mangio poco o troppo? il problema è l’amore

L’anoressia e la bulemia  sono disturbi psicopatologici del comportamento alimentare Cosa c’è in genere dietro a questi disturbi? Si potrebbe cominciare a rispondere a questa domanda generica e complicata dicendo che non si mangia soltanto per sostentarsi, mangiare è un’attività carica di simboli e con essa esprimiamo la nostra relazione con il mondo.
Quindi la persona affetta da disturbi alimentari racchiude in se molte delusioni amorose, affettive e relazionali e la psicoterapia è lunga e difficile per tutto il carico di rapporti negativi che spingono la paziente a chiudersi, invece che chiedere aiuto e ad allontanarsi invece che andare verso “l’altro“.
Queste malattie sono anche chiamate “le malattie dell’amore“. Spesso le ragazze giovani, dopo una delusione amorosa, o a causa di un grosso conflitto con la mamma e poche attenzioni dal parte del padre, cominciano a perdere la stima per loro stesse. Il loro disagio si riflette e viene manifestato con la mancanza totale o quasi di alimentarsi, oppure con delle grandi abboffate che generano sensi di colpa e vomito autoindotto.
Parte della responsabilità è anche da attribuire  alla tv e ai giornali, perché propongono modelli di bellezza e perfezione. Il messaggio è chiaro: “se sei magra, sei anche bella, stimata, ricca e famosa come una top model“.
A questo proposito mi ha colpito un articolo del Corriere delle Sera:  “Modella brasiliana stroncata dall’anoressia. Carolina Reston aveva 21 anni: pesava 40 chili per 1,74 di altezza.“
L’articolo spiegava che la Reston, dopo la sua ultima sfilata in Giappone, è stata ricoverata in ospedale a causa di un’insufficienza renale. Di lì a poco il quadro clinico si è ulteriormente complicato per l’insorgere di una forma di setticemia, un’infezione contratta per lo stato di deperimento fisico in cui si trovava (la sua pressione oscillava tra 30 e 50).
Dopo la morte della giovane, la madre non riesce a darsi pace. Ai microfoni di Globo Tv, ripresa poi dal Tg2, ha espresso tutto il suo strazio ma anche il senso di colpa per essere arrivata in ritardo: “E’ importante prestare attenzione ai primi sintomi per salvare i nostri figli“ ha detto in lacrime, rivolgendosi ai genitori che combattono la stessa battaglia. “Quando l’ho vista per l’ultima volta mi sono spaventata. E’ sempre stata ossessionata dal peso, ma adesso sembrava malata, tant’è vero che anche l’agenzia per la quale lavorava ultimamente, «L’Equipe» di San Paolo, l’aveva messa in trattamento da uno psichiatra, ma lei spesso non andava alle sessioni, perché temeva che non la chiamassero più se riprendeva qualche chilo“.
Il caso di questa giovane donna, poco più che ragazza, e di sua madre straziata dalla perdita ma anche dal vedere come i problemi oserei dire psicofisici le stavano portando via la figlia, mi sembra una testimonianza forte per poter dire alle ragazze: non sognate di essere uguali alle top model! Ognuno di noi ha la propria corporatura e la deve mantenere costante per essere sana, solo se rispettiamo e manteniamo sano il nostro corpo saremo in grado di ricevere e trasmettere l’amore e le attenzioni che è cibo dell’ interiorità di ogni essere umano.

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le ultime novità

Ciao a tutti, volevo dirvi che ho aggiornato le pagine “chi siamo“ e “film e libri“. Inoltre vi invito a cliccare su http://www.2007.handiamo.it/sites/wp_handiamo/index.php è un interessante blog che si occupa di cultura in modo molto ampio.
Mi ha colpito il sottotitolo del blog stesso: un diario per riflettere sul significato della cultura per tutti. Dove la disabilità non è un mondo a parte ma una parte del mondo.
Io vi ho partecipato comentando i seguenti articoli: “LO SPECCHIO CHE ATTRAVERSA L’ANIMA. FRIDA KHALO. La “Cantata dei bambini“. Un viaggio teatrale con l’attore Fabrizio Minneo. La casa. Voglia di spot. Il cinema di Ozpetek per l’AIRC, ed Gauguin, Sinonimo di Coraggio.“
Buona settimana a tutti
La Redattrice
 

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Un’insolita giornata

Quella mattina ci siamo svegliate alle sei: dovevamo prendere  il treno dalla stazione di Roma Termini per Bolzano, alle nove circa, eravamo io nonna e quattro valige. Quello era solo in bagaglio a mano perché nonna aveva previdentemente spedito due bauli enormi e pieni zeppi di vestiti tramite corriere. Nonna è sempre previdente, aveva anche richiesto il servizio assistenza disabili che è attivo ed efficiente in tutte le stazioni e mi hanno portato con una piccola vettura elettrica, dal parcheggio fino al treno.
Il viaggio era cominciato nel migliore dei modi.
Verso mezzogiorno ci siamo alzate: volevamo raggiungere il vagone ristorante, ma non raggiungemmo nessun ristorante quel giorno!
Camminavo sottobraccio a nonna; fatalità volle che mentre passavamo da un vagone all altro, entrando nella stazione di Bologna, il treno fece una frenata un po’ brusca, nonna cadde all’indietro trascinandomi per terra. Io non mi sono fatta niente ma nonna sbatté la testa contro la parete del treno, facendo un rumore sordo fortissimo, sembrava il rumore di una palla ti legno molto pesante scagliata contro la parete. Dei signori accorsero, ci fecero sedere sulle prime due poltrone del vagone. Nonna si lamentava, diceva: “Che male, che male, mi fa male la testa, ho la nausea“. Io ero preoccupata ma non troppo: ho dato tante capocciate come quella, lo so che fa male, ma per me non è mai stato pericoloso. Però in quel momento non ho pensato che nonna ha qualche anno più di me e che alla sua età, per una botta in testa ci possono essere delle conseguenze. Non l’ho pensato perché non reputo mia nonna “una persona anziana“ e questo mio atteggiamento mi viene sempre confermato quando lei parla con le persone e dice: “indovini quanti anni ho?“ e loro rispondono titubanti “ma no lo so, sessantacinque, forse settanta“, lei con voce sicura e divertita risponde “ce ne ho ottantuno!“ restano tutti sbigottiti e le fanno i complimenti.
