastica. Tutti erano terrorizzati di prendersi la responsabilità, forse perché mancava una figura professionale, competente, adibita ad aiutarmi. Nonostante la mia esperienza riconosco che la scuola rivesta un ruolo fondamentale e insostituibile per la crescita di tutti e in particolare delle persone con disabilità. Allo stato attuale è aumentata la consapevolezza su quanto l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità costituisca un punto di forza del sistema educativo di un paese. La scuola dovrebbe essere infatti una comunità accogliente nella quale tutti gli alunni, a prescindere dalle loro diversità funzionali, possano realizzare esperienze di crescita individuale e sociale. Questo avviene attraverso la valorizzazione delle figure professionali che si occupano di formazione e sostegno e anche tramite innovativi piani di integrazione della normale didattica con strumenti tecnologici pensati per le diverse disabilità. Mi riferisco al piano promosso dal MIUR Software gratuiti per gli alunni con disabilità Azione 6 – Progetto NuoveTecnologie e Disabilità. In questo modo si consente a ciascun alunno di portare avanti a suo modo il proprio procedimento di crescita e istruzione raggiungendo medesimi risultati.

Per ultimo, ma non meno importante, è il tema dell’affettività  vissuta dalle persone con disabilità: un tassello importante nel riconoscimento della relazione affettiva con l’altro e nell’affermazione della propria autostima. Nel rapporto affettivo l’altro smette di essere il termine di paragone per misurare la propria diversità, ma diviene complice, parte integrante del proprio Io. È probabilmente in questo settore che paure e stereotipi sulla disabilità si concentrano ed esasperano. Sul tema della sessualità delle persone con disabilità si incrociano lo stereotipo dell’eterno bambino e la paura “sociale“ nei confronti di eventuali soprusi e atteggiamenti non consapevoli. Sotto questo punto di vista si può parlare di una vera e propria discriminazione. L’amore, l’affettività e la sessualità, pongono tutti gli esseri sullo stesso piano e consistono in passaggi fondamentali nello sviluppo delle persona umana. In più sedi mi sono trovata ad approfondire questo tema sia attraverso articoli che con interviste a persone disabili o vicine al mondo della disabilità. Se da una parte ho riscontrato una certa consapevolezza nel riconoscere che questi aspetti facciano parte della vita di ciascuno, dall’altra si è ancora molto indietro sul c.d. diritto alla sessualità e alla manifestazione dei propri sentimenti.  Questa problematica è particolarmente intensa per le disabilità cognitive, che, a differenza di disabilità motorie o minori che si scontrano con tabù prevalentemente culturali, vedono nella legislazione italiana un ulteriore ostacolo. Quest’ultima da un lato paragona quasi specularmente l’attività di avere rapporti con disabili cognitivi a quella con i minori, chiaramente, in entrambi i casi, con l’intento positivo di tutelare il soggetto e dall’altro non riconosce la figura dell’assistente sessuale, già molto diffusa all’estero.

Molto è stato fatto,  molto rimane ancora da fare per sostenere e agevolare le persone disabili nella quotidianità e per un loro inserimento completo e soddisfacente nella società, senza fare della normalità un mito irraggiungibile o una prospettiva continuamente disattesa.

 

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Mito e realtà: è legittimo cercare una coerenza tra i due piani?

Riflessioni sul personaggio di Biagio Antonacci, ma anche sul rapporto tra personaggi pubblici e fan.

 La privacy è un diritto importante di tutti. I personaggi pubblici, come politici ed artisti, hanno diritto a salvaguardare la vita privata, ma magari dovrebbero ritagliarsi del tempo per ascoltare le persone “comuni“ e chiedersi cosa pensano, cosa si aspettano, e come possono migliorare il loro lavoro e la loro missione. Essere una celebrità dovrebbe significare saper tutelare il proprio diritto ad avere una vita privata, ma anche sapersi “donare“ alle persone comuni. Purtroppo non tutte le celebrità hanno questa capacità ed umiltà. Registi, cantanti, scrittori hanno un compito importante: raccontare e raccontarsi in modo che la collettività si possa rispecchiare ed immedesimare nelle loro creazioni. La necessità di trovare delle storie che riflettano noi stessi è sempre stata una prerogativa dell’animo umano, presente nel trascorrere dei secoli. Infondo le storie si legano sempre a dei miti. Sfogliando un’enciclopedia, tra le varie definizioni che si trovano del termine “Mito“, che deriva dal greco mythos, ne emerge una che più delle altre mi ha colpito: mito come parola, discorso, ma anche come progetto e macchinazione. Fu Omero ad attribuire al termine questa particolare accezione. Le parole, ma anche i discorsi, i progetti del cantante Biagio Antonacci sono affascianti, ed hanno costruito un “mito“ intorno al suo “personaggio“. Una perfetta macchina che dà lavoro a lui e tante persone intorno a lui, che riempie stadi e palasport con una prevalenza di pubblico femminile di età molto eterogenee.

Sempre secondo la descrizione enciclopedica, in età classica il significato del termine si precisò in «racconto intorno a dei, esseri divini, eroi e discese nell’aldilà». Cantare è una forma antica per tramandare e divulgare il sapere; intrattenersi con storie fantastiche e gesta eroiche è una pratica che si ripete dai tempi di Omero fino ad oggi giorno. Sull’onda omerica continuo i miei ragionamenti su Biagio Antonacci: la musica ed il personaggio pubblico richiedono di crearti un’immagine, lui vuole lanciare messaggi su tutti gli aspetti dell’amore; ci riesce? In parte sì. Ma mi chiedo se dica ciò che noi fan vogliamo sentire. Con i suoi testi ed i suoi bei discorsi ci manda in confusione… pensiamo che sia come appare, che abbia vissuto le esperienze con cui noi ci immedesimiamo, anche per questo ci piace! Ma c’è qualcosa oltre l’apparenza? Dalla mia esperienza personale direi che manca di coerenza tra ciò che è e ciò che fa vedere di lui. Il mio sogno è stato e, nonostante tutto lo è ancora, quello di incontrarlo, parlagli come ad un amico, darli una lettera dalla quale può trarre una nuova canzone che parli di Amore, Passione e Disabilità. Prima di continuare con le mie riflessioni vorrei inserire in questo articolo alcuni stralci della mia lettera:

 

Caro Biagio,

(…)Ho 33 anni, in passato ho avuto delle storie d’amore… ora sono single da un po’, secondo me ci sono vari motivi per i quali non mi sono più innamorata veramente. Il primo è legato ad un mio ex: dopo che ci siamo lasciati abbiamo continuato a vederci; con lui c’è sempre stata un intesa perfetta mai raggiunta con altri uomini… è difficile “non cercarlo dentro a nessuno”; anche se lui sarebbe contento se avessi una relazione seria e duratura. La nostra è una storia analoga a quella che hai poeticamente narrato nella canzone “non tentarmi”. Già! Poi crescendo si diventa più esigenti in amore. Tu canti che viviamo in un mondo piccolo e che prima o poi ci si rincontra o ci si incontra. In amore sono importanti gli “incontri” più o meno casuali che avvengono in un locale, durante una vacanza con gli amici… io come tante persone in Italia, ho un handicap motorio, per questo in vacanza c’è sempre qualcuno molto più grande di me che mi aiuta. Anche se non mi è mai capitato l’incontro casuale, o nessuno mi ha fermato per strada o al supermercato per parlarmi… mi ritengo fortunata perché grazie ad Internet ho vissuto prima il sesso e poi l’Amore vero. Molti disabili non fanno certe esperienze: la società e le famiglie li considerano degli individui asessuati e loro non hanno abbastanza  faccia tosta, grinta e testardaggine per far capire che così non è! Per fortuna la mia famiglia mi ha sempre sostenuta sotto tanti punti di vista e mi ha trattata come una persona normale. Tornando alle mie esperienze sentimentali, ora sono diventata molto più esigente, un po’ perché sono cresciuta, un po’ perché ho avuto una lunga e bella intesa con quell’uomo normodotato, bello, affascinante e particolarmente sensibile del quale ti accennavo sopra. (…) Sono rimasta attratta da lui che mi vuole profondamente bene, mi stima, mi apprezza come donna… ma non saremo mai una vera e propria coppia. Siamo amanti e profondamente amici, c’è molta intesa tra noi… sì, ma io non sono più un’adolescente alle prime esperienze, ho 33 anni e mi piacerebbe incontrare un uomo single, libero, bello, sveglio e capace di amare, farmi sentire un donna intelligente, una FEMMINA apprezzata e desiderata… come mi ha fatto sentire V, ma non è così semplice trovarlo…! I miei amici mi dicono “non ti preoccupare Zoe, prima o poi troverai la persona giusta per te; sei talmente intelligente e bella…” . (…) “Quello che ho voluto l’ho ottenuto”, grazie solo a me stessa, mi sa che quest’ultimo concetto l’hai vissuto anche tu in vari ambiti della tua vita e carriera. Ti racconto tutto questo perché ho sempre avuto facilità a scrivere e raccontare le mie esperienza di vita, i miei pensieri, sensazioni ed emozioni. Non a caso ho scritto un libro autobiografico dal titolo “Nata viva”, (…)AL CONCERTO AL MEDIOLANUM FORUM DI ASSIAGO UN RAGAZZO DELLA SICUREZZA MI HA ASSICURATA CHE CI AVREBBE PENSATO LUI A FARTELA AVERE DIRETTAMENTE. LA BUSTA CONTENE LA LETTERA E IL MIO ROMANZO DI FORMAZIONE… IN VERITA’ NON SO SE SPERARCI ANCORA! Nel mio portale ho scritto anche un articolo sull’amore (ne ho scritti più di uno, ma qui ti indico i link di due post che parlano più di me: http://www.piccologenio.it/2012/03/28/lurlo-silenzioso-di-zoe/ e http://www.piccologenio.it/2014/09/17/leducazione-sentimentale-di-giulia/) So che ricevi centinaia di lettere al giorno e che non puoi rispondere a tutte, ma forse per questa potresti fare un’eccezione. (…) Io nella vita ho sempre cercato di non lasciare nulla di intentato, e penso che questa lettera lo stia dimostrando! (…) Ti auguro di avere sempre il successo che stai avendo in questi ultimi anni, ma di rimanere una persona “VERA” nonostante le pressioni della società… della musica… e del mondo di oggi…!

