Consapevolezza della diversità come maturità conquistata

Resoconto del Convegno Narrare la disabilità tra parole e musica

 promosso dal Comitato Unico di Garanzia (CUG) e dal Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne (DICAM) dell’Università degli Studi di Messina.

In prossimità della Giornata Mondiale del Libro, edizione 2015, ho avuto l’onore ed il privilegio di presentare il mio romanzo di formazione “Nata viva“, edito nel novembre 2015  grazie alla Società Editrice Dante Alighieri.

La presentazione ha avuto luogo presso l’Aula Magna del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne (DICAM) dell’Università di Messina. L’evento aveva come titolo: Narrare la disabilità tra parole e musica e vi hanno preso parte la prof.ssa Antonella Cocchiara, presidente del CUG, la prof.ssa Annamaria Curatola, associata di Didattica e Pedagogia speciale, nell’ambito del convegno sono poi intervenuti, con relazioni che si sono focalizzate sul romanzo di formazione, la Prof.ssa Caterina Benelli, ricercatrice di Pedagogia; il Prof Giuseppe Fontanelli, associato di Letteratura Italiana e Contemporanea, la Prof.ssa Marianna Gensabella, ordinaria di Filosofia Morale e, a chiusura dell’evento, mi è stata passata la parola per un intervento conclusivo in quanto autrice dell’opera. L’evento è stato aperto dall’introduzione e dai saluti del Professor Mauro Bolognari, direttore del DICAM.

L’uditorio era attento e composto da studenti in formazione del corso di laurea di pedagogia, presenti anche esponenti di associazioni che si occupano dell’handicap su tutto il territorio nazionale e i tirocinanti del TFA, insegnanti in formazione, che hanno saputo ben cogliere l’aspetto pedagogico del romanzo, sottolineato dai relatori.

La presentazione del libro è stata fortemente voluta ed organizzata dalla Prof.ssa Gensabella nell’ambito della più ampia manifestazione su disabilità, narrazione e musica che si è svolta nelle giornate del 23 e 24 aprile.

Il romanzo è stato presentato sotto tre diverse prospettive: letteraria, pedagogica e filosofica.

Ad aprire la discussione è stata la prof.ssa Cucchiara, Presidente del CUG, Comitato Unico di Garanzia per le pari opportunità, che ha ringraziato gli organizzatori delle due giornate, spiegando il programma di esse e parlando più nello specifico dell’attività del CUG. Esso è andato a sostituire il Comitato delle Pari Opportunità dell’Università di Messina, ed affronta i temi della discriminazione in modo ampio, spaziando dal razzismo, alla discriminazione di genere, razza e religione, al mobbing, alla violenza sulle donne e alla disabilità.

La Cucchiara, nel suo intervento, ha posto l’accento su un aspetto rilevante: la disabilità si può trasformare da motivo di discriminazione in risorsa, perché ciò avvenga, continua la professoressa, bisogna innanzitutto conoscere le diversità, e poi avviene il riconoscimento e quindi l’elemento fondamentale – tanto auspicato da noi disabili – quello della valorizzazione.

E’ infatti fondamentale, come affermato dalla Cucchiara, e ampiamente condiviso da chi scrive, riconoscere un valore nella diversità e saperle dare il giusto rilievo. La disabilità va guardata in faccia senza paure, pietismi o pregiudizi. Purtroppo ancora spaventa tanti perché mette loro di fronte alle proprie fragilità e mancanze, allora si tende ad evadere.

Quanta emozione e sgomento ho provato nel veder condivisi i temi affrontanti nella mia scrittura (il libro, gli articoli del mio portale, i copioni teatrali e di un cortometraggio, i post su Facebook) dai relatori del convegno.

La Cucchiara nel suo intervento ha fornito alcuni dati rilevanti: i disabili nel mondo sono circa seicentocinquanta milioni, oltre il 10% della popolazione globale, solo in Italia sono sei milioni… A mio avviso si può essere orgogliosi di essere diversi per genere, razza, orientamento sociale, religioso, sessuale etc.. ma non di essere disabili, perché aldilà di quanto si afferma non è semplice fare di una “debolezza“ una virtù, non è semplice in un contesto sociale in cui chi richiede un aiuto in più, un sostegno, è visto come un peso.