Tornando a quei minuti dopo la caduta, una dottoressa che stava andando in vacanza in montagna come noi, raggiunse subito nonna li senti il polso e decise che era meglio chiamare autoambulanza e mandarci al pronto soccorso di Bologna.
In un’ora che il treno dovette stare fermo aspettando l’autoambulanza, intorno a nonna si creò un piccola folla: seduta accanto a lei, c’ero io spaventata, le tenevo la mano come se la mia mano la potesse curarla Poi c’erano la dottoressa, tre poliziotti e gli infermieri dell’ambulanza e altri due o tre passeggeri del treno. Nonna diede subito le sue generalità e precisò “non sono svenuta e sono lucida, anche adesso ricordo tutto, vedete come parlo bene, sto bene.“ “si signora“ disse la dottoressa “ma le consigli di andare a farsi una tac“ “si, si ha ragione, si scambi i numeri di cellulare con mia nipote così stasera ci sentiamo“.
Gli infermieri misero nonna sulla barella e le “disse mia nipote viene con me, non voglio assolutamente che mi separate da lei“ “certo signora, non si preoccupi, la ragazza sta con lei“. La barella scese dal treno e nonna chiese “Marzia dove sei, Marzia“ “eccomi nonna sto scendendo stai tranquilla“. Entrammo in autoambulanza, ero euforica: “è la prima volta che vado i autoambulanza, e per fortuna non hai qualcosa di grave“ nonna sorrise e disse “sei proprio matta“. “Però la sirena è spenta“ mi rivolsi all’infermiere “si potrebbe accendere?“ Mi accontentò subito.
Arrivammo al pronto soccorso, era l’una e mezza. Misero nonna su un’altra barella ed io mi ritrovai seduta accanto a lei su una sedia a rotelle. Nonna aveva un collare rigido che le immobilizzava il collo, poteva solo guardare il soffitto. Con la mano teneva stretta la mia sedia a rotelle; come se io potessi scappare…
Non sapevo che fare, mi infastidiva stare sulla sedia a rotelle: vorrei alzarmi e sgranchirmi le gambe ma non posso, magari impiccio. Stavo pensando queste cose quando chiesi a nonna: “Vuoi che avverto io nonno e mamma?“ lei ci pensò a lungo prima di rispondere. Mi guardai attorno, eravamo in un lungo corridoio; le pareti e le tante tendine che chiudevano le sale visite erano giallo chiaro. Sulle tante barelle c’erano per lo più anziani con flebo o bombole di ossigeno. Accanto ad ogni barella c’era un parente in piedi che aspettava il medico. “No Marzia, è inutile dirglielo tanto ci risponderanno che siamo due pazze e che non possiamo più viaggiare da sole. Non chiamiamo nessuno, tu che ne pensi?“ “è giusto, tanto non sono i tipi che prendono e partono per venire ad aiutarci, è meglio non dire niente.“
Le ore trascorsero lentissimamente nell’attesa della tac, la visita del medico di base e dell’ortopedico, io guardavo spesso le lancette di un piccolo orologio a muro non si muoveva quasi per niente, mi sembrava la moviola di un film americano, forse mi sentivo catapultata in “ER medici in prima linea“. In quell’ospedale la stanchezza, al contrario dello scorrere del tempo, si faceva sentire benissimo ed arrivava sempre più veloce.
Il pomeriggio nonna fece le due visite e la tac a distanza di ore una dall’altra. Eravamo entrambe a digiuno: nonna non poteva mangiare ed io non avevo fame, chiesi solo l’acqua ad un’infermiera, mi portò un bottiglia bella fresca: “Marzia non vuoi un panino“ “no nonna, non ho fame“ “ ok lasciamo stare tanto chi ti accompagna al bar“ “appunto, mangerò questa sera, poi ho lo stomaco chiuso adesso mi basta l’acqua“.
Poco dopo dissi: “nonna non mi sento bene, ho la pressione sicuramente troppo bassa“ “aspetta, cerco nella borsa una bustina di zucchero,“ “ dai nonna sbrigati mi sento male“ “stai calma, eccola questa è l’ultima“. Non feci a tempo a metterla sotto la lingua perché persi i sensi.
Quando mi svegliai ero su una barella accanto alla barella di nonna e dall’altra parte un’infermiera che mi chiedeva come mi sentivo, li risposi che ero stanche e che finalmente potevo stare un po’ distesa. “Riposati“ disse lei “nella flebo ci sono zuccheri e sali minerali, durerà meno di venti minuti, quando sarà finita vi dimettiamo“. “Ho capito, la ringrazio“.
Guardai nonna e le chiesi “ma dove dormiremo questa notte?“ “eh già! Io avevo un’ amica a Bologna ma non ho il numero con me “ “aspetta nonna, il mio amico Luca è stato qui per lavoro lo posso chiamare e chiedere se conosce un albergo qui vicino“. Lo chiamai gli spiegai in due parole l’accaduto e gli chiesi se ci sapeva consigliare un hotel nella zona dell’ospedale. “Ok, richiamami tra dieci minuti che lo cerco su internet“ Lo richiamai mi diede l’indirizzo dove passammo la notte. “e pensare che dovevamo essere già in montagna, invece siamo qui su due barelle stremate dalla stanchezza“ gli dissi ridendo. “Mi dispiace, se ti serve qualche altra cosa non esitare a chiamarmi e comunque tiemmi informato“. Lo ringraziai e le salutai.
Alle otto uscimmo dall’ospedale. L’aria era rovente. Noi eravamo pallide, sporche e cariche di borse. Chiamammo un taxi che ci portò in uno squallido e piccolo hotel.
Per cena c’erano solo piatti freddi, non mangiammo quasi niente. Nonna prenotò una bella macchina con autista per la mattina dopo, ci mettemmo subito a dormire.
Sotto le coperte ripensai alla caduta, alla giornata in ospedale e all’autoambulanza. Pensai a nonna a quello che sarebbe potuto accadere. Tutto è bene quel che finisce bene mi dissi sottovoce, tra un Padre Nostro e un’Ave Maria. La stanza era già buia, c’era silenzio, sapevo che anche nonna stava pregando. Anche lei stava sicuramente ripensando a tutta la giornata e come me ringraziava il Signore e avrà pensato che era passato tutto anche se eravamo sole io e lei a cinquecento chilometri da casa e dal resto della famiglia, eravamo riuscite a cavarcela ed anche se si sentiva stanca e stordita mi disse all’orecchio “dormiamo tranquille, tanto dalla tac non si vede nulla di anomalo, hai capito Marzia?“ le strinsi la mano e dissi un flebile “si“.
La mattina alle otto abbiamo ripreso le nostre valige a deposito bagagli della stazione di Bologna e ripartimmo per la nostra vacanza in montagna.