Ti saluto e ti auguro tutto il bene possibile,

Zoe.

P.S. Il mio sogno è parlarti, magari per telefono o in chat; o poterti incontrare da qualche parte in Italia. Penso che i sogni aiutino a vivere e poi che male c’è a sognare di scambiare idee, opinioni e farmi due risate con te?

 

Riflettendo sul tema mi viene da pensare a Biagio e Vasco. Quest’ultimo ha scritto delle stupende e profonde canzoni, ma la sua immagine pubblica non è mai stata un esempio da seguire. E questa anche è una scelta. Le canzoni di Vasco Rossi hanno riempito i momenti di riflessione, di solitudine di malinconia di tante persone, appartenenti a diverse generazioni di fan. Vasco ha però scelto nella sua vita privata di adottare una condotta non esemplare e non ne ha mai fatto un segreto. Si può quindi affidare il flusso dei propri sentimenti a una persona a cui nella vita reale non affideresti neanche il tuo pesce rosso? A mio avviso sì. Questo è forse il privilegio di personaggi pubblici che appartengono al mondo dell’arte.  Questo modo di rapportarsi al pubblico però non dovrebbe essere valido per altri personaggi pubblici come quelli appartenenti alla classe politica o che sono attivi nella società e che si ergono a “modelli“. Biagio appartiene, a rigor di logica, alla categoria dei privilegiati.  Ha una bella presenza, si atteggia sul palco, crea uno show attorno al suo personaggio pubblico, anche per questo ci manda in confusione. Noi fan lo vogliamo così, intenso, appassionato e sensuale, ma forse non è così, questa è apparenza o vera essenza? Forse data la sua completa inavvicinabilità è solo finzione. Il suo silenzio e la presa di coscienza che forse non è come appare mi hanno recato un dispiacere e in parte, mi hanno costretto a svegliarmi distaccandomi dal sogno d’incontrarlo. Diceva Masini: “la musica è cattiva, è una fossa di serpenti e per uno che ci arriva quanti sono i fallimenti“ apparentemente la carriera di Biagio è sempre stata in ascesa, ma mi chiedo se c’è un prezzo da pagare. È un vantaggio non avere rapporti con i fan o è una rinuncia? La vita privata ci ha rimesso o guadagnato? La musica da’ tanto: fama, soldi, il lavoro che hai scelto, sembrare sempre al top, ma cosa ti chiede in cambio? Qual è la persona e quale il personaggio? Biagio parla anche di delusioni in amore e sul lavoro, saranno tutte storie sue… forse no? So che si ispira anche alle tante lettere che noi fan gli mandiamo, cosa c’è di vero e di suo? Alcune persone, come per esempio la sottoscritta, hanno bisogno di crearsi dei miti ai quali pensare per sognare ad occhi aperti. Questo perché c’è bisogno d’illudersi e trovare dei momenti per evadere da una realtà grigia e che poco ci rappresenta. Ascoltare musica, tentare di parlare con la star preferita, può essere un’evasione, un modo di solitaria ribellione per scappare e non accettare ciò che non ci piace della vita di tutti i giorni. Come sotto l’effetto di un innamoramento o di un’ubriacatura ci inebriamo di musica e sogni, ma questi restano lontani dalla vita reale e quotidiana. A volte il sogno di incontrare il personaggio preferito diventa una realtà, come mi è successo da piccola con Marco Masini e Massimo D’apporto; c’è da dire che non tutti i personaggi pubblici (come del resto anche le persone normali) hanno una spiccata sensibilità, o forse più semplicemente non hanno tempo e voglia di avere un contatto con i fan. Da Biagio mi aspettavo qualcosa di più, facendo anche riferimento alle canzoni dedicate a Dio, all’umiltà e alle persone che non ci sono più ma che comunque rimangono vicine a noi (Naturale, Liberatemi e Sognami).

Per concludere penso che se mai incontrassi Biagio sarei felice, ma allo stesso tempo farei la sostenuta…! Gli parlerei di me, della mia vita, del mio vissuto non solo in amore; gli farei anche tante domande sulle storie e le protagoniste delle sue canzoni.

 Zoe Rondini info@piccologenio.it

 

 

 

 

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L’errore nel sottovalutare le malattie invisibili: cause e effetti dell’abuso di alcol. (10/12/14)

 

Nella nostra società molte persone sono portate a considerare malattie solo quelle del corpo, minimizzando o banalizzando problemi come l’alcolismo, la depressione, i disturbi alimentari e la vasta gamma di malattie psichiatriche, anche se sono riconosciute nel DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali). Inoltre si tende a non voler accettare il fatto che i disturbi del comportamento possano avere varie ripercussioni sull’organismo. Vi è un labile confine fra una stato emozionale, ad esempio la tristezza e la frustrazione, e un disturbo mentale, ad esempio la depressione. Sottovalutare quest’ultimo può portare a delle gravi ripercussioni, sia mentali che fisiche. Il non riconoscere un malessere della mente può essere dovuto a una generica ignoranza, ma anche alla volontà di non accettare situazioni di degrado per ipocrisia o paura.

Nella maggior parte dei casi le dipendenze si curano chiedendo aiuto, aprendosi al dialogo con esperti, ma anche con persone vicine o persone che condividono il medesimo stato. Tuttavia esternare una propria debolezza, che talvolta procura anche un certo disagio e vergogna, non è semplice, e il problema diviene più profondo. Tale circolo vizioso ricorda un incontro che il celebre Piccolo Principe fece nel suo viaggio tra i paesi della galassia. Un giorno si imbatte in uomo, alcolizzato, e con tanta ingenuità gli chiede – perché bevi? – e l’uomo – Perché ho vergogna! – Vergogna di che?- replica il principe – Vergogna di bere!- Ecco, se chi ha una dipendenza, rimane solo con essa, cerca di dimenticarla, di fare finta che tale problema non esista; e allora beve.

L’alcolismo è caratterizzato dal bisogno, in certi casi ossessivo-compulsivo, di assumere grandi quantità di alcol. È a tutti gli effetti un disturbo correlato alla dipendenza. Ha ripercussioni sulla salute del bevitore, sulle sue relazioni e della sua posizione sociale. Come per altre dipendenze da droghe, l’alcolismo è considerato una malattia curabile. L’abuso a lungo termine di alcol produce cambiamenti fisiologici nel cervello, come la tolleranza e la dipendenza fisica. Tali cambiamenti, relativi alla chimica del cervello, portano l’alcolista all’incapacità compulsiva di smettere di bere.

La tolleranza all’alcol è tipica di questo problema. L’incapacità del bevitore di controllarne l’assunzione, nonostante la consapevolezza del danno alla sua salute, indica che la persona potrebbe essere un alcolizzato. Il tratto discriminante dell’alcolista sta nell’incapacità di trattenersi dal bere e nello sforzo estremo che deve essere compiuto per mantenere l’astinenza.  Rispetto agli uomini, le donne sono più sensibili all’alcol e più inclini a subire i deleteri effetti fisici, cerebrali e mentali.

Sono la complessità, la facilità nel caderci e la crescita del fenomeno che mi spingono a parlarne. Inoltre vorrei aggiungere che il vino a tavola è conviviale, il modo di dire “il vino rosso fa sangue“ è diffuso nel nostro paese, offrire un bicchiere di amaro dopo cena è educazione. Del buon vino in un pasto succulento aumenta il senso di sazietà, a luogo andare le calorie dell’alcol diventano “importanti” per sentirsi pieni ed appagati… certo da qui a dire che siamo tutti a rischio alcolismo ce ne corre. Ma è un dato che l’alcol spesso fa parte della nostra società, inoltre, specie fra gli adolescenti, è più semplice consumare alcol, perché facilissimo da acquistare, che fare abuso di droghe. Si potrebbe dire che l’alcol è parte della vita quotidiana di tutti, ma diventa un problema, quando a questo non si può rinunciare, quando smette di essere un buon bicchiere per accompagnare un piatto squisito, o una birra con gli amici, quando la voglia compulsiva di bere supera il gusto e il piacere, e le dosi aumentano senza motivo.