Tornando ai punti del discorso della prof.ssa, essa mette in luce un altro concetto veritiero, riprendendo il pensiero del prof. Gaetano Tortorella: “ciò che temono i disabili, non sono tanto le barriere architettoniche, quanto le barriere mentali“ e io posso aggiungere che non c’è rabbia più grande di quella che scaturisce nei confronti di chi non vuol vedere la mia disabilità, di chi minimizza o peggio di coloro che offendono, non riconoscendo le mie capacità e punti di forza.

Sostiene la prof.ssa Cocchiara: “attraverso la narrazione autobiografica dell’autrice, il cui nome d’arte è Zoe Rondini, il narrarsi è il modo per rielaborare e riprogettare la propria esistenza, ciò vale per Rondini, ma anche per tutti coloro che scrivono un’autobiografia. Zoe ci racconta che quando era piccola è nel disagio degli altri che lei percepiva il suo non essere uguale agli altri bambini.“

L’handicap diventa una risorsa quando le capacità vengono stimolate e valorizzate. Così finalmente la disabilità diviene l’input per raggiungere e far raggiungere traguardi che ci parevano imprevedibili, sia ai normodotati, sia alle persone con disabilità; ciò dimostra come quest’ultima rappresenti un motivo di realizzazione non solo per il disabile, ma anche per tutti i così detti normodotati!

Di seguito la parola passa alla professoressa Annamaria Curatola, la quale si sente di condividere la constatazione precedente sull’impreparazione della società ad accogliere ed includere l’handicap. Interessante risulta l’invito a guardare oltre, per creare una società migliore non solo per i disabili, ma anche per molte categorie di persone. La professoressa ha coinvolto i suoi studenti del corso di Pedagogia Speciale a vivere la città bendati, o a partecipare a delle cene al buio. Trovo lodevole queste iniziative atte a mettersi nei panni di chi è diversamente abile, peccato che certi “esperimenti didattici“ non siano estesi a tutta la nostra società, a tutte le scuole e facoltà umanistiche presenti in tutto il territorio nazionale.

È necessario, secondo la Prof.ssa, che i disabili e le loro famiglie trovino un valido supporto per vivere la scuola, trovare un lavoro adatto alle proprie competenze e capacità, è fondamentale essere adeguatamente supportati per portare avanti il proprio progetto di vita. C’è dignità in un lavoro vero e proprio, non in situazioni scolastiche e lavorative dove la persona disabile non fa nulla ed è abbandonata a se stessa. Per tutto questo è necessario un valido aiuto formativo e costante per un progetto di vita ad ampio respiro.

Successivamente a prendere la parola è la prof.ssa Marianna Gensabella, ordinaria di Filosofia Morale. Il suo è stato un intervento appassionato ed appassionante poiché mi conosce da vicino e non solo per mezzo delle pagine della mia autobiografia. La prof.ssa ha messo in luce l’importanza delle testimonianze autobiografiche e non, che le persone con disabilità possono fornire alle persone normodotate. Questo perché forniscono dei canali di accesso all’esperienza della disabilità piena. La professoressa Gensabella distingue infatti tra una disabilità piena e una disabilità temporanea, occasionale o parziale. Di quest’ultima tutti, sostiene la Gensabella, abbiamo avuto esperienza quando siamo stati malati, ma anche semplicemente bambini e incapaci di badare a noi stessi. La condizione di disabilità piena è però cosa diversa, ristretta ad un porzione, seppure considerevole, della popolazione. I filoni che si vanno affermando dell’etica narrativa e della bioetica narrativa possono, in questo senso, presentare il valore aggiunto di far entrare, attraverso la voce narrante di persone che hanno diretta esperienza di disabilità, dentro quell’esperienza, riuscire ad attirare lo sguardo che Joan Tronto, esperta di etica della cura, definisce lo sguardo dell’attenzione. In questa prospettiva la professoressa Gensabella inserisce, il romanzo autobiografico e di formazione Nata viva. 

La professoressa si è dunque soffermata a narrare il libro, cominciando dalla scelta del nome d’arte: Zoe indica la vita, e Rondini simboleggia la libertà, il volo degli uccelli. Il valore del testo sottolineato dalla Gensabella è quello di rinvenire in un romanzo quelle teorie e quei principi sulla disabilità che si ritrovano in testi didattici, filosofici e di bioetica.