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Avanti il prossimo

 racconto della redattrice

È successo in un attimo. Era un pomeriggio di novembre del 2006, ero passata per quell’incrocio miliardi di volte. Quel giorno avevo fretta e poi c’era quel cartello “dare precedenza“. Ho rallentato, ma avevo un appuntamento ed era già tardi. Sono ripartita, il sole mi accecava, e poi un gran botto. Ho frenato terrorizzata, non ero neanche arrivata a metà incrocio che quell’urto mi fece ritrovare ferma col muso della mia Nissan Micra verso destra. Vidi subito l’altra macchina con la quale mi ero scontrata e scoppiai a piangere ed imprecare.
Sul posto c’era già una piccola folla, un signore mi chiese: “Ti sei fatta male?“ “No, sto bene“ “Piangi perché ti fa male il collo?“ “No, non mi sono fatta niente ma ho paura, cos’è successo?“  gli chiesi mentre tiravo fuori il cellulare dalla borsa. “L’incidente non è grave, non ti preoccupare“. Feci il numero di nonna che mi stava aspettando a viale Mazzini. “Pronto, nonna?“ “Marzia perché piangi? Dove sei? Cosa è successo?“. Ed io: “Ho avuto un incidente, non lo so, vieni qui, ho paura“. “Un incidente! Come? Non capisco se piangi? C’è qualcuno lì con te? Passami qualcuno“. Passai il telefono ad un signore, mentre un’altra persona mi fece scendere dall’auto.
Il conducente dell’altra macchina era seduto per terra, stava parlando e non vidi traccia di sangue. Mi fecero sedere al bar e mi portarono un bicchier d’acqua. Sul luogo dell’incidente arrivarono, in contemporanea, l’ autoambulanza ed i vigile e subito dopo arrivò nonna: mi aveva raggiunto in un tempo da record. Un vigile fece il verbale ed io lo firmai. Le macchine furono portate via dal carratrezzi, il  conducende dell’atra auto andò all’ospedale con autoambulanza, gli faceva male una gamba.  Nonna mi riaccompagno a casa. Non era arrabbiata: “Chi non fa non sbaglia, cara Marzia“ mi diceva per consolarmi. “Ora fatti fare una camomilla, lavati e mettiti sul letto“.
Dopo aver seguito i suoi consigli, chiamai mamma e le raccontai l’accaduto; ci chiedevamo se mi avrebbero sospeso la patente o se poteva risolversi tutto con una multa salata. Secondo noi, ingenue, me la sarei cavata con una multa e cinque punti in meno. In realtà arrivò subito la multa e mi scalarono i punti di guida (non mi ricordo quanti me ne tolsero di preciso), ma questo era solo l’inizio di una vicenda ben più lunga e sofferta.
La macchina era da rottamare ed io posso guidare solo la mia auto perché ha il cambio automatico e una modifica al volante. Pensavo che il tutto si sarebbe risolta nel giro di pochi mesi, il tempo di acquistare una nova macchina e fare il corso teorico a scuola guida, indispensabile per riprendere i punti della patente. Mai avrei pensato che sarei rimasta per un anno e mezzo senza poter guidare!
Un maledetto giorno, mentre ero in giro usando il taxi, persi la patente: me ne accorsi solo la sera, mentre pagavo una pizza insieme a un mio amico. “Cavolo, dov’è la patente? La tengo sempre qui accanto ai soldi!“. “Guarda nella borsa“ mi disse lui. “Aspetta, tiro fuori tutto, no, non c’è!“. La cercammo tutta la sera, senza trovarla: l’unica spiegazione era che l’avevo persa quel pomeriggio chissà dove.
Il giorno dopo  feci la denuncia di smarrimento mi diedero un foglio di giuda provvisorio.
Passarono pochi giorni, quando nonna trovò una Micra usata, che sembrava in buone condizione e dopo una consultazione famigliare tra me, nonna, mamma e nonno, me la comprarono. Grazie alla macchina usata, che quindi arrivò senza lunghe attese,  ripresi a guidare  fino allo scadere del foglio provvisorio.  In questura mi avevano spiegato che allo scadere dei sessanta giorni il foglio non era più  valido e dura solo sessanta giorni perché perché per rinnovare una patente per non disabili non ci vuole tanto tempo.
Peccato che io dovevo aspettare, gli esami per le patenti speciali si fanno alla motorizzazione solo il primo lunedì del mese, mentre gli esami “normali“ si tengono ogni settimana. Con questi tempi era impossibile non ritrovarmi col foglio provvisorio scaduto, quindi di nuovo senza poter guidare.
Per mesi e mesi ho vissuto molto più in casa, costretta  a dover chiedere troppo spesso “Per piacere, domani ho questo impegno, mi puoi accompagnare?“. dovevo domandare a mamma, nonna, un amico o un taxi per andare all’università ed anche per fare la spesa o in farmacia e tutte le commissioni più ordinarie. Era come quando ero minorenne e trascorrevo le mie giornate tra scuola, casa ed il fine settimana al cinema.
“Non è possibile, ho ventiquattro anni, negli ultimi cinque anni ho imparato a guidare in maniera sempre più sicura, ho imparato ad attraversare le strade anche quelle più trafficate, ho imparato ad entrare in un negozio e a fare un acquisto senza rompere nulla, ed adesso non posso più fare niente da sola“.
Cominciai a chiamare sempre più spesso la scuola guida dove avevo preso la patente. Mi dissero che era inutile fare il corso per riprendere i punti dal momento che dovevo rifare tutto da capo: visita medica, esame orale e teorico. Era questa la trafila che mi aspettava!  Riuscii ad avere l’appuntamento per la visita medica di lì a breve e la passai subito. Per verbalizzarne il risultato, l’ingegnere voleva vedere la mia patente. “Non ce l’ho, l’ho smarrita“ dissi. “Allora non posso fare niente per te. Avanti il prossimo“. “Ma che dice?“ lo attaccammo io e nonna “Ho la denuncia di smarrimento, mi hanno detto che basta questa per la visita medica, lo verbalizzi, la prego“. Rispose: “Uffa, perché non l’avete detto subito? Ecco qua la firma che vi serve. Avanti il prossimo, chi è il prossimo?“.
“Nonna“ le dissi appena uscita dal palazzo squallido e grigio della commissione medica “è inutile che ci arrabbiamo e ci rammarichiamo, tanto tutte le cose burocratiche vanno così“. “Hai ragione Marzia, è tutto faticoso in questo mondo. Vieni a pranzo a casa mia così se ci va il pomeriggio usciamo“. “Va bene nonna, andiamo“.
Passai tanti e tanti pomeriggi a casa sua, perché il più delle volte  era lei che mi accompagnava nei posti che dovevo o volevo raggiungere. Di rado mi ha detto “No, non ce la faccio, ho ottantuno anni, ti chiamo un taxi o lo chiedi a tua madre“. Quando non stavo da lei, rimanevo a casa mia al computer, sui libri o con la tv. Col passare dei mesi mi sentivo meno sicura nel camminare e cadevo sempre più spesso, ma per fortuna anche quando  cado è molto raro che mi faccio male.
Quell’estate, andai al mare, guardavo la gente in bicicletta, sui motorini o sui pattini; pensavo che a diciott’anni e pochi mesi guidavo già  e sono sempre andata in giro per Roma senza problemi. Addirittura, ancora prima, dai miei  quattordici ai diciotto anni usavo un motorino elettrico a quattro ruote  che mi permetteva di girare in lungo ed in largo nella pineta di Punta Ala, dove non c’erano molte macchine, a Roma non lo portavo perchè era troppo lento e pericoloso, poi lo regalai la prima estate che presi la patente.  Ma non mi sarei mai immaginata di dover vivere un’avventura tanto assurda come quella di trascorrere un  anno e mezzo senza poter guidare.
I primi di settembre nonna richiamò Serena, la segretaria della scuola guida, una delle poche scuole in tutta Roma ad avere le macchine con le modifiche per persone disabili. Serena spiegò a nonna che alla motorizzazione c’erano degli scioperi e che quindi tutti gli esami (per disabili e non) erano stati posticipati. “Dovete aspettare“ ci disse “vi chiamo io appena questa situazione si smuove un po’“.
Due mesi dopo ci chiamò e ci disse che le proteste degli ingegneri stavano diminuendo, ma Mattia, il mio istruttore di scuola giuda sconsigliava di andare. Mi arrabbiai e dissi che volevo fare un tentativo. Il lunedì seguenti mi svegliai alle sei, alle otto, ero davanti al cancello della motorizzazione con la mia “seconda Micra“. Era un mattino nebbioso, la luce biancastra del sole  filtrava a fatica, ai lati del piazzale c’erano bottiglie rotte, bicchieri di plastica e sacchi neri d’immondizia. Alle otto e mezza circa, arrivo Mattia e  si aprì il cancello. “Ciao Marzia, ho detto anche a tua nonna che secondo me è stato inutile venire oggi.“ Risposi “Ciao, ma ora siamo qui, facciamo almeno un tentativo!?! Dai ti prego“ “Va bene, aspetta qui vado dentro a vedere“. Al suo ritorno, la conferma che temevo di sentire. Io ed il mio accompagnatore potevamo tornare a casa e ad attendere il lunedì del mese seguente.
Il mese seguente la motorizzazione era aperta. Ricordo che stavo seduta in sala d’attesa quando arrivò l’ingegnere, io mandai un messaggio ad un mio amico dicendogli “sono dentro la motorizzazione, finalmente, sto aspettando di fare  l’esame, appena ho fatto ti chiamo“. Lo inviai col cellulare e contemporaneamente l’ ingegnere annunciò: “oggi facciamo solo gli esami delle patenti, chi deve fare revisione patente può tornare la volta prossima“. Non c’era nulla da fare, mi riavviai a casa, col mio accompagnatore. Ed io che mi immaginavo che quel giorno avrei fatto gli untimi chilometri della strada di casa portando io la mia Micra.
Dalla  macchina chiamai il mio amico e nonna; dicemmo che era quasi comico, che era proprio iella; costatammo che tutto quello che mi stava accadendo era al di sopra di ogni immaginazione. “Si è assurdo,“ dissi in tutt’e due le telefonate “ancora non è finita quest’avventura, ci dovrò tornare un’altra volta tra un mese“.
Arrivai a casa mia mangiai un panino e feci una lunga  dormita tanto non avevo in programma di uscire con qualcuno.
Trascorsi un  altro mese, stando molto tempo dentro casa. Meno uscivo e meno avevo voglia di uscire; è brutto a  dirsi ma  mi è successo proprio così, anche perchè se esco a piedi, posso raggiungere solo il bar ed il giornalaio.
Non avevo neanche bisogno di uscire perché se mi serviva qualcosa delegavo gli altri o dovevo per forza farmi accompagnare e questo era frustrante. Il computer potevo usarlo dal mio salotto, senza dover chiedere niente a nessuno e così passavo molto tempo a scrivere e in internet.
La tersa  volta che tornai alla motorizzazione potei finalmente sostenere  l’esame pratico.
Guidai per venti minuti anche un tratto di Laurentina: una strada a scorrimento veloce. Mi sentivo sicura, come se il periodo di stasi non l’avessi mai vissuto. Quando tornai al parcheggio l’ingegnere firmò un foglio e dopo essere già sceso disse  a Mattia: “promossa“ e se ne andò. Guardai Mattia con occhi interrogativi ed impauriti, mi fece “ok“ con i pollici feci un lungo respiro di sollievo, chiamai mamma e nonna e urlando dissi “ce l’ho fatta, è finita,“ “oh finamente“ risposero loro con voce mista tra riso e pianto. Conclusi la telefonata dicendo: “stasera venite a cena da me che festeggiamo“.
La sera cenammo col pesce, vino e spumante, la vicenda ci sembrava un brutto ricordo.
La patente mi arrivò a metà maggio 2007, dopo un mese e mezzo dall’esame pratico; questo perchè gli uffici addetti alle patenti “speciali“ hanno poco personale e troppe pratiche da sbrigare ed i tempi sono esasperanti.
Il giorno che presi in mano il mio nuovo documento, abbraccia nonna forte forte. La riaccompagnai a casa sua e ritornai a casa da sola. Ricominciai da quel giorno a condurre la mia vita di sempre, fatta da università, spesucce, uscite con mamma nonna ed amici, ansi spesso sono io che do’ un passaggio a loro.

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aggiornamenti dell’14 ottobre 2007

ciao a tutti, ho aggiornato la pagina “film e libri”.

un consiglio per il cinema: non vi perdete “il buoi dell’anima”. L’ho visto, è fatto benissimo e ho messo un articolo tra i film in piccologenio

potete mandare i vostri commenti e/o recenzioni all’indirizzo info@piccologenio.it

ho anche aggiornato il mio curriculum vitae che trovate alla paggina “chi siamo” .