Una serie complessa di fattori genetici e ambientali influenzano il rischio di incorrere nell’alcolismo. Anche la famiglia determina un fattore di rischio, infatti la percentuale di avere due soggetti alcolizzati nella stessa famiglia è molto elevata, si calcola che per un bambino-ragazzo con un genitore alcolizzato, la probabilità di cadere in futuro il questo problema, è fino a 4 volte superiore di chi non vive questa problematica tra le mura domestiche. Per quanto riguarda gli ambienti sociali, diverse ricerche dimostrano che il consumo di alcol, ad esempio durante l’adolescenza è molto elevato, perché in tale periodo della vita si è in cerca di esperienze estreme e perché in tal modo è più facile farsi accettare dal gruppo; un altro elemento da tenere in considerazione riguarda il consumo di alcol, e droga, nei piccoli centri, dove forse ai ragazzi, ma anche agli adulti, non si offrono alternative di svago. Le persone con un reale problema di alcoldipendenza tendono a nascondere il loro bisogno di bere e a bere in solitudine. A vantarsi di reggere bene grandi quantità di alcol sono soprattutto i forti bevitori (anche per autogiustificarsi e minimizzare i rischi associati al loro comportamento).

Nella stragrande maggioranza dei casi, all’origine dell’alcolismo c’è un disturbo psichiatrico, in particolare depressione e/o ansia, oppure un disturbo bipolare o di personalità borderline.

Raramente una persona non riconosce di avere un problema con l’alcol finché la situazione non è degenerata in un’evidente dipendenza e, anche in questo caso, raramente cerca aiuto spontaneamente. Un familiare può essere interpellato come primo supporto, tuttavia è più frequente che l’alcolista cerchi di nascondere/negare il problema alle persone care. Nella maggior parte dei casi, il primo contatto con un medico avviene in situazioni di forte malessere dovuto all’alcol, incidenti d’auto o traumi di vario tipo oppure segnalazioni da parte delle forze dell’ordine.

Per gestire il disturbo dell’umore alla base dell’alcolismo, in genere, si utilizzano farmaci antidepressivi della classe degli SSRI (inibitori del sistema di recupero della serotonina), efficaci e ben tollerati anche dall’organismo messo alla prova da anni di abuso alcolico. I farmaci antidepressivi vanno, però, somministrati dopo la disintossicazione e dopo aver ottenuto un’iniziale astinenza. Durante la fase di disintossicazione acuta possono essere somministrate benzodiazepine per 1-2 settimane per attenuare lo stato di agitazione.

Il recupero della dipendenza da alcol è un percorso lungo e impegnativo che può durare molti anni, se non tutta la vita. Dopo il primo anno di trattamento ben condotto la situazione migliora sensibilmente, ma le ricadute sono sempre in agguato. Per non vanificare gli sforzi compiuti bisogna esserne consapevoli e mantenere alto il livello d’attenzione nei confronti dell’alcol, rivolgendosi allo psicologo/psichiatra di riferimento in caso la difficoltà a mantenersi astemio aumenti.

Vorrei riportare due testimonianze trovate sul web, la prima racconta di una storia di alcolismo ancora non risolta, mentre la seconda è la testimonianza di un uomo che ha toccato il fondo e che è riuscito a risalire, grazie alla sua determinazione, all’amore per e dalla famiglia e all’aiuto fondamentale di un’associazione di recupero.

Ecco la prima testimonianza: Chiedo aiuto in quanto la mia famiglia ormai distrutta dal dolore non sa come fronteggiare la situazione. Mio fratello sposatosi nel 2008 si separa dopo circo 4 anni. Diventa presto alcolizzato e spesso, soprattutto alla sera, siamo in pensiero per lui che vive solo. Dopo circa un anno torna con la moglie (dalla quale ha avuto un figlio ormai di 4 anni). Inizia a curare con uno specialista l’alcolismo e sembra “pulito”. Ma dopo 4 mesi un episodio di violenza con la moglie e relativa denuncia porta tutto alla rovina. Lo ricoveriamo con la forza in quanto dopo pochi giorni si intossica pesantemente con l’alcool nei vari bar della città (tasso del 3.0 di alcol) e viene ricoverato per due giorni nel reparto di psichiatria che lo dimette senza una cura, ma solo consigliandoli l’assunzione di EN gocce per 4 volte al giorno. Ora lui solo non può stare, è preda di crisi di astinenza ci tratta male ed è aggressivo. Rifiuta ricoveri, visite psichiatriche, ecc.

Io denuncerei chi ha sentenziato che un sedativo come l’En possa bastare per arginare un problema così rilevante e consiglierei di accettare l’aiuto di persone veramente competenti.

E ora la seconda testimonianza: Ciao mi chiamo Ramon ho 33 anni e sono un ex alcolista. La mia storia parte lontano, ho iniziato a bere durante l’adolescenza e l’alcol è stato parte integrante della mia vita. Non so da dove iniziare perché l’alcol a me a rovinato parte della mia vita, dei miei genitori prima, e poi di mia moglie. Io non ho mai visto l’alcol come un problema , perché dentro di me mi ripetevo che potevo smettere quando volevo, ma in realtà l’alcol si era appropriato della mia vita cambiandomi totalmente, rendendomi succube a lui, senza alcol non riuscivo più a fare niente, era diventando fondamentale bere. Cosi facendo stavo distruggendo la mia vita lavorativa perché facevo danni su danni, ero diventato irascibile, l’ultimo anno è stato devastante: insieme all’alcol ho abbinato il gioco d’azzardo, e questo mi ha fatto scendere in una spirale letale, tra debiti, finanziamenti presi di nascosto, cosi facendo stavo portando al collasso la mia famiglia, non mi importava niente di mia moglie e di mia figlia piccola, l’importante era che stessi “bene“ io, finché un giorno stavo perdendo il lavoro, e mia moglie ha chiamato la banca e ha scoperto che c’erano dei movimenti strani, cosi sono usciti fuori tutti i debiti. Non dimenticherò mai mia moglie quando è tornata a casa , distrutta , avevo lapidato tutti i nostri risparmi e avevo fatto anche dei debiti, io da lì sono sceso in un oblio. Non vedevo più via di uscita e l’alcol prese il sopravvento, e ho cominciato a peggiorare: bevevo tutti i giorni, sbornie su sbornie, finché un giorno torno a casa etrovai mia moglie mia madre e mia suocera che mi misero d’avanti al problema. Mi dissero che ero malato e che dovevo farmi curare, io negavo il problema, ma mi diedero comunque il numero di telefono di un gruppo di mutuo aiuto chiamato A.N.C.A (associazione nazionale contro l’alcolismo). Io per dieci giorni persi il controllo della mia vita, mi sentivo una persona inutile, pensavo al suicidio tutti i giorni perché non riuscivo a vedere la luce , non potevo pensare di vivere senza l’alcol ma allo stesso tempo vivere cosi era inutile. Dopo l’ennesima sbronza chiamai quel numero e mi resi conto che la mia vita era importante. Chiamai l’ A.N.C.A e lo dissi a mia moglie, e la vidi felice. Incominciai ad andare agli incontri e mi presi subito coscienza del fatto che avevo un problema, che l’alcolismo era una malattia. Da quel giorno, con tanta determinazione, grazie al gruppo e ai consigli ora ho ricominciato a vivere, ho iniziato nuovamente a comminare con la mente lucida . Dopo tanti anni che l’alcol ha fatto parte della mia vita ho dovuto imparare a gestire la mia vita , è una cosa STUPENDA vedere la tranquillità famigliare con mia figlia e mia moglie, al lavoro ho riacquisito rispettabilità. Sapete, non penso a quello che ho fatto , o dove sarei potuto essere se non avessi mai incrociato l’alcol sulla mia strada, perché il passato non lo posso cambiare, ma vi posso dire che il presente lo voglio vivere al meglio. Si, se ci si crede un FINALE MIGLIORE E’ POSSIBILE. Basta crederci.

Dopo questa breve riflessione  vorrei proporre un articolo, a carattere scentifico per capire meglio il problema, come riconoscerlo ed affrontarlo.

Potete leggere l’articolo cliccando sul seguente link: http://www.farmacoecura.it/droga/alcolismo-sintomi-effetti-test-pericoli-terapia/

video sull’alcolismo ed i suoi effetti:

https://www.youtube.com/watch?v=sokcuo56FKs i figli degli alcolisti hanno il quaduplo delle possibilità di diventarlo.