Zoe narra la difficoltà di vivere da uguale agli altri bambini, ma pian piano prende coscienza di essere diversa. Il libro mette però in luce, secondo la prof.ssa, che non si è risparmiata di leggere alcuni brani durante la presentazione, una crescente consapevolezza della diversità riflessa nello sguardo degli adulti, nei movimenti e giochi degli altri bambini. Anche secondo lei “negare le differenze come scrivo nella premessa non è un’arma per combatterle, anzi ciò genera rabbia. La normalità è un valore rassicurante, ma è anche e soprattutto un concetto astratto. Cos’è normale? Niente. Chi è normale? Nessuno. Negavo la normalità forse per legittima difesa“.

La normalità è un concetto diventato valore, ma dovrebbe essere ridiscusso e ripensato. È anche un concetto con il quale dobbiamo fare i conti per capire ciò che si può realizzare e cosa no.

Anche la professoressa Gensabella sottolinea l’importanza del ruolo che hanno le persone normodotate nel creare una società più giusta. Nel parere di chi scrive, tuttavia, la costruzione di una società più giusta, più etica ed inclusiva non è una missione che deve essere affidata esclusivamente alle persone normodotate, ma vi dovrebbe essere una collaborazione tra disabili e non. A tale proposito riprendo le parole della Professoressa Gensabella: “dobbiamo, quella differenza, non semplicemente rimuoverla dal punto di vista ideologico, fermandoci all’uguaglianza, ma cercare di vederla, accoglierla, capirla ed aiutarla”.

Per aiutare i disabili la parola chiave emersa dal convegno è stata: inclusione. In molti momenti della vita di Zoe e della sua famiglia appare la voglia e la ricerca un aiuto da parte di una società più giusta. La Gensabella sottolinea come nel romanzo un ruolo importante viene rivestito dalla fisioterapia, ma questa appare quasi violenta nel tentativo di normalizzare e viene rifiutata, perché dolorosa, perché impedisce il gioco, perché non tiene conto della psiche di Zoe, ma è anche utile ed essenziale.

Quante verità e sfaccettature sono emerse, ma forse le pagine più importanti sono quelle dedicate all’inclusione negata; ovvero le pagine nelle quali si esce dal territorio “protetto“ della famiglia, per arrivare in quello meno protetto dei coetanei. La prof.ssa si è soffermata sulle pagine dolenti della scuola (dove anche qui il tono ironico non reca sconti a nessuno), condivido questa selezione di argomenti visto che la maggior parte degli uditori si trova o si troverà a lavorare nel mondo della scuola. Zoe, racconta la Gensabella: “è in qualche modo privilegiata, appartiene a una famiglia con un certo spessore culturale, con possibilità economiche, disponibilità intellettuali alte, e tuttavia si è scontrata con molti contesti ostici, che non l’hanno aiutata malgrado una famiglia attenta, vigile, che ha sempre cercato e voluto il suo bene. Si è messo in evidenza la negazione da parte delle compagne di classe nel porgere il braccio per camminare, era tutta qui la richiesta d’aiuto di Zoe. Perciò Zoe ha avuto problemi a viversi i momenti ludici e di socializzazione come la ricreazione e le gite scolastiche.”

Infine la Gensabella ha fatto riferimento al progetto, portato avanti da me e dal mio consulente letterario, Matteo Frasca, per diffondere “Nata viva“ nelle scuole medie e superiori, per far sì che gli studenti di oggi non si trovino a vivere le mie esperienze di disagio.

La professoressa Benelli sottolinea, inoltre, l’aspetto sociale della lettura del romanzo di formazione Nata viva, in quanto occuparsi ed inserire nell’ambito delle lezioni universitarie, ma non solo, testi di questo tipo aiuta a conoscere e ad avvicinarsi a situazioni diverse. Si concentra quindi sul testo “Nata viva“ e sull’origine del desiderio di espressione di sé dell’autrice e su quanto la scrittura sia stata per Zoe una compagna di viaggio. Le tematiche affrontante nel romanzo risultano condivisibili e ricorrenti in numerosi altri testi autobiografici, alle quali poi si aggiungono le tematiche specifiche legate alla disabilità, che fa da filtro ad ogni esperienza di Zoe. 