Anche in “articoli della redattrice” ed in “artogoli vostri” sono trattati temi importanti ed attuali, un cosiglio: usate l’idece a destra e non precedente e successuva per avere una visione più completa di questo sito

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la depessione

  • In questo articolo trovate:
    1. Cenni storici
    2. Una scheda chiara su questa malattia
    3. “Dove si cura meglio la depressione“ articolo tratto dal Corriere della Sera
    4. Testimonianza scritta da una mia amica.
  • 5. conclusioni di Marzia

 

CENNI STORICI
Il primo ad interessarsene fu “le grand père” Freud, che in uno dei suoi più famosi scritti “Lutto e malinconia”, differenziava il dolore del lutto, dovuta alla perdita “concreta” di una persona, da quello malinconico, dove la perdita era emozionale più che reale, era cioè il sentimento di fondo di aver perso qualcosa o qualcuno indefinibile ma vitale; a ciò, aggiungeva Freud, si accompagnava sempre una profonda diminuzione della stima di sé. La Klein, in relazione a quest’ultimo punto, metteva in luce il fondamentale ruolo dell’aggressività che la persona indirizza a sé stessa (e da cui scaturisce di conseguenza la svalutazione di sé). Tra gli autori contemporanei più interessanti, c’è lo psichiatra Silvano Arieti, che mette in luce una sorta di piano esistenziale preesistente della personalità “potenzialmente” depressa, che relega l’individuo a vivere “di luce riflessa”, dipendendo quindi da un altro dominante che può essere incarnato dal coniuge, da un’organizzazione, da una ideologia; a ciò la persona depressa aggiunge due pensieri antitetici: coscienza del proprio stile di vita, percezione di sé come incapace di apportare un cambiamento. Nel tentativo di uscire dalle acque stagnanti di questi sentimenti è facile cadere nella posizione opposta, quella maniacale (non a caso oggi si sostituisce il termine maniaco-depressivo con disturbo bipolare della personalità), che mette “il turbo” a pensieri, parole, opere, ma che produce il più delle volte solo (ulteriori) omissioni.
 

  • UNA SCHEDA CHIARA SU QUESTA MALATTIA
    la depressione è un disturbo sicuramente diffuso tra la popolazione generale e quindi molto ben conosciuto.
    Sembra, infatti, che ne soffra dal 10% al 15% della popolazione, con una diffusione maggiore tra le donne.
    Generalmente chi ne soffre mostra un umore depresso, una marcata tristezza quasi quotidiana e tende a non riuscire più a provare lo stesso piacere nelle attività che provava prima. Le persone che soffrono di depressione, si sentono sempre giù, l’umore ed i pensieri sono sempre negativi. Sembra che presentino un vero e proprio dolore di vivere, che li porta non riuscire a godersi più nulla.
    Oltre a questi sintomi primari, normalmente succede che le persone che soffrono di questo disturbo ne presentino altri, quali:
              un appetito aumentato o diminuito;
              un aumento o una diminuzione del sonno;
              spesso un marcato rallentamento motorio o, al contrario, una marcata agitazione;
              una marcata affaticabilità;
              una ridotta capacità di concentrarsi;
              una tendenza molto forte ad incolparsi, a svalutarsi;pensare al suicidio.
    Chi soffre di depressione può soffrirne in modo ACUTO (cioè presenta delle fasi di depressione molto acute ed improvvise, che magari tendono a scomparire da sole o con una terapia) oppure soffrirne costantemente, anche se in forma leggera, con alcuni improvvisi momenti di peggioramento.
    Spesso i parenti spronano chi ne soffre a reagire, a sforzarsi. Questo ovviamente in buona fede, senza rendersi conto che ciò tende a far sentire chi ne soffre ancora più in colpa.
    L’atteggiamento migliore da tenere è quello di aiutare gradatamente chi ne soffre a riprendere le proprie attività, assumere un’adeguata terapia farmacologica ed intraprendere una psicoterapia cognitivo comportamentale.
                Descrizione dettagliata del disturbo
                Trattamento psicoterapeutico e farmacologico
                A chi rivolgersi

 

  • Dal Corriere della Sera.
    I centri inglesi e tedeschi i migliori del continente
    Dove si cura meglio la depressione
    Una classifica stilata in base a un rigoroso metodo scientifico individua i centri all’avanguardia in Italia e in Europa
    Il futuro è a tinte fosche. Lo vedono così i malati di depressione, ma anche gli psichiatri non sembrano presagire tempi facili: secondo i dati diffusi in occasione dell’ultimo congresso della Società Italiana di Psichiatria entro quindici anni la depressione sarà la seconda malattia più diffusa dopo le patologie cardiovascolari. Purtroppo la sensazione è che di fronte a questa emergenza siamo tutti un po’ impreparati: cittadini e istituzioni sembrano lontani dall’avere una reale consapevolezza dell’entità del problema depressione. E sul fronte della ricerca non sono rose e fiori: dalla nostra inchiesta sui centri che studiano la malattia sembra emergere un’Italia a due velocità, con un pugno di grossi istituti di ricerca all’avanguardia e molte piccole strutture che faticano a competere. Uno dei motivi pare essere proprio la difficoltà della materia: “In Italia fare ricerca sulla depressione non è affatto facile“, sintetizza Mario Maj, presidente della World Psychiatric Association, “Per decenni si è dovuto lottare contro il pregiudizio per cui la depressione sarebbe un puro e semplice disagio esistenziale, da non “medicalizzare“ e quindi da non studiare con i metodi propri della ricerca medica. Inoltre i finanziamenti pubblici per la ricerca sulla depressione sono tuttora assai modesti rispetto a quelli per lo studio di altre patologie con pari diffusione e importanza sociale, come l’ipertensione e il diabete. Per di più, le leggi in vigore non consentono di istituire reparti psichiatrici pubblici con più di 15 posti letto: alcuni tipi di studi sulla depressione richiedono che il paziente sia ricoverato, ma i pochi posti letto dei reparti psichiatrici pubblici sono in genere occupati da soggetti psicotici. Perciò è molto difficile anche soltanto reclutare i pazienti per la ricerca, e solo i centri che per diversi motivi sono riusciti a conservare un numero elevato di posti letto ci riescono“, racconta Maj, “D’altra parte le strutture psichiatriche pubbliche, proprio perché si occupano prevalentemente delle patologie psicotiche, sono talvolta percepite dai pazienti depressi come troppo stigmatizzanti, come fossero “ospedali per pazzi“. Così, molti preferiscono rivolgersi altrove“. “E’ vero, in Italia la clinica non è orientata alla depressione: i malati non vengono ricoverati e sono costretti a rivolgersi a strutture convenzionate, private o, peggio, ad arrangiarsi come possono“, conferma Enrico Smeraldi, direttore del Dipartimento di Scienze Neuropsichiatriche dell’Ospedale San Raffaele di Milano e primo classificato della nostra graduatoria, “Noi siamo fortunati perché abbiamo un grosso reparto tutto dedicato alla depressione, ma non è giusto che altrove non ci siano per tutti le stesse possibilità“. Solo pochi, quindi, possono “permettersi“ di fare ricerca sulla depressione: come racconta Giovanni Battista Cassano, direttore del Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Pisa, “per riuscirci è fondamentale una struttura grande, perfettamente organizzata e in grado di investire nella ricerca grosse risorse umane e finanziarie. Anche perché si devono seguire non solo i pazienti che hanno le caratteristiche per rientrare nelle sperimentazioni, ma pure tutti gli altri: l’assistenza infatti è tuttora la parte principale del nostro lavoro, perché in Italia non esistono strutture dedicate esclusivamente alla ricerca. Del resto, la medicina è sempre più legata a doppio filo alla ricerca: senza, le conoscenze invecchiano in un batter d’occhio“.
             I migliori 20 in Europa
             I migliori 20 in Italia
             Inglesi e tedeschi i migliori
             Il metodo
             Il valore delle nostre graduatorie
    Proprio la capacità di essere all’avanguardia negli studi pare infatti essere lo spartiacque “che separa i due livelli della psichiatria nel nostro Paese“, spiega Smeraldi, “Chi non ha avuto interesse a stare al passo con la ricerca finisce inevitabilmente per trattare i suoi pazienti con terapie obsolete: i centri di riferimento offrono ai loro pazienti le cure migliori e più attuali proprio perché sono all’avanguardia nella ricerca. Inoltre, spesso l’obiettivo della psichiatria periferica è non avere grane con i pazienti: che significa, ad esempio, sedare un euforico. Ma nei disturbi dell’umore la sedazione è un effetto collaterale e gli obiettivi sono del tutto diversi. Va detto, comunque, che in Italia rispetto a vent’anni fa le cose sono assai migliorate e le differenze fra gli Istituti di assoluto valore e i centri periferici si sono man mano assottigliate“. Per progredire ancora, concordano gli esperti, la ricerca dovrebbe essere finanziata meglio, distribuendo i fondi secondo parametri di giudizio oggettivi, come accade all’estero. E se tutti sono d’accordo nell’affermare che si può e si deve fare di più in materia di ricerca, molti sono ottimisti e ricordano i meriti degli italiani: nella caratterizzazione delle diverse forme di depressione, nello studio di nuovi farmaci (anche se purtroppo la farmacologia è ancora troppo spesso separata dalla clinica), nella psicoterapia. “Considerati i mezzi a disposizione, la realtà della ricerca psichiatrica italiana non è affatto scadente, anzi“, osserva Alberto Siracusano, presidente della Società Italiana di Psichiatria, “Tante sono le sfide cliniche e di ricerca che ci aspettano per il futuro: dal punto di vista assistenziale, sarà vitale un maggior collegamento con i medici di base perché molte malattie croniche hanno un grosso impatto sull’equilibrio psichico dei pazienti e non possiamo permetterci di ignorarlo. Dovremo poi far fronte all’aumento del numero di malati: oggi molti fattori possono facilitare la comparsa di una depressione negli individui predisposti, i ritmi e gli stili di vita sono cambiati e anche la società è assai diversa rispetto al passato. Studiare i fattori di rischio e quelli protettivi, identificare i disturbi dell’umore fin dall’infanzia e dall’adolescenza (entrambe ad alto rischio per la malattia), svelare i segreti della genetica della depressione e prescrivere terapie farmacologiche e psicoterapie davvero mirate sono solo alcuni degli obiettivi della ricerca dei prossimi anni“. “Anche perché oggi un terzo dei pazienti con depressione non risponde alla terapia“, segnala Carmine Pariante, dell’Istituto di Psichiatria del King’s College di Londra, “Per anni abbiamo creato nuovi antidepressivi che però agiscono sugli stessi meccanismi biologici e hanno la stessa efficacia di quelli precedenti. Dobbiamo identificare nuovi processi neurobiologici associati alla depressione, per sviluppare nuovi farmaci che curino i pazienti che oggi non possiamo aiutare“. La strada per farlo passa necessariamente dalla ricerca: “Nuove modalità di intervento potranno essere sviluppate in futuro e l’utilizzazione di tutte queste terapie potrà diventare, grazie alla ricerca, sempre più mirata e con un bilancio più favorevole tra costi e benefici“, conclude Maj.