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Un bel regalo del mio relatore della triennale, Prof Nicola Siciliani de Cumis

piccologenio.it è un portale che propone articoli, racconti, recensioni, argomenti di disabilità e problematiche sociali che potete commentare.

 L’idea di aprire questo sito internet è venuta ad una ragazza nata nel 1981 che ha passato molto tempo a scrivere, leggere, girare cinema, teatri e mostre della sua città. La ragazza in questione presenta un problema nel camminare e nel parlare; è per questo motivo che nel sito viene trattato anche il tema delle dell’handicap. Nel sito potrete trovare articoli di psicologia, pedagogia e di bioetica scritti da illustri professori esperti in tali materie, nonché post che trattano argomenti su problematiche sociali di grande attualità.

http://www.archividifamiglia.it/archivi-10-3/didattica–ricerca-universitaria-8-11/dossier-marzia-castiglione-humani-9-96/

 

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Italy in a day… ma non tutta

https://www.youtube.com/watch?v=jmu0tmwdWEI&feature=youtu.be Il mio Italy in a day

Lo scorso sabato attendevo con una certa ansia la visione del film documentario Italy in a day di Gabriele Salvatores. Il regista aveva invitato tutti gli italiani e le italiane a filmare un momento della loro giornata del 26 ottobre 2013: era un sabato. Anch’io avevo inviato allora il mio contributo. Sapevo di non essere stata scelta, perché in caso contrario mi avrebbero contattato per tempo, per filmare alcune liberatorie. Essendone giunti 45.000  non sono rimasta stupita quando mi sono resa conto  che non era stato inserito il mio video, che per quanto lo apprezzi rivedendolo e per quanto lo consideri prezioso in quanto ha coinvolto me e  le persone care intorno a me, magari non era giusto che venisse scelto. Ritengo di non aver una voce, una parlata diciamo.. adatta alla televisione o al cinema.  Detto questo ero comunque molto curiosa della visione del film, nutrendo delle aspettative  su come potesse venire rappresentata e narrata la disabilità.

Cosa ho trovato:

presenti molte fasi della vita nell’arco del tempo dell’essere al mondo quali la nascita, l’infanzia, la gioventù, la maturità e la vecchiaia.

Compaiono un gran numero di bambini. (Come dice Augusto Sainati:  “Ci sono molti bambini: bellissima immagine, carica di speranza e di futuro, ma forse un po’ troppo di parte in un paese che di bambini ne fa davvero pochi“).

Ben costruito anche il discorso sui ragazzi che vorrebbero emigrare in un altro Paese perché nel loro non scorgono prospettive e futuro. Anche gli anziani sono stati diversificati nelle loro storie ed è stata adeguatamente raccontata la loro quotidianità. Mi ha colpito la storia di un medico italiano dentro una realtà povera e disagiata di un altro paese che riusciva a dare senso profondo al suo lavoro e “sacrificio“ come se in Italia non si trovino abbastanza storie esemplari  tra ospedali, reparti pediatrici e luoghi di cura o di terapia. Un altro spunto interessante ben sviluppato all’interno di un discorso narrativo è stata la presenza dei padri divorziati che si occupavano dei loro figli con un certo trasporto. Tema ricorrente la giornata di sportivi e le loro imprese, dalla bicicletta al paracadutismo. Mi ha colpito la scelta di narrare storie dal carcere e il punto di vista dei collaboratori di giustizia. Questi temi, di cui di solito sappiamo ben poco, hanno trovato uno spazio adeguato.

A mio avviso ridondante e superfluo il video, quindi la testimonianza, della ragazza che preferiva stare sotto le coperte invece di affrontare un nuovo giorno. Anche la mamma impegnata ad insegnare a guidare alla figlia, mi è sembrato un po’una  forzatura a discapito di tematiche e scorci di vita che potevano essere interessanti, quali il cinema, il teatro, la cultura in genere, in relazione alle storie delle persone che ne potevano testimoniare la presenza nella loro vita, in un sabato come tanti.

Esteticamente parlando, mi è sembrata buona e appropriata l’idea di dividere il filmato in varie ore del giorno, creando un effetto movimentato e divertente nello spettatore. Ampio spazio nel montaggio è stata data alla percezione  variegata del tempo climatico, dei paesaggi ripresi, delle città vissute a diversi livelli. Particolarmente azzeccato e divertente il momento del pranzo che ha visto buona parte dei protagonisti accingersi a mangiare; nello specifico mi ha fatto molto sorridere  la storia di un ragazzo che, dopo un breve monologo sulla bellezza e sul gusto, mangia lentamente e assapora in modo sapiente il suo panino davanti alla telecamera per diversi minuti.

 

Sul Fatto quotidiano del 28 settembre, Augusto Sainati – professore universitario e critico cinematografico – scrive che il cinema, utilizzando tutte le sue possibilità espressive, ha il compito di creare nuove sintesi, nuovi mondi totali. “… Ciò che invece un po’ manca in Italy in a day è proprio questa capacità di saltare verso la sintesi: tante immagini fanno accumulo, ma se l’accumulo resta tale, il cinema è solo in potenza“. E ancora …“ Italy in a day non è un selfie dell’Italia, ma il ritratto di “una vita da mediano“.

Dentro queste considerazioni si inserisce la mia più grande delusione e amarezza durante e dopo la visione del film: la constatazione della totale e forse imperdonabile assenza – visto l’esperimento comunitario – di storie narrate da o insieme a persone disabili, con qualsivoglia tipo di disabilità o semplicemente malate, dentro i confini italiani.

 Mi sono chiesta: a che cosa è dovuta questa mancanza?  Scarso materiale inviato non all’altezza? O impossibilità da parte di famiglie o delle persone con disabilità di potersi raccontare  “in leggerezza“ senza dover per forza testimoniare malasanità, inadeguatezza politica e sociale, drammi familiari, etc. O qualora invece ci sia stato abbastanza materiale, possibile che non ci fosse una traccia, una microstoria che rispettasse canoni estetici richiesti o rispondesse alla serie di domande proposte a cui attenersi? (Posso testimoniare che la sottoscritta ha inviato un video di durata inferiore ai quindici minuti richiesti dove rispondevo ad almeno  due delle domande che per regolamento dovevano essere toccate e prese in considerazione, almeno in parte).  Possibile che in 45000 contributi arrivati e visionati non ci sia stato nulla di decente su e da parte di tale rappresentanza?  Non voglio dire questo per lamentarmi o fare la parte della disabile che si lagna perché non si parla deiproblemi dei disabili… anzi il contrario. Italy in a day grazie all’opportunità che aveva nel suo potenziale e alla sensibilità e sapienza  del suo regista, poteva essere l’occasione per condividere il fatto che le persone con disabilità possono raccontare di tutto e raccontarsi in infinite combinazioni possibili, senza ricorrere ai soliti clichè e stereotipi che ostacolano la narrazione e l’ esperienza di raccontarsi liberamente… avendo cioè un pretesto, uno spunto o un’ispirazione, qualcosa da dire insomma, a tutti quanti.

Senza ricorrere per forza ai casi limite o estremi, si poteva scegliere come rappresentanza  anche solo il coraggio  di una persona con problemi motori che “vive“ la sua giornata e si racconta “in soggettiva“ davanti la macchina da presa; anche questa “semplicità“ poteva essere interessante condividere.

Rispetto poi alla leggerezza “calviniana“ in questo momento diversi documentari e narrazioni audiovisive stanno cercando di fare emergere punti di vista mai esplorati intorno ai temi del disagio psichico oltre fisico (Sconosciuti, i 10 comandamenti, The special need, etc, Capitan Pistone di Mara Consoli, etc…).

E poi mi chiedo: era proprio indispensabile approvare video di persone lontane, oppure le testimonianze  dei collaboratori di giustizia?  Non era necessario, fondamentale, doveroso inserire, nel film collettivo, almeno un solo minuto prezioso di una persona disabile che racconta il mondo?

E poi pensiamo alla giornata dell’ astronauta Luca Parmitano. Chiaramente suggestiva, bella cinematograficamente la giornata di Parmitano… ma possibile che non sia stato trovato del bello nella giornata di un disabile che lotta per la conquista di un senso o di un piacere da condividere nell’arco della sua giornata?

Forse chissà aggiungendo un quarto d’ora a quei brevi settantacinque minuti si poteva raccontare qualcosa in più.

Questa mia riflessione non è semplicemente suggerita dal fatto di essere parte in causa, rispetto alla voragine constatata in termini di rappresentanza  e ampiamente criticata. Occupandomi, ogni volta che posso, di narrazione e disabilità, cercando di fare coincidere il racconto con il bisogno di raccontare e raccontarsi da parte di chi vive un disagio profondo quotidianamente, speravo tanto che il sabato di Italy in a day potesse essere un sabato da ricordare… per tutta l’Italia. Anche per noi.