Prende da ultimo la parola il professore Giuseppe Fontanelli, associato di Letteratura Italiana Contemporanea, “Il romanzo è di formazione, secondo il professor Fontanelli, anche dal punto di vista personale, nel momento in cui Zoe arriva ad affermare “sono grande. Ho studiato, ho letto molti libri. Ho studiato che il gioco è l’attività più importante che un bambino possa fare“, ma si trova poi a scoprire, nel contempo, che quanto studiato è in antitesi con l’esperienza vissuta, perché da piccola Zoe non ha potuto giocare.

Il romanzo registra la consapevolezza dell’esclusione e insieme lo sforzo per essere come gli altri. In questo l’opera insiste sul valore della normalità, perseguita e sempre disattesa, come nel tentativo di entrare, adolescente, in una discoteca.

Fontanelli nota che in più parti del romanzo ritornano le dimensioni e le sproporzioni del tempo e degli spazi: i cinque minuti in cui è mancato il respiro e gli interminabili corridoi da percorrere camminando senza l’aiuto di nessuno. Ma anche i compagni di classe e le loro urla appaiono a Zoe come un gigante, e messi insieme risultano invincibili. Il romanzo è il continuo tentativo di colmare questi spazi vuoti. Spazio e tempo finiscono per avere una dimensione smisurata. Tale sproporzione ritorna nell’uso frequente dell’avverbio troppo e infine, riprendendo le parole di Fontanelli “una disabile è un persona che chiede agli altri troppo tempo e troppe premure.“

Il romanzo è anche ricerca di un colpevole, il tentativo di urlare contro qualcuno, ma poi Zoe finisce per sentirsi lei stessa responsabile, ma infine viene espressa una maturità conquistata nel momento in cui Zoe afferma “adesso non mi sento più in colpa“. 

Il professore rintraccia alla base del romanzo una poetica del paradosso secondo la quale i normodotati nel dolore e nei sacrifici richiedono il doppio dell’impegno ai disabili, mentre non riescono ad offrire loro divertimento e svago. 

La morale che Fontanelli trae dal romanzo è che il concetto della vita non può essere sequestrato, come non può essere imprigionato il respiro.

A chiusura del convegno mi è stata data la possibilità di tenere un intervento conclusivo, ho voluto concentrarmi su alcuni aspetti importanti per l’inclusione sociale delle persone con disabilità e che non emergono particolarmente nel romanzo, in quanto questo fa riferimento ad un periodo della mia vita maggiormente legato al mondo della scuola e poi dell’università. Queste sono il lavoro e l’autonomia personale. In tal senso ho riportato la mia esperienza mortificante del mio primo tirocinio-lavoro . Esperienza che mi ha rivelato una società impreparata ad interagire con le differenze, che le mette da una parte, per non pensarci e non occuparsene.

Per fortuna con il libro e attraverso la scrittura partecipo ad eventi gratificanti e trovo uno scopo nella comunicazione e nella condivisione della mia esperienza nell’intento di sensibilizzare la società e migliorare, nel mio piccolo e con i miei strumenti, la situazione delle persone disabili in Italia.

A concludere il pomeriggio il concerto dell’Orchestra del Mondo Nuovo, la quale ha eseguito, diretta dal dr. Massimo Diamante, la Fiaba Musicale “Blog o taccuino? Vera storia di un libro e di una blogger che volle tornare alla vita reale“. L’Orchestra vede la presenza di musicisti disabili perfettamente integrati ed all’unisono con musicisti “normodotati“.  

 

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Pedagogia ed autismo. Cosa dovrebbe fare la “buona“ scuola (post con immagine)

mi sono sempre fatta molte domande sull’autismo, che cos’è, che sintomi comporta, quali sono le “strategie“ per supportare le persone autistiche, qual è il ruolo della scuola e della società dinnanzi a questo handicap; cosa dovrebbe tenere presente un bravo pedagogista dinnanzi al gruppo classe che presenta un bambino o ragazzo autistico…

Quale strumento migliore della scrittura per riflettere ed approfondire la tematica?