Testimonianza di un’amica che preferisce rimanere anonima.

Ho sofferto di depressione per più di due anni soprattutto nel 2003 2004. Lentamente l’affezione, cominciata già nel 2001, mi ha causato sempre più disturbi, direi quasi tutti quelli elencanti nella “scheda di questa malattia“ che avete letto qui sopra. In un anno sono sta ricoverata due volte, la prima volta sono stata sette giorni in una clinica privata, dove ho ripreso a mangiare e a dormire qualche ora in più la notte. Purtroppo però mi somministrano un antidepressivo che non aveva nessun effetto sul mio organismo. Nei mesi successivi la mia situazione andò di male in peggio: stavo ore e ore sveglia, nel cuore della notte, con gli occhi sbarrati. Ero sempre stanca e tesa. Mangiavo sempre meno, infatti persi dieci chili, lo stomaco mi si restrinse fino al punto che i mie sforzi per mangiare un po’ di più erano del tutto inutili. Al pasqua fui ricoverata al Sant’Alessandro. Il primario, mi affidò ad un suo assistente molto in gamba, che per prima cosa mi fece fare delle flebo con un antidepressivo adatto a me e un forte ricostituente. Così ripresi a mangiare man mano qualcosa in più. La notte riposavo meglio grazie a delle gocce. Inoltre feci subito psicoterapia, i primi giorni quest’ultima durava pochi minuti poi grazie elle medicine e ai miei miglioramenti i colloqui si intensificarono.
Una volta a casa ho continuato la cura di antidepressivo, sonnifero e psicoterapia però sono riuscita dopo poco tempo a migliorare la mia capacità di concentrazione, riprende i miei studi e le mie attività quotidiane.
Quello che ho passato per circa un anno e mezzo non l’augurerei a nessun essere vivente. Anche se durante il mio secondo ricovero ho trovato un dottore veramente in gamba, con il quale faccio ancora psicoterapia, e la cura farmacologia più adatta a me.
Oggi racconto questa mia brutta vicenda con la consapevolezza che sono cresciuta sia per quello che ho passato il quel periodo sia per il percorso che ho fatto negli ultimi quattro anni.

conclusioni di Marzia

spero di avervi dato un quadro esauriente di questa malattia. Ho deciso di inserire il racconto delle mia  amica perchè credo possa essere un valido esempio per molte persone. per chi vuole mandare un commento su “la depressione” lo può mandare a: info@piccologenio.it poi lo inotrerò io stessa alla mia amica se il l’e-mail è per lei.

un saluto a tutti

Marzia

 

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Bullismo ed atteggiamenti negativi da parte degli insegnanti

scritto dalla redattrice
Parolacce, offese e “prese in giro”, ma anche minacce, botte e danni alle proprie cose. Sono queste gli atti di bullismo che i ragazzi hanno denunciato più frequentemente.
Durante la ricreazione, un alunno si avvicina ad un compagno e mentre con una mano gli torce il braccio dietro la schiena, con l’altra gli punta un coltellino sotto la gola costringendolo a ripetere davanti a un gruppo di compagni: “Sono il tuo schiavo e tu sei il mio padrone“.  Purtroppo non è una scena di un film girato nel Bronx , ma è la realtà di una scuola media del Veneto.
Negli ultimi anni si diffuso sempre più il bullismo nelle scuole dell’obbligo. Un preoccupante fenomeno che include anche abusi sessuali tra coetanei delle medie, o ancora minacce e percosse a compagni diversamente abili.
Ultimamente i telegiornali e Striscia la Notizia gli hanno dedicato numerosi servizi, a volte gonfiando le vicende altre volte, purtroppo, si attenevano alla realtà.
Ora diamo uno sguardo hai dati oggettivi sul fenomeno del bullismo in Italia:
Nel III Rapporto realizzato nel 2002, su un campione rappresentativo di 3800 adolescenti di età compresa fra i 12 ed i 18 anni, quasi un terzo degli intervistati (33,5%) ha dichiarato che nella propria scuola si verificavano continui atti di prepotenza da parte dei compagni, mentre circa la metà del campione ha riferito di aver minacciato o picchiato qualcuno. Del 53,4% che ha detto di non aver mai minacciato nessuno, le femmine rappresentano il doppio dei maschi. Tali dati sono rimasti sostanzialmente stabili nell’ultima ricerca (2004) condotta e pubblicata nel V Rapporto Nazionale sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza la quale, tra l’altro, mostra come, al contrario di quanto comunemente si pensa, il bullismo sia un fenomeno che riguarda tanto i maschi che le femmine, seppure espresso con modalità differenti. I maschi mettono in atto prevalentemente prepotenze di tipo diretto, con aggressioni per lo più fisiche ma anche verbali, nei confronti sia dei maschi che delle femmine. Questa ultime, invece, utilizzano in genere modalità indirette di prevaricazione e le dirigono prevalentemente verso altre femmine. Poiché le forme di bullismo indiretto sono più sottili e più difficili da riconoscere, il bullismo “al femminile” è stato individuato più tardi rispetto a quello maschile ed è più difficile da rilevare anche per gli insegnanti.
Secondo me fenomeni di bullismo sono sempre esistiti ma in una forma meno eclatante: spesso la classe si coalizzava contro il compagno più timido, meno alla moda o disabile offendendolo verbalmente, isolandolo dalle amicizie e i giochi della classe. Facendolo sentire solo, diverso, e nei casi più gravi lo possono convincere di essere inadeguato alla loro amicizia perché inferiore.
La colpa è anche, a volte, di quelle insegnanti che percepiscono il problema ma non essendo in grado di prendere dei provvedimenti fanno finta di niente. Altre volte, l’insegnante si trova di fronte ad un adolescente che non ha mai ricevuto dei valori ed un’educazione ne dalla famiglia ne dell’asilo e tanto meno dalle elementari, che ha frequentato e quindi è facili e a volte è impossibile impartire dei valori “giusti“ quando il ragazzo ha già 13-14 anni .
Un altro fenomeno negativo e più latente del bullismo, ma non per questo da sottovalutare, è quando gli insegnanti trattano male o prendono di mira gli alunni, approfittandosene della loro autorità.
Mi sento in dovere di fare una differenza: un conto è incitare un ragazzo a fare del suo meglio anche con sgridatate, richiami, note disciplinari; un altro conto è prendere di mira un alunno, rimproverarlo più del necessario, farlo sentire un “somaro incapace“, farlo vergognare davanti alla classe, vi assicuro che molti docente usano questi atteggiamenti sicuri di “avere il coltello dalla parte del manico“, forti del fatto che sentono e fanno sentire un gigantesco distacco tra l’essere alunno e l’essere professore.
Il consiglio che mi sento di dare a tutti gli alunni dalla prima media al quinto superiore è questo: se stai facendo del tuo meglio e nonostante tutto un insegnante o qualcun altro della scuola continua a prendersela con te, hai il diritto di fare in modo che smetta. Dillo a qualche altro insegnante, a qualcuno della scuola, ai tuoi genitori. Non dovresti essere da solo a dover gestire questa situazione!
Tieni un diario e scrivi la data e quello che è successo mettendo più dettagli che puoi, scrivi anche chi c’era e ha visto tutto. Racconta come ti sei sentito e i pensieri che hai fatto. Parla con i tuoi genitori e chiedi loro di andare a discuterne con il direttore della scuola, oppure se sei più grande e vuoi parlare tu stesso con l’insegnante o il preside è giusto che tu lo faccia, ma solo dopo aver raccontato a casa quello che ti è successo e dopo aver ascoltato il consiglio di chi ha qualche anno più di te e ti conosce bene.
 