 

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i video di Zoe Rondini

Realizzati da Zoe Rondini, Daria Castrini ed Enrico Arata.

https://www.youtube.com/watch?v=PN_76gxNyzM Nata viva, ve lo racconto.

https://www.youtube.com/watch?v=Sed_djk_wnA piccologenio.it .

https://www.youtube.com/watch?v=jmu0tmwdWEI&feature=youtu.be Italy in a day.

http://www.youtube.com/watch?v=hMSpmq0eY9k&feature=share Zoe a Positano.  Un invito ad abili & disabili a vivere le proprie esperienze e non fermarsi di fronte ad un ostacolo… io ne ho scalati 100 di gradini a Positano, bello però! 🙂

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Amore e sessualità nell’autismo

Dopo molti articoli sul tema dell’amore, la sessualità e la disabilità mi è sembrato giusto affrontare un tema importante e dibattuto come quello dell’affettività, amore e sessualità per le persone autistiche. Questa tematica ha destato il mio interesse, anche perché noto una lievissima apertura della nostra società su certi temi, tuttavia non bastano alcuni convegni ed un disegno di legge per affermare che la nostra società sia aperta a certe tematiche (amore, sessualità e disabilità). Ritengo comunque che sia importante – ma ahimè non sufficiente- parlarne. Per aprire una finestra sul tema mi servirò di due preziose testimonianze, sono entrambi racconti di vita che sottolineano l’aspetto fondamentale della sessualità per il benessere di ognuno di noi. Si tratta di un padre di un ragazzo autistico italiano ed una testimonianza di un ragazzo autistico statunitense. Dagli articoli si evincono problemi, preconcetti, tabù, mancanze… quanto ancora c’è da fare e da capire. Ancora oggi c’è molto poco di scritto sul diritto delle persone autistiche a sviluppare la loro sessualità. Gli autistici amano e meritano di essere amati, rispettando la loro individualità e devono ricevere gli strumenti necessari per avere una vita piena e appagante. Ai genitori potrebbe non piacere il compito, ma si deve essere in grado di affrontare e parlare della sessualità ai figli come qualcosa di reale, naturale e che necessita di una guida. È fondamentale che il genitore trasmetta le regole della masturbazione e del fare l’amore. Chiarendo anche chi e come ti può toccare per evitare che i figli siano vittime o “potenziali vittime“ di abuso, altro tassello importate da chiarire è “la masturbazione“ come, dove e quando esercitarla. Dagli anni ’80 ad oggi è cambiata molto la visione delle problematiche legate all’autismo, ma tanta strada c’è ancora da percorrere, soprattutto se si accosta l’autismo alla sessualità ed all’amore. L’amore, la sessualità e la disabilità per le società occidentali dovrebbero essere considerate una sfida da vincere, invece vergogna, tabù e divieti talvolta hanno ancora la meglio. Ci celiamo dietro un apertura solo apparente che non basta a risolvere la solitudine di tante famiglie e ragazzi, i sensi di colpa sono, a mio avviso, ancora tanti e difficili da “estirpare“. Inoltre bisogna riconoscere che l’autismo è diverso da ogni altra disabilità, e le caratteristiche stesse dell’autismo causano una ulteriore condizione di stress per i genitori e rendono estremamente problematica la vita di tutta la famiglia. Le famiglie lasciate sole ad affrontare il difficile compito di allevare un bambino affetto da autismo vanno, in alcuni casi, ben presto incontro alla disperazione ed allo sfinimento causati dagli equivoci sulla natura dell’autismo, dalla scarsa disponibilità di servizi specializzati e soprattutto dall’impossibilità di programmare il futuro del bambino. I disabili e le loro famiglie, si sa, passano molto tempo tra terapisti e visite specialistiche si potrebbe pensare di formare queste persone anche per affrontare il tema della sessualità. Ci vorrebbero più interventi a partire dal nucleo familiare per poi allargarsi alla scuola, ai luoghi di terapie… alla società.

Dopo questa mia introduzione vi lascio alla lettura di due articoli sul tema che ho trovato pertinenti ed interessanti e che vorrei proporvi. Il primo dal titolo L’amore ai tempi dell’autismo, di Rosa Mauro, preso dal sito www.superando.it  contiene il racconto dell’esperienza di una madre di un ragazzo autistico, che è anche l’autrice dell’articolo. In questa testimonianza Rosa propone una riflessione su come accettare e comprendere la sessualità espressa dalle persone autistiche. Il secondo articolo che vi propongo, il cui titolo è Autismo e sessualità, un elefante in una stanza, è stato preso dal sito www.autismoitalia.it riporta il contenuto dell’intervento dell’esperto Peter Gerhardt in occasione della Ladders Conference in Massachusetts.

Un tempo poco lontano era molto considerata la cosiddetta teoria “madre frigorifero“, essa relegava gli autistici e le loro madri in un mondo senza speranza e anaffettivo. Ora sappiamo che la persona autistica è tutt’altro che disinteressata al mondo esterno e alle sue relazioni. Molti di loro hanno anche ufficialmente scagionato le madri e, soprattutto, hanno aperto più di uno spiraglio su un mondo interiore ricco ed elaborato, sia pure in molti casi imprigionato da un’insufficiente interpretazione condivisa. Per loro come per tutti, disabili e non, la sessualità fa parte in maniera imprescindibile. Perché, credo fermante che la sessualità è ciò che siamo come individui, e non è affatto limitata al desiderio sessuale, ma costituisce un modo relazionale che ci permette di interagire con gli altri. Non è sempre facile comprendere e accettare la sessualità espressa dai bambini, poi ragazzi, infine adulti, autistici, non solo e non tanto perché potrebbe essere diversa dalla nostra, quanto perché loro stessi non sempre sono in grado di giustificarla a sufficienza, dando a noi dei criteri interpretativi della stessa. Il fascino che esercitano presso di loro le figure tonde, o gli oggetti con particolari estetici che noi non notiamo per nulla, può avere anche caratteristiche sensuali. Il mondo di un ragazzo autistico, ad esempio è ricco di sfumature che sfuggirebbero a un ragazzo con una modalità “polifunzionale“, e che “vede“ contemporaneamente più cose. I bambini autistici che passano ore a guardare una lavatrice ne ricavano piacere, e non necessariamente un piacere diverso da quello di un bambino che gioca per ore con un trenino. Il problema nasce perché magari quel bimbo è in grado di condividere con noi la gioia di guardare quel trenino muoversi, di coinvolgerci con le sue parole nel suo amato mondo, mentre magari un bambino autistico non lo fa. Quando poi il bambino autistico diventa adolescente, tutto è molto più complicato. Immaginate quante variabili cambiano durante l’adolescenza, tanto da rendere difficile la comprensione anche a un ragazzo “polimodale“. Senza fare distinzione di sesso, risulta difficile per chiunque gestire contemporaneamente il cambiamento fisico e quello ormonale, per non parlare degli effetti di questi cambiamenti sulla nostra relazione con gli altri. L’adolescenza è un periodo di cambiamenti fisici, ormonali, interpersonali delicato per tutti, immaginate cosa possono scatenare in un/a ragazzo/a con autismo. C’è da impazzire, la frustrazione va alle stelle, il tentativo di dare a tutto un senso è direttamente proporzionale a una solitudine in cui l’adolescente e la sua famiglia sono spesso rinchiusi. Un ragazzo o una ragazza alla prima cotta, spesso trovano nel gruppo dei pari un aiuto per gestire una situazione emotiva così nuova e spiazzante, amici che, anche solo con una pacca sulla spalla, sono di supporto. E un ragazzo o una ragazza autistici? O comunque un ragazzo o una ragazza con una disabilità? L’inclusione si ferma alla scuola, dove la sessualità e il sesso sono tenuti ai margini, quando non apertamente stigmatizzati. Quale immagine voglio dunque lasciare per questa prima riflessione sul mondo dell’amore ai tempi dell’autismo? Questa: un ragazzo dai tratti comuni, alto, dinoccolato come lo sono molti adolescenti, che guarda verso un appartamento, le cui finestre sono chiuse. Guarda alternativamente l’appartamento e il portone, seguendo un pensiero senza parole. Di tanto in tanto prende il suo Ipod e ascolta una musica, non sentiamo quale, ma vediamo che ne segue il ritmo, accennando talora a canticchiare ad occhi chiusi, o a muovere il corpo, sgranchendosi con quel ritmo misterioso. Ad un tratto il portone si apre e ne esce una ragazza, carina, bruna, vestita con un jeans e un maglione. Il ragazzo si alza, non osa avvicinarsi, la saluta con la mano, mantenendosi un poco lontano, pronunciando il suo nome. La ragazza sorride e a sua volta saluta, allontanandosi. Possono essere compagni di scuola, vicini di casa, essersi conosciuti sull’autobus, poco importa. Uno dei due è innamorato, forse il ragazzo che ha aspettato tanto per vederla uscire, ma forse anche lei ha una simpatia per lui. Non vediamo altro, oltre quel saluto, e quindi non sappiamo come si evolverà questa situazione. Abbiamo visto un ragazzo, una ragazza, un saluto che forse è un preludio. È autistico, il ragazzo? Lo è lei? Non lo sappiamo e, in fondo, non dovrebbe importare.