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CONFIDENZE DI UN’ALLIEVA SCRITTRICE

Cara Maria,

ho letto il suo memorandum (nota autobiografica e appunto di lavoro), e l’ho trovato molto interessante e ricco di spunti di riflessione. Pagine davvero molto istruttive anche per me, come radiografia dell’«individuale» ed ecografia del «familiare» e del «sociale», scuola compresa. Anche se è la famiglia il primo motivo poetico, meglio poematico, della sua narrazione. Makarenko docet. Infatti, mi sono venuti subito in mente i suoi ottimi rapporti col Poema pedagogico. Come se lei con il romanzo, in un modo o nell’altro, fosse in debito per qualcosa di più che per due esami universitari di Pedagogia generale. Quanto al risultato letterario, non avrei dubbi. Apprezzabile così com’è: un po’ saggetto narrativo, un po’ esercizio morale. Un repertorio di fatti, sentimenti, idee, concernente insieme le dimensioni del «personale» e dell’«interpersonale», e dunque gli ambiti del formativo, dell’educativo. E questo, mediante l’effettiva capacità che lei ha di raccontare di sé, trasferendo l’esperienza soggettiva della differenza in un prontuario di elementare nuova umanità, che aiuta a crescere anche chi legge. Altro che Nulla di utile! Alquanto indispensabile, direi invece. Perché ci racconta della particolare diversità della singola persona, come ingresso ad una generalizzabile diversa uguaglianza di più alto profilo. Quasi a voler dire: a me una volta è successo questo e quest’altro di singolare; vediamo quindi, adesso, cosa fare di ulteriormente «altro». Cosa fare pertanto di differente, anche nel senso di opposto ad indifferente, a noncurante, negligente, disinteressato? Capace di coinvolgerci, al contrario, in un’azione davvero importante, significativa, eminente? Ecco perché mi è venuta voglia di scriverle. E non tanto per dirle semplicemente bene!, brava! – quanto per chiederle e adesso? e dopo? Come vincere, cioè, lo sgomento della sproporzione che persiste, tra una battaglia vinta e tutte le guerre che restano da combattere? Come fare di necessità virtù, per se stessi, per gli altri? Non è per l’appunto la differenza l’elemento discriminante dell’«umanamente nuovo»? Zadorov ritorna a sorridere degli schiaffi ricevuti… Come vede, la trattengo ancora nel clima «antipedagogico» dei due semestri di lavoro universitario comune su Makarenko e dintorni… Però se l’è voluta lei: per avermi indotto a leggerla, suggerendomi l’idea che tra la forma autobiografica del Poema pedagogico romanzo di formazione ed il «racconto d’infanzia» di Maria vi possa essere un qualche nesso. Una specie di «gioco» tra letteratura, pedagogia e vita. Una certa familiarità. Scherzi della prospettiva, probabilmente, di cui i makarenkologi sono ghiotti. Scherzi del collettivo e del senso di responsabilità e di corresponsabilità. Scherzi dei besprizorniki «moralmente deficienti» che, facendosi «uomini nuovi», sembrano quasi voler transitare dal Poema pedagogico nei nostri stessi progetti educativi ed autoeducativi. In altre parole, ciò che più mi piace del suo scritto è questa sorta di humour makarenkiano che – fatte salve le differenze – mi pare di ritrovare, da un lato, nella sua raggiunta capacità di esorcizzare il «negativo», e, da un altro lato, nell’attitudine ad attingere elementi formativi, che Makarenko potrebbe forse riconoscere come fattori di «stile». Parola magica, questa dello stile, che – come lei sa bene -, viene a riassumere le due facce in cui, tra scrittura ed educazione, l’opera di Makarenko (pisatel’ e pedagog) organicamente consiste. Ma dovremo riparlarne ancora tra di noi: e proprio a partire dagli esiti riconoscibili della lezione makarenkiana. Perché lei, in questo senso, è un’allieva che sarebbe certo piaciuta al vecchio Anton. Il quale, se avesse potuto apprezzarla per le sue qualità di scrittrice, le avrebbe subito affidato il comando di un bel reparto: magari di un «misto d’avanguardia», con il compito della realizzazione individuale-collettiva di una qualche «scrittura creativa» a fini ulteriormente pedagogici. E letterari. Che gliene pare? Le dico di più: che il circolo pedagogia-letteratura, in quanto tende a condensarsi in un esito stilisticamente significativo, non è solo l’effetto di un’azione formativa precedente, ma è anche l’avvio di ulteriori metamorfosi educative e addirittura la prova provata dell’educabilità umana. Con tutti i rischi che l’impresa comporta. In famiglia e fuori. E lei, Maria, nel continuare a raccontare le sue storie, potrà confermarlo.

Auguri affettuosi di buon lavoro, dal suo

Nicola Siciliani de Cumis
PS. Ho ricevuto il suo commento ai miei due scritti precedenti apparsi in questa rubrica, e la ringrazio dell’attenzione. Le sue osservazioni risultano appropriate. Tuttavia sarei del parere che, nella graduatoria dei valori «familiari» espressi nel testamento di Emilio Colosimo, quello relativo all’unità della proprietà e del maggiorascato occupi un posto privilegiato, forse il primo posto. Il che non toglie che, per lui, la famiglia «sia tutto»; ma lo è nel quadro della sua concezione del mondo di proprietario, e all’interno, per l’appunto, dei suoi valori economico-sociali. 

Sella Marina (Catanzaro), agosto 2003

NULLA DI UTILE

Quando ero piccola tutti mi dicevano che ero uguale agli altri bambini, poi crescendo mi è venuto qualche dubbio. Adesso mi domando quand’è che ho cominciato a capire che avevo qualcosa che mi «distingueva» dagli altri, qualcosa che non gli permetteva di accettarmi, li metteva a disagio. Non a tutti si intende, ma già dal modo in cui la gente si avvicinava a me riuscivo subito a distinguere se una persona era sensibile, senza pregiudizi e senza imbarazzi, oppure no. Forse percepivo questo fin dall’asilo, visto che i miei primi ricordi risalgono a quegli anni, forse da molto, molto tempo prima, quando osservavo gli altri bambini sgambettare dall’interno dell’incubatrice. O forse l’avevo già intuito quando mi trovavo nella pancia di mia madre e avevo tutta quella fretta di uscire e tutta quella paura, non potevo non aver paura, «qui sono al sicuro», devo aver pensato. Non volevo ritrovarmi in un mondo troppo grande per me, troppo rumoroso, pieno di doveri e regole da rispettare. Dove tutti corrono e poche persone hanno tempo e voglia di aiutare chi resta indietro. «La nascita è un cambiamento troppo grande per me», devo essermi detta, e io ho sempre temuto i cambiamenti. Non so dire quando ho intuito che avevo qualcosa di «diverso», ma so che la consapevolezza della mia diversità l’ho acquisita piano piano, crescendo, sentendo gli altri bambini che di nascosto ridevano e parlavano di me e dicevano «guarda i suoi scarabocchi». O quando rimanevo seduta ad osservare tutti gli altri muoversi, bambini che correvano, dispettosi e allegri, saltavano, salivano e scendevano dagli alberi, dalle altalene, dai muretti alti, ogni giorno sempre più alti. E poi c’erano i grandi che sempre dovevano andare da qualche parte, sempre avevano qualcuno da chiamare, da andare a cercare, qualcun altro con cui stare. Non capivo perché avessero bisogno di muoversi tanto. Forse sto meglio io, non mi stanco come loro, posso giocare qui per terra, potrei giocare qui in ginocchio per interi pomeriggi. Mi dicevo questo e non pensavo a quello che mi mancava. Quando avevo pochi mesi giocavo per terra con i miei coetanei: è normale, tutti i bambini giocano per terra, tutti i bambini iniziano giocando per terra. Poi, un giorno, gli altri hanno prima cominciato a gattonare e dopo, piano piano, ad alzarsi in piedi, come i grandi. Decisi di provare anch’io, sembrava facile, ginocchia sul pavimento, mani giù per terra, guardare avanti, facile come è facile per tutti, ma io non ci riuscivo. Mi chiedevo come mai, visto che mi sentivo uguale a loro. Forse non ero abbastanza grande, forse non ero abbastanza uguale? Venivo invitata alle feste. Mamma mi comprava dei vestiti «eleganti» che sceglieva lei, mi preparava e mi ci portava: i medici le avevano spiegato che mi faceva bene stare in mezzo alla gente perché avevo bisogno di «essere stimolata», dicevano. Io speravo solo di divertirmi, ma non sempre succedeva, non succedeva quasi mai in effetti. Anche dopo, da grande, andavo alle feste perché lo facevano tutti, ma non mi divertivo. L’euforia dell’attesa svaniva subito lasciandomi annoiata e delusa. Credevo che andare alle feste fosse un modo per essere uguale agli altri, sentirmi uguale a loro, o diventare come loro. In realtà, più mi sforzavo, più mi rendevo conto di essere diversa, e non era solo una diversità fisica, c’era dell’altro. Per anni ho cercato di capire cosa fosse, ero io che mi escludevo dagli altri o erano loro che mi escludevano? Ero io che non li capivo o erano loro che non capivano me? Più mi sforzavo di avvicinarmi e più mi sentivo lontana, più cercavo una risposta, più una risposta non c’era. La colpa, però, la colpa mi sembrava soltanto mia. Da piccola, dunque, giocavo per terra con tutti, poi però i giochi si sono fatti sempre più complessi, bisognava muoversi sempre meglio, correre, saltare, strisciare per terra. Facevano dei giochi di squadra, delle staffette, mentre io rimanevo seduta in braccio a mamma. So che per lei non è stato facile tutto questo, forse è stato più difficile per lei che per me. Non lo so, io non me lo ricordo, ma lei sì. È stata lei a dirmi che lo faceva per me, per aiutarmi, ma le pesava stare insieme alle altre mamme a guardare i loro bambini. Dagli anni dell’asilo in poi, ho soprattutto ricordi legati a medici e fisioterapisti, ma non ne parlo più e non intendo parlarne neanche ora: mi c’è voluto tanto tempo e tanta fatica per accantonarli e adesso che ci sono riuscita non voglio assolutamente tirarli fuori. A ricordarli oggi, gli anni dell’asilo sono stati quelli in cui ho semplicemente e disperatamente desiderato gattonare. Mamma, nonna, i medici che mi seguivano, non si accontentava nessuno: volevano tutti vedermi camminare. Io volevo solo spostarmi in qualche maniera, ma capivo che per loro non era sufficiente: dovevo camminare. Era un’ossessione, più mi impegnavo per riuscirci più diventava faticoso. «Non voglio camminare, voglio solo muovermi a carponi», mi dicevo. Più gli adulti insistevano per farmi camminare, più io desideravo gattonare e non capivo perché mi chiedevano di fare una fatica che mi sembrava enorme, al di sopra delle mie forze. In verità osservavo con invidia gli altri bambini che si rincorrevano nel cortile della scuola, mi sembrava assurdo ed ingiusto che io non potessi fare quei giochi. Mentre correvano sembravano così soddisfatti, era la cosa più naturale del mondo, correre. Adesso sono grande, ho studiato, ho letto dei libri. Ho studiato che il gioco è l’attività più importate che un bambino possa fare, è uno «strumento» che gli permette di sviluppare la propria curiosità, conoscere, interagire col mondo che lo circonda e con gli altri. I bambini per crescere ed arricchirsi devono giocare: questo mi hanno insegnato i libri. Nessuno ci insegna a giocare: è l’attività che tutti fanno spontaneamente, dicono i libri, in qualsiasi paese del mondo i bambini giocano, dicono i libri, in modi diversi secondo gli usi e costumi dei popoli, dicono i libri. Se il bambino vede un adulto che va a caccia o raccoglie dei frutti, lui gioca ad imitarlo, dicono i libri: così facendo imparerà delle attività che gli serviranno da grande. Tutto questo lo dicono i libri e «questo meccanismo non varia col passare dei secoli». Questo meccanismo è «uguale per tutti». Non posso dire di non aver giocato, ma è stato diverso, ho solo avuto meno tempo e meno possibilità. Pensare che quando si cresce si debbano studiare sui libri dei comportamenti spontanei mi fa uno strano effetto. Adesso studio il gioco in tutte le sue forme e funzioni, e da piccola non ho potuto giocare perché dovevo «crescere e migliorarmi». A proposito di miglioramenti, ricordo una suora che mi diceva sempre: «Volere è potere». Dentro di me pensavo «ti sbagli. Io vorrei tanto camminare bene, ma non ci riesco e non ne so il motivo». Non sopportavo la sua affermazione, era sbagliata. Ma non avevo il coraggio di dirglielo in faccia, così mi limitavo a pensarlo. La cosa peggiore era che non riuscivo a farmene una ragione: nessuno mi aveva spiegato il motivo dei miei problemi. Mamma e nonna parlavano tra loro per ore interminabili, usando termini a me sconosciuti. E poi si andava dal dottore, dallo «specialista», da chi avrebbe dovuto risolverli, quei problemi. Io, in genere, mi annoiavo e non capivo. Capivo che parlavano di me, questo sì, ma anche il medico parlava quella loro lingua fatta di termini sconosciuti. Capivo anche che a quel dottore chiedevano di aiutarmi a camminare proprio come l’avevano chiesto a un’infinità di medici prima di lui e come avrebbero fatto con altrettanti dopo. «Facciamola camminare», dicevano. Per quanto riguarda me, quando finalmente sono riuscita a gattonare, mi sono sentita già soddisfatta. Potevo difendermi da tutti quegli adulti che mi chiedevano troppo, così appena non mi vedevano mi mettevo per terra e mi spostavo a carponi. Mi piaceva stare a terra. Trascorrevo tantissime ore a giocare in ginocchio appena rimanevo da sola, senza qualche fisioterapista che mi perseguitava con i suoi esercizi. Se poi mi dovevo spostare per casa, lo facevo gattonando: avevo imparato bene e ne ero fiera. Ancora oggi ho le ginocchia segnate da quei lunghi tragitti. Penso che negare le differenze non sia un’arma per combatterle: mi facevano terribilmente arrabbiare tutte quelle persone che si ostinavano a ripetermi che non esisteva nessuna differenza tra me e i miei coetanei. Avrei voluto dirgli «ma non capite… allora spiegatemelo voi perché non posso fare tante cose che le altre persone fanno normalmente. Come fate a dire che le mie differenze non esistono…». Oggi capisco che tutte quelle persone che mi ripetevano che ero una bambina assolutamente «normale», lo facevano a fin di bene. Allora, però, mi sembrava che nessuno riuscisse a comprendere gli sforzi che facevo per fare cose «normali», della vita di tutti i giorni. Avrei voluto che qualcuno riconoscesse il mio impegno e le mie difficoltà, invece mi sembrava che ogni giorno dovessi impegnarmi al massimo per ottenere qualche