Il messaggio di Peter Gerhardt sull’autismo e la sessualità è rivoluzionario nella sua semplicità: La sessualità è uno degli elementi più fondamentali nella nostra vita ed è inerente a ciò che significa essere umani, il comportamento sessuale è una delle aree più vulnerabili nella nostra vita. La sessualità è un diritto umano fondamentale. Pertanto è della massima importanza che noi educhiamo i nostri amati riguardo al corretto comportamento sessuale, in modo che possano essere al sicuro e felici. In questo modo dovrebbero ragionare genitori, educatori, insegnanti… soprattutto quando si trovano a contatto con qualche tipo di disabilità. Peter ha parlato ieri in occasione della Ladders Conference in Massachusetts. Ha messo in chiaro fin dall’inizio che non stava parlando di persone che fanno sesso ma, anzi, stava parlando di sessualità come definizione e caratteristica umana di noi tutti. La sessualità e le sensazioni sessuali sono così fondamentali, così importanti, eppure c’è pochissima letteratura e ricerca circa l’insegnare alle persone con autismo come comportarsi in modo adeguato rispetto al loro proprio corpo ed organi e rispetto alle altre persone. Questo di Peter non doveva essere un discorso sul “come fare a“ o sul “se per caso“… ma piuttosto su ciò che ogni essere umano, nello spettro o meno, dovrebbe conoscere sui comportamenti appropriati e sicuri. Incredibilmente controverso eppure assolutamente necessario. È così difficile parlarne, pensarne, eppure quello che tutti noi vogliamo per i nostri figli è: essere felici ed essere al sicuro. Cosa facciamo per ottenere questo scopo dal momento che la sessualità li rende così vulnerabili? Peter e altri esperti ipotizzano che circa il 60-80 % di persone nello spettro sperimenterà una qualche forma di abuso sessuale durante la vita. Questo non significa necessariamente violenza, ha sottolineato Peter, ma che anche quell’eventualità non è da sottovalutare. La mancanza di informazioni è stupefacente. Non c’è nulla di scritto sull’insegnamento alle donne nello spettro circa le mestruazioni. Niente. Ciò significa che ogni madre di una ragazza nello spettro deve improvvisare. Da un lato noi, come società, siamo così “presi“ quando si tratta di sesso. Peter ha sottolineato quanto siamo “affascinati“ dal sesso: centinaia di parole gergali, l’ossessione di Internet per il sesso, dibattiti circa l’educazione sessuale nelle classi regolari, gravidanze adolescenziali; tuttavia, verso le persone con disabilità siamo assolutamente silenziosi. L’implicito atteggiamento della società, in questo caso, è il silenzio, la mancanza di informazioni e il concetto che: a) le persone nello spettro non provano sensazioni sessuali b) alle persone nello spettro non può essere insegnata l’“adeguatezza sessuale“. Sbagliato e ancora sbagliato. Peter ha sottolineato più volte che, tutto ciò che si presenta statisticamente nella popolazione “normale“, possiamo supporre che si presenti in parallelo nella popolazione nello spettro. Ciò significa che c’è l’omosessualità, feticci, fantasie, le questioni transgender… A questo proposito noi non sappiamo. Le sensazioni sono là ma a causa della mancanza di comunicazione non capiamo e molti nello spettro non possono esprimerlo. Vorrei che potessimo avere un annuncio di servizio pubblico dedicato alla disabilità nello sviluppo che dica qualcosa del genere: “Autismo: Tutto quello che sai è sbagliato. Inizia da qui. Guarda a tutte le ipotesi proprio per quello che sono: ipotesi. Le persone con autismo, non importa il loro livello di funzionamento, sono pienamente esseri umani, con tutto ciò che questo comporta. Quest’idea ti spaventa? Ti rattrista? Bene, allora affronta il tuo stato d’animo ma non fare il terribile errore di non aiutare il tuo ragazzo autistico a capire riguardo al suo corpo e alla sua sicurezza, perché allora sei in cerca di guai della peggior specie. Allora cosa facciamo? Peter ha quello che lui chiama la “regola dei cinque anni“: pensare sempre in anticipo a quali cose avremo bisogno di disporre tra cinque anni a partire da oggi. Se il bambino di 5 anni gira per la spiaggia nudo, vogliamo essere sicuri che non lo farà a 10. Se uno di 8 anni si tocca in classe, vogliamo fare in modo che capisca che non può farlo lì e neanche dopo quando ne avrà 13 o 15. Potremmo dover iniziare a insegnargli ora, perché più i comportamenti vanno avanti, più sono difficili da reindirizzare. Immaginando il futuro del bambino nello spettro, abbiamo bisogno di pensare anche a come insegnare quello che c’è da sapere, visto il suo particolare stile di apprendimento. Non mettere un preservativo su una banana ed aspettarsi che qualcuno sia in grado di generalizzare questo concetto per il proprio corpo. Utilizzare foto realistiche, parole vere. Mantenere il messaggio semplice e ripetitivo. Peter sostiene anche che consentire una certa “stupidità“ nella conversazione, aiuta a rompere il ghiaccio. Insegnate ciò che Peter chiama “I Cerchi di comfort e sicurezza“: Chi è nella tua vita e qual è il suo ruolo? Il cerchio più interno sono i membri della famiglia, i propri cari. Questi possono aiutare con le esigenze personali come ad esempio un aiuto in bagno. Il cerchio successivo, gli amici, non possono aiutare allo stesso livello di bisogno, a meno che non siano amici molto stretti. I cerchi illustrano chi può e chi non può toccarti, anche sul braccio o sulla testa. È tutto molto ben definito. Devi pensare esattamente ciò che si deve pensare quando si è un genitore: che cosa ha bisogno di sapere il tuo bambino quando non ci sei tu ad aiutarlo. È necessario che il bambino sappia come chiudere la porta di un bagno. È necessario che il bambino sappia dire “no“ in un modo o nell’altro. È necessario che il/la ragazzo/a sappia che la masturbazione in sé non è un crimine ma che può essere fatta solo nella privacy: nel luogo opportuno. È necessario che il bambino sappia chi lo può aiutare e chi non dovrebbe. Se usiamo immagini e parole che non siano simboliche, ma piuttosto visive, precise e dirette, ci sarà evidentemente più probabilità di successo. Se non sappiamo come insegnare questo, allora noi genitori dobbiamo iniziare ad imparare. Dobbiamo cominciare ad imparare che la sicurezza sessuale va ben oltre l’identificazione di parti del corpo. Le sensazioni sessuali e la sicurezza sessuale sono un diritto umano fondamentale, per tutti gli esseri umani. Il primo passo per aiutare i nostri figli con autismo ad essere felici e ad avere una vita sana è quello di rompere il silenzio e l’imbarazzo su questo argomento.

 

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L’educazione sentimentale di Giulia

Tre idee diverse di un rapporto tra normodotato e una persona con disabilità.

Quest’estate ho conosciuto una persona “speciale“ con la quale sono entrata in confidenza. Una mia coetanea, disabile, di nome Giulia, che mi ha regalato un lungo racconto, intimo ma condivisile, che oserei definire una sorta di educazione sentimentale sottoforma di racconto autobiografico. Dalle sue appassionanti storie si evincono alcuni modelli di relazione che vorrei sottoporre all’attenzione dei lettori, perché sono tre esempi molto diversi fra loro, che possono riguardare chiunque, uomini, donne, normoditati e disabili; tali esempi possono soprattutto spingere ad una riflessione condivisa su senso dei rapporti di coppia, a diversi livelli.

Giulia, ragazza con disabilità, mi ha raccontato narrato tre storie, che descrivono, più che le caratteristiche delle singole persone, la natura delle loro relazioni: Giulia e Marco, Giulia e Lorenzo, Giulia e Gabriele.

In tutte e tre l’handicap è stato visto e vissuto senza creare una paura vera e propria o un disagio dovuto all’handicap in sé.  

Giulia e Marco,  entrambi disabili, si sono illusi di poter creare una relazione seria, Gabriele invece è un uomo sposato con il quale è capitata un’avventura estiva “proibita“: lui vive la disabilità in casa in quanto la moglie è disabile. Con Lorenzo Giulia ha vissuto un’ esperienza magnifica, che ha dato molto ad entrambi.

Partiamo dalla più tormentata.

Giulia e Marco. Paradossalmente con Marco, Giulia si è sentita annullata e non rispettata. Lei lo interpellava sempre prima di decidere cosa  fare, ma anche più semplicemente cosa mangiare o dove andare… Lui il fine settimana stava a casa di Giulia che da lungo tempo non viveva più con i suoi. Sceglieva le cose senza interpellarla, aveva pochi interessi e poca voglia di uscire, Giulia ha rinunciato alla sua grande passione per il cinema. Marco si permetteva di invitare tante persone a cena a casa della ragazza dicendoglielo con poco preavviso: tanto la donna doveva accettare e cucinare.