cosa, e nessuno se ne rendeva conto. Più la gente mi diceva che ero normale, più mi sentivo esclusa dalla «loro» classificazione di normalità. Ho sempre ritenuto la «normalità» un concetto astratto. Che cosa è normale? Niente. Chi è normale? Nessuno. Negavo la normalità, forse, per legittima difesa. Un mio compagno di scuola era balbuziente, Luca. A ricreazione giocavamo a nascondino e Luca riusciva sempre a fare «tana libera tutti» che in questo gioco significa che l’ultimo che arriva alla tana può liberare quelli che sono stati catturati. Lui era molto più bravo di me. Per questo era il primo ad essere invitato a giocare, mentre per me c’era la maestra di sostegno che diceva agli altri bambini: «Aspettate, gioca anche Maria» e mi aiutava a correre. Giocavo con tutti gli altri, ma capivo che il mio modo impacciato di correre faceva ridere. Volevo giocare e divertimi ma c’era sempre chi arrivava alla «tana» prima di me. Avevamo tutti e due dei problemi, ma per lui era più facile farsi accettare, perché correva veloce. Luca è stato solo il primo di una lunga lista di persone più brave di me. Io sapevo che i miei compagni di classe non erano così bravi come sembravano, perché erano facilitati: loro non facevano molta fatica nel fare le cose, io lo sapevo, ma il fatto di saperlo non mi ha mai consolata più di tanto. Se giocare a nascondino non è mai stato il mio forte, Luca non riusciva molto bene nella lettura ad alta voce: quando leggeva s’inceppava su una parola o su una frase intera e i nostri compagni scoppiavano a ridere. Mi dispiaceva che lo prendessero in giro proprio quando si trovava in difficoltà, ma in un certo senso eravamo pari. Comunque mi sembrava che, nonostante ciò, lui avesse meno problemi nel farsi accettare dai coetanei ma anche dagli adulti. Forse la gente non considera la balbuzie un problema vero e proprio, una netta differenza, un handicap che la infastidisce; ma quando la cosa diventa un po’ più complicata, la gente tende a difendersi e ad allontanare il problema. Per me era un problema anche scrivere, così fin dall’asilo cominciai ad avere dei compiti. Dovevo riempire intere pagine di quaderno prima con dei segmenti e poi con delle lettere. Trascorrevo gran parte della mattinata a tentare di scrivere, poi il pomeriggio veniva un fisioterapista a casa e mi faceva fare altri esercizi preparatori per la scrittura. Nella mia stanza c’era una scrivania bassa, di legno, con delle sporgenze fatte a posta per farmi appoggiare i gomiti, quelle sporgenze mi incastravano, non potevo scappare. Quando gli adulti non mi vedevano tentavo di svitare le viti: pensavo che se fossi riuscita a distruggere quel tavolo nessuno mi avrebbe costretta a «studiare». Posso dire di avere cominciato a studiare prima ancora di andare a scuola e lo dovevo fare sempre. Anche in vacanza veniva la fisioterapista. La mattina ci mettevamo sulla veranda io e lei. Mamma non ci disturbava, sapeva che dovevo esercitarmi, lo sapevo anch’io. Non mi dovevo distrarre, non mi potevo distrarre, dovevamo essere sole io e la fisioterapista. Ricordo che un giorno iniziai a giocare con un fazzoletto, lei me lo tolse dalle mani esclamando: «anche con questo ti distrai». Un’altra volta avevo appena aperto il libro quando sentii al di là della siepe mia cugina gridare: «mamma, sono pronta, andiamo al mare». Non era giusto, pensai, anch’io volevo andare in spiaggia con mia madre, invece non potevo muovermi, dovevo rimanere li seduta a esercitarmi nella scrittura. Gli adulti riuscivano a farmi fare sempre quello che dicevano loro, ma nessuno poteva impedirmi di viaggiare con la fantasia. Quel giorno cominciai ad immaginare mia cugina in spiaggia, si divertiva, incontrava i nostri amici e costruivano con la sabbia una pista per le biglie, poi facevano una partita tutti insieme, e alla fine facevano il bagno, si schizzavano ed erano felici. Sapevo che per loro era così e desideravo stare anch’io tutto il giorno lì. Avrei giocato con i miei amici, avrei fatto quello che facevano tutti gli altri bambini, volevo solo andare al mare e non avere orari proprio come non li aveva mia cugina. Non mi sembrava giusto che la mia giornata fosse scandita dai doveri anche in vacanza. Ogni inverno aspettavo l’estate per essere finalmente libera e poi l’estate arrivava e con lei la fisioterapista e tutto il resto. Oggi capisco che dovevo tenermi in allenamento tutto l’anno, ma all’asilo tutto questo mi sembrava una condanna. Dovevo imparare a scrivere perché qualche dottore aveva detto che avrei avuto difficoltà, mentre per leggere avrei rispettato i tempi di tutti i bambini. Mi piacerebbe incontrarlo adesso e dirgli che poteva anche risparmiarmi tutti quegli esercizi perché ormai uso il computer, la mia grafia non è molto chiara nonostante gli esercizi, mentre ho molte difficoltà nella lettura. Anche se all’asilo facevo fatica a scrivere, dall’elementari in poi mi è sempre piaciuto: riuscivo ad esprimermi scrivendo. Da piccola gli unici compiti che riuscivo a fare bene e che facevo quasi con piacere erano i temi. In quel periodo però, non avrei mai immaginato che per me la scrittura sarebbe diventata una passione, una sorta di unico appiglio nei momenti più difficili della vita. Ho deciso di cominciare a scrivere su un quaderno per raccontare i momenti più importanti della mia vita, quelli che non volevo assolutamente dimenticare. Era l’autunno del 1994. L’idea mi è nata dopo la morte di Roby, quando mamma ha spiegato che Roby se n’era andato in cielo e che non l’avremmo più rivisto. Io avevo bisogno di non dimenticare nulla, così ho cominciato a scrivere per trattenere tutti i minimi dettagli. Roby non c’era più, questo è il fatto. Ma io conservo ricordi dentro di me e li scrivo sulla carta, in modo che non sbiadiscano con il tempo che passa. In questi ultimi tre anni sono cresciuta ed è cresciuta anche la consapevolezza che è tramite il dolore che diventiamo grandi. Quando Roby era vivo mi raccontava che in America esistono i teen-agers; prima sei considerato un bambino e poi diventi teen-ager. Diventi adolescente e cominciano le cose piccole, ma importantissime, dell’adolescenza: le uscite il sabato, gli amici, i primi flirt. Io sono arrivata a tredici anni e ho capito che non era vero niente. Sì, ho fatto delle cose da teen-ager, ma si contano sulle dita di una mano. Per me, ad esempio, il sabato è un giorno come gli altri, mentre per tutti i miei coetanei il sabato pomeriggio è il pomeriggio in cui si esce e ci si diverte. È il momento più atteso della settimana, per il quale ci si organizza dal lunedì precedente facendo una serie infinita di telefonate agli amici. Vi posso assicurare che è veramente triste rimanere a casa da sola e sapere che tutti i tuoi amici escono in gruppo, vanno a ballare e si vanno a divertire. Quando i miei amici cominciavano ad uscire io tentavo di unirmi al gruppo: facevo telefonate, cercavo di organizzare io le uscite, tentavo di lanciare idee che a me sembravano divertenti… ma i risultati erano a dir poco catastrofici. Non riuscivo ad rassegnarmi all’idea: non vedevo nessun motivo valido per questo isolamento forzato. Sono arrivata al punto di odiare queste quattro mura di casa mia. Volevo uscire da questa prigione. Avevo la stessa voglia di divertimi dei miei coetanei, e proprio non riuscivo a capire perché non avessi lo stesso diritto di godermi la mia età. Come la vogliamo chiamare questa «adolescenza»? Ti fai dei bei castelli in aria e poi ti crollano addosso. Teen-ager. In quegli anni trascorrevo interminabili pomeriggi in casa e scrivevo: era l’unica cosa che potevo fare senza l’aiuto di nessuno. Non potevo uscire da sola, tutti i pomeriggi veniva o la fisioterapista o qualche ragazza che mi faceva studiare. Non ero autonoma ed avevo molto tempo libero tra una cosa e l’altra; tempo in cui mi annoiavo, mi sentivo in colpa perché non facevo nulla di utile e mi deprimevo, quindi colmavo quei vuoti scrivendo. Sapevo che i miei amici trascorrevano i pomeriggi in modo diverso, ma facevo finta di non pensarci. Scrivere mi aiutava a non sentirmi inutile. Mi faceva compagnia. Ho sempre avuto paura della solitudine, ma ancora di più della noia. È la noia che porta la depressione, l’assenza di attività, la monotonia, la ripetizione del nulla. Per me era una vergogna, il mio peccato più grave: gli adulti mi hanno sempre richiesto tanto impegno e costanza e quando trascorrevo del tempo senza far niente era come se non mi sforzassi per migliorare. E questo non mi era permesso. Però potevo scrivere e ho imparato a farlo da sola. Non ho ancora capito cosa sto scrivendo, forse la mia autobiografia o forse solo qualche appunto che rimarrà in un file del mio computer; ma penso che per capire uno debba guardarsi bene dentro, pensando al futuro senza dimenticare mai il proprio passato. Per questo, forse, è meglio cominciare a raccontare tutto dall’inizio, cercando di mettere in ordine quei ricordi che si accalcano nella mia memoria come la gente che fa ressa all’uscita di un brutto film.

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