Anche sessualmente era concentrato solo su se stesso, i bisogni della sua donna erano poco contemplati. Aveva anche due problemi all’organo maschile, ad accorgersene non è stato lui ma Giulia, (diventando dottoressa, chiedendo spiegazioni ai medici e consultando internet, ha perfino organizzato una visita dall’urologo). Lui non accettava questi problemi e non voleva risolverli. Tutto ciò ha minato il loro rapporto e lo ha molto limitato sia sessualmente sia nella sfera culturale.

Perché la protagonista di questa storia è rimasta con lui per mesi? Credeva potesse capire ed imparare tante cose, era una storia seria ed era parecchio  tempo che non ne aveva una. Pensava che lui l’accettasse, accettasse il suo handicap motorio, ma forse non la vedeva veramente: era troppo concentrato sull’idea di trovare una donna che gli permettesse di  uscire di casa e tagliare il cordone ombelicale con sua madre, era solo questa la sua idea di donna, moglie e madre. Quante idee sbagliate si possono radicare tutt’oggi nelle persone e tramandarsele di generazione in generazione!

Era un finto rapporto tra pari, col tempo Giulia si rese conto che erano troppo diversi, non basta avere entrambi una disabilità  per potersi definire “allo stesso livello“, Marco era anche ossessionato dall’idea di sposarsi come unica possibilità di emancipazione. È stato un grosso errore coinvolgere le famiglie pensò Giulia quando il danno ormai era fatto! Lei è stata abbagliata dalla possibilità, almeno nel pensiero iniziale, di avere trovato il rapporto giusto, tra due persone disabili che pensano di potercela fare insieme, anche come scommessa da parte di entrambe, sulle aspettative proprie e delle rispettive famiglie. Per la giovane è  stata una grande illusione e conseguente disillusione. “Ero consapevole che venivamo da due situazioni culturali estremamente diverse“ racconta Giulia, “Però Marco voleva passare da un amante del teatro quando non lo era e mi faceva capire che il cinema – che io ho sempre amato – non lo interessava. Ho cercato di coinvolgerlo con tanti generi diversi, ma alla fine mi sono ritrovata spesso ad andare al cinema da sola con altre compagnie perché non volevo rinunciare a questo mio grande interesse e sono riuscita  in minima parte a coinvolgerlo.“

Noi donne dovremmo piantarla di sentirci crocerossine: ci sarebbero meno situazioni di stalking, non è giusto annullarsi per una relazione, se ciò accade non è una relazione “sana“. Questa non è retorica è un’idea che ho chiara in mente e forse dovrebbe essere più “sentita“ da molte altre persone, sia uomini sia donne.

Per Giulia c’è stato un altro campanello di allarme che all’inizio ha voluto ignorare: la madre l’aveva conosciuto e spesso ripeteva al figlio:

– Sono preoccupata per questa bella ragazza, è così sensibile. Mi dispiacerebbe che la facessi soffrire.-

Lei  non si spiegava come mai la madre avesse queste preoccupazioni già a gli albori del rapporto tra i due giovani. Poi al cominciare della crisi ha capito che forse la madre lo conosceva bene ed aveva già previsto l’evolversi della loro situazione. Lui il week-end non si portava le medicine, soffriva di emicranie e toccava a Giulia accompagnarlo in farmacia: da solo non era in grado. Lei avrebbe desiderato un uomo, che la facesse sentire una vera donna, valorizzata, capita e amata… non era abituata a fare da madre, infermiera e badante ad una persona di quarant’anni. Giulia mi fa presente che non c’era erotismo, passione e complicità nel loro rapporto.

Giulia e Lorenzo – Tra Giulia e Lorenzo la storia è ben diversa, lui è un uomo che pur non vivendo la disabilità in prima persona o in famiglia ha accettato Giulia senza problemi. L’ha sempre vista come donna e non come disabile, l’ha apprezzata sia fisicamente sia intellettualmente,  con lui c’è sempre stata la massima intesa affettiva, amorosa, sessuale, passionale, intellettiva. Tanto tenevano l’uno all’altro che lei ha accettato tanti compromessi e cambiamenti pur di continuare la loro intesa. Lui le  ha detto più volte “la mia situazione sentimentale e familiare adesso è cambiata in tal modo. Non so se vorrai continuare a vedermi“. E Giulia ha sempre preferito accettare i suoi cambiamenti facendo in modo che questi non modificassero troppo la loro relazione. Perché gli vuole un gran bene ed è una persona speciale. L’importanza del vivere una relazione affettiva e intellettiva così intensa, ha permesso ad entrambi di trasformare il rapporto in una amicizia profonda, che, racconta lei “ancora dura“ e che  ha consentito loro di aiutarsi consultarsi e consolarsi  a vicenda, nei momenti più complicati, difficili e drammatici dei loro percorsi di vita.  Altro ingrediente fondamentale dello spessore della loro relazione è stata l’ironia e il prendersi in giro l’uno con l’altra, ridendo anche tanto di loro stessi e di quello che sono diventati. Oltre ad un sempre presente rispetto reciproco, in tutte le situazioni da loro vissute. Tra i due protagonisti di questa storia c’è stato  quel rispetto che serve in una relazione sana, l’intesa, la passione, la complicità che mancavano con Marco.

“È buffa la vita,“ mi racconta ancora Giulia “Marco poteva essere il mio partner ideale e la cosa non ha minimamente funzionato. Il rapporto con Lorenzo funziona alla perfezione ma non si è mai innamorato di me. Con Marco ci dicevamo ti amo, soprattutto all’inizio, ma a pensarci bene ce lo ripetevamo anche dopo quando diventò sempre più una presa in giro.“

 Con Lorenzo non si è mai annoiata, ogni telefonata, pranzo, caffè, aperitivo a casa di lei o fuori, è un momento bello e giocoso per entrambi. A Giulia piace il fascino di Lorenzo, la sua educazione, la sua bellezza che per lei poco cambiano con il trascorrere degli anni.

Giulia e Gabriele – Gabriele e Giulia hanno vissuto un altro tipo di relazione, e, se vogliamo, un altro aspetto della relazione sentimentale: si è  trattato di un invaghimento, una sbandata estiva, leggera ma intensa a suo modo, e destinata a concludersi in breve. Gabriele è un persona che non ha problemi a relazionarsi con l’handicap in quanto lo vive tra le mura domestiche. È sposato da tanti anni con una persona disabile. Spesso ha avuto ed ha ancora dei sensi di colpa rispetto alla moglie ma il desiderio di lasciarsi abbandonare ad una nuova fiamma è forte. “Anche se conoscevamo entrambi la sua situazione, ci siamo lasciati trasportare dalla passione e dall’idea che fosse qualcosa di proibito.“ Narra Giulia, a pensarci bene a tante e tante persone capita la stessa  cosa “Non c’è stato né un vero rapporto sessuale, né una vera relazione sentimentale. Dovevamo vivere tutto in gran segreto… Io in passato avevo già conosciuto lui e la sua famiglia (non hanno figli), capivo la sofferenza della moglie diventata disabile in tarda età. Io, dal canto mio non mi sono risparmiata a consigliarla su terapie farmacologiche e centri specializzati per i problemi motori, perché in un certo senso la situazione di sua moglie mi somigliava. Non mi sono voluta fermare davanti al tradimento, davanti al buon senso e all’idea che Gabriele fosse un uomo sposato, terrorizzato dall’idea di far l’amore in macchina per paura di essere sorpreso. La moglie non sospettava niente e mi ha fatto molti regali. L’anno prima che lui si dichiarasse non sospettavo nulla ma a suo dire già li piacevo. Se non si fosse palesato non avrei notato il suo interesse. Io come disabile non noto più gli sguardi degli altri siano essi di compassione o di apprezzamento. Dopo tanti rifiuti da maschi normodotati terrorizzati dal mio handicap, non riesco a sottrarmi all’attenzione, alle tenerezze, alle premure e a qualche bacio di troppo.“

Le attenzioni di un uomo fanno piacere, soprattutto i primi “approcci“. Come si è sentita? Anche se andava contro alla morale, all’etica, al buon senso… non si sentiva “sporca“ o una “poco di buono“ intanto si è trattato di baci e tenerezze non di altro… mi racconta che le è tornata in mente la celebre canzone di De Andrè, Bocca di rosa. “Esatto forse ero come la protagonista che arrivata in un piccolo paese faceva l’amore per  passione, non per noia e neanche per amore ma, ripeto, solo per passione.“

Gabriele e Giulia  non hanno fatto l’amore ma quelle coccole, quei baci passionali ed appassionati l’hanno fatta sentire una vera donna piacente e apprezzata, non una disabile rifiutata dall’uomo normodotato! Ecco i rifiuti di 1,2,10,30 uomini “normali“ ti possono portare a dare peso ad attenzioni ingiuste che minano i TUOI valori e principi a tal punto che non sono più tuoi ma di qualcun altro.

 C’è squallore in tutto questo? No, per il  vissuto di Giulia direi che lo squallore è di chi ti rifiuta di chi di dice al primo appuntamento “al telefono mi ti immaginavo meno disabile“ e fugge via senza neanche scendere dall’auto. C’è squallore negli uomini che pensano solo a se stessi senza tener minimamente presente il piacere del partner… c’era squallore in molti atteggiamenti di Marco.

L’etica e la morale hanno le loro giuste regole, ma, secondo me e secondo la mia amica Giulia,  non  troviamo squallore nella dolcezza delle coccole tra una ragazza ed un uomo sposato. Bisogna fermarsi in tempo, ma a volte non è facile e pure un bacio può essere di troppo. Sono certa che bisogna prendere il meglio dai rapporti con le persone, il guaio è che non sempre si può tenere conto delle mille sfaccettatture che una relazione presenta.

 Anche tra Giulia e Lorenzo se si fossero fermati alla regola “no perché non sarai mai il mio uomo e non sei single“ si sarebbero persi entrambi delle cose bellissime ed importanti che hanno creato un’amicizia speciale che persiste con il passare degli anni! Direi che Giulia non si sa fermare in tempo ma ha pochi rimorsi e soprattutto non ha rimpianti. Lei ha sempre cercato di prendere il meglio da queste relazioni e da relazioni amorose che ha avuto prima di incontrare Lorenzo.

Quello che  Giulia ha aggiunto, riflettendo sulle sue storie, mi sembra forte ed esemplare:

 “Non mi sono mai poco stimata, ho saputo stare sola quando capivo che il rapporto o la relazione erano logori o non valeva più la pena di essere vissuta. Ho provato la nostalgia e la malinconia di non potere avere il rapporto giusto con la persona giusta pensando ad una prospettiva di lunga durata della relazione ed “equilibrata“. Guarda la mia storia con Lorenzo; sapevo dentro di me che, per quanto bella, intensa e profonda non avrei mai potuto soddisfare tutte quelle esigenze  e aspettative di cui lui avrebbe avuto nel tempo bisogno e questo, in fondo… proprio per la mia  condizione di disabile che tanto spaventa e frena molti uomini“.

 

Vorrei chiudere con un ultimo pensiero a Lorenzo e Giulia, pensando all’importanza dell’amicizia speciale che li unisce non come consolazione, ma come conquista di un rapporto profondo.  

Ai tanti innamorati che sognano amori impossibili vorrei dire di non perdere la speranza. Giulia ha provato e trovato il  vero amore in passato. Pensa però che in tutti i legami interpersonali non ci sia solo il bianco o il nero ma una scala infinita di grigi. Vorrei anche invitarmi e invitare i miei lettori a non dare giudizi facili ed affrettati sulle tante possibili, infinite combinazioni di relazioni sentimentali, che insieme formano l’ originale educazione sentimentale per ognuno di noi, un arcobaleno di colori che non si scorgono tutti a prima vista.

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La depressione è una malattia, e si può guarire.

La depressione è una malattia a tutti gli effetti, essa, se trascurata può avere sintomi che debilitano il fisico come l’assenza di appetito che spinge l’individuo a non mangiare, l’insonnia grave e ripetuta, l’assenza/sospensione del ciclo mestruale, l’essere sempre stanco e apatico, non avere più un giusto ritmo sonno-veglia, essere disorientato nello spazio e verso gli altri, piangere spesso, sottovalutarsi e pensare al suicidio, trascurare aspetti della vita importanti che portano l’individuo ad uscire di casa, lavorare, avere degli amici. Questi sono i sintomi più frequenti di questa patologia. Certo oggi si fa fatica a distinguere un po’ di tristezza dalla depressione e il consumo di ansiolitici ed antidepressivi è in netto aumento rispetto allo scorso decennio, come si evince da un’indagine dell’ Aifa, Agenzia italiana del farmaco. Inoltre gli antidepressivi risultano al primo posto tra i farmaci usati per il sistema nervoso centrale: questi ultimi sono al quarto posto per consumi. La depressione in Italia  colpisce circa otto milioni di persone!

È sbagliato il fai da te: addirittura negli USA si somministrano farmaci antidepressivi (che, voglio ricordare, creano dipendenza) ai bambini, per contrastare piccole pecche caratteriali!

Trattandosi di una malattia psichiatrica, per la depressione è necessaria una diagnosi del medico ed il fai da te è spesso deleterio. Purtroppo nella nostra società permangono ancora molti pregiudizi, le persone non ammettono di soffrirne e non vogliono ricorrere alle cure di uno specialista.

Il modo di ragionare di molti si aggrappa ancora a stereotipi del tipo:

Se vado dallo psicologo vuol dire subire una sconfitta perché non ce l’ho fatta da solo!“

“Se mi curo da uno psicologo penseranno che sono matto!

“Se cambio i miei pensieri non sono più io!“

“E’ impossibile cambiare! Sono fatto così“

Ci vorrebbe solo un miracolo!“

Anche i familiari tendono a sminuire il problema con frasi del tipo:

Sei solo un po’ triste e stanco.“

“È colpa tua: dovesti reagire, esci che ti passa“ .

Niente di più sbagliato: chi è depresso spesso non ha le forze né morali né fisiche per cambiare comportamento. Inoltre con queste frasi tipiche si tende ad abbassare la già scarsa autostima andando ad ampliare i pensieri di autolesionismo e tendenze suicide di questi soggetti. Per ottenere un buon risultato bisognerebbe, dopo una seria diagnosi, agire, con terapie adeguate, sia sul paziente sia sul nucleo familiare. Ci vuole tempo per risalire dall’abisso, ma si può se si fa psicoterapia, se ci si rieduca ad uno stile di vita sano e scadenzato. Nei casi più acuti, magari dove il primo intervento è arrivato in ritardo, assumere le giuste medicine può rivelarsi utile per affrontare i disturbi fisici ed ritrovare la voglia e le energie per recuperare uno stile di vita più corretto ed aperto verso l’esterno.

Purtroppo questa malattia colpisce anche in giovane età, a soffrirne di più sono le donne rispetto a gli uomini. Queste possono arrivare all’apice che le porta a disprezzare se stesse.

All’esordio del problema si manifesta un’ansia  immotivata e/o attacchi di panico anche per lunghi periodi. Col passare del tempo si presentano altri sintomi fisici che non ho ancora elencato, si tratta di disturbi della digestione e gastro intestinali, la testa spesso diventa pesante o sembra essere stretta da una morsa, c’è la fame nervosa che ti spinge a svuotare il frigo principalmente quando non si riesce a dormire.

A volte la terapia farmacologica non da i risultati sperati, è possibile dover cambiarla prima di trovare le dosi ed il farmaco giusto. Con la terapia e psicoterapia giuste si può guarire anche se il percorso è molto lungo e dopo ci possono essere ricadute, ma è possibile imparare a gestirle.

Riporto ora una breve testimonianza di un uomo che è riuscito a guarire completamente.

Alla domanda “Che consiglio darebbe a chi leggendo queste righe si identificasse con la sua storia e non sapesse come uscirne?“ Salvio risponde che:

Anche se è difficile nella condizione del depresso, consiglio di non arrendersi, di continuare a cercare una cura e perché no, magari una psicoterapia cognitivo-comportamentale associata in un primo periodo ad una cura farmacologica ‘su misura’ e prescritta da specialisti. Sì, si può vincere la lotta contro la depressione!

Anche un’altra domanda dell’intervista mi ha colpito perché porta un messaggio positivo che merita di essere divulgato:

Cosa le ha insegnato la lotta contro la depressione? Chi era Salvio prima della malattia e chi è oggi?

La lotta contro la depressione mi ha insegnato che se è ben mirata fornisce risultati positivi.  Mi ha anche insegnato ad avere empatia verso chi ancora ne soffre e mi ha fornito l’input per aiutare altri.

Prima della malattia ero un essere completamente ‘annullato’, impotente,  incapace di sperare, tanto meno di realizzare i propri sogni. Oggi posso dire di essere una persona normale, senza più addosso quel peso insopportabile della malattia. Oggi posso permettermi di affermare di essere: “Al di là della depressione“

Al disturbo depressivo spesso è associato un eccessivo consumo di alcol, i motivi possono essere:

–        per ovviare e contrastare l’insogna

–        per cercare di rilassarsi

–        per non pensare

–        per annullarsi sempre di più

–        per ottenere un comportamento autolesionista.

Per questo associo a questo articolo il link del mio post sull’alcolismo: http://www.piccologenio.it/2014/11/10/lerrore-nel-sottovalutare-le-malattie-invisibili-cause-e-effetti-dellabuso-di-alcol/

Per i disturbi psichiatrici non bisogna aver timore di chiedere aiuto, non è una vergogna soffrirne. Capito ciò se ne può uscire!

La depressione non è un sentimento, ha diverse gravità: 3 fasi significative; visone negative di se stessa, del mondo, del futuro. influenza alimentazione e sonno. Poca capacità di concentrarsi. : https://www.youtube.com/watch?v=LyFIzozNi-c

seconda parte, le terapie: https://www.youtube.com/watch?v=dAGToPTGO_g

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