Inizierei con la domanda più semplice e diretta “che cos’è l’autismo?“ Ho cercato la risposta in vari siti internet e mi sento di riassumere che l’autismo è fondamentalmente una forma particolare di situarsi nel mondo e, per lo più, di costruirsi una realtà. Associato o non a delle cause organiche, l’autismo è riconoscibile dai sintomi che impediscono o pongono delle serie difficoltà al bambino nel suo processo al linguaggio, nella comunicazione e nel vincolo sociale. Le stereotipie, le ecolalie, l’assenza di linguaggio, i soliloqui, l’aggressività rivolta su di sé, l’insensibilità al dolore o l’assenza di sensazione del pericolo sono alcuni dei sintomi che mostrano l’isolamento del bambino o dell’adulto dal mondo che lo circonda e la sua tendenza a bastarsi a sé stesso. Supportare la formazione ed il perfezionamento degli insegnanti ed educatori coinvolti nella crescita del bambino con autismo significa favorire la comprensione di questa disabilità complessa e variabile. Bisogna essere in grado di sostenere i continui cambiamenti che questa condizione prevede e riuscire ad agire sotto diversi punti di vista: una brava educatrice, un bravo educatore deve saper rispondere con competenza ai differenti bisogni educativi dell’alunno con autismo e della sua classe, con necessità di interventi più complessi ed articolati, dovrebbe anche prevedere uno “spazio didattico“ atto a suscitare riflessioni e confronti utili per strutturare un lavoro pedagogico che dia importanza ai vissuti e alle necessità di tutte le soggettività coinvolte. Penso che la scuola sia un fondamentale luogo di crescita, formazione ed anche di confronto tra pari e nel rapporto con tutto il personale scolastico. È facile teorizzare sull’inserimento scolastico, cosa diversa è fare della teoria una pratica, ma so che molto si sta facendo soprattutto negli istituti tecnici, come avviene ad esempio con gli interventi mirati di personale qualificato che lavora nelle scuole per conto della Provincia di Roma.

Tornando allo spettro autistico bisogna chiarire le peculiarità del disturbo e approfondire gli approcci, i metodi e gli strumenti a disposizione degli insegnanti e degli educatori per migliorare il processo di apprendimento dell’alunno e rispondere ai suoi bisogni specifici riuscendo a comprenderne il comportamento e la percezione della realtà. Nell’attività educativa e didattica, di questi ragazzi in modo particolare, ma poi per tutta la classe, ritengo sia importante stimolare i processi di apprendimento, integrazione, socializzazione ed autonomia. Con un corretto processo di inclusione sociale fornendo non solo all’alunno ma a tutta la classe gli strumenti necessari per crescere, imparare insieme, riconoscendo e rispettando le diversità, i limiti e le potenzialità in primis di chi a qualche difficolta in più, ma poi di tutto il gruppo classe. Questi obbiettivi mirano ad aiutare i docenti per meglio comprendere le problematiche e le risorse dell’alunno con autismo in classe, fornendo strumenti di analisi, valutazione e programmazione didattica efficaci per migliorare l’apprendimento e la vita in classe del ragazzo. Sarà proprio così? Sarebbe un grandissimo passo avanti rispetto a quando andavo a scuola io, allora non si parlava nemmeno di pedagogia speciale, forse non è un caso che poi mi sono laureata in scienze dell’educazione e della formazione.

Tornando al discorso scolastico per tutti, ma in particolare per i soggetti autistici, il programma formativo è strutturato in modo tale da integrare la parte teorica sull’autismo e la pedagogia speciale con esercitazioni e attività di laboratorio. Queste attività pratiche sono ritenute strettamente fondamentali per riuscire a comprendere come attuare nel contesto didattico ed educativo della scuola le conoscenze acquisite durante il corso. Il volume “Pensiero narrativo e autismo. Una ricerca clinico-pedagogica“ di Barbara Tonani,  edito da Franco Angeli, è interessante perché vuole fornire un contributo alla realizzazione, in un futuro auspicabilmente non troppo lontano, di un’autentica integrazione del bambino autistico all’interno del sistema scolastico, nella consapevolezza che ciò potrà avvenire solo se la scuola sarà in grado di ripensare criticamente se stessa, abbandonando le pratiche di omologazione alla normalità e assumendo, invece, un atteggiamento flessibile che consenta di fornire percorsi formativi rispettosi dell’individualità di ogni allievo. Sto citando questo testo perché si sposa bene con la mia idea di scuola, educazione ed handicap ed in qualche modo ricorda i concetti espressi nel mio romanzo Nata viva, dove si evince come una ragazza con disabilità motoria ha vissuto la scuola dell’obbligo. Tornando al primo testo in questione, il progetto sviluppato si proponeva di indagare la possibilità di incidere positivamente sulle competenze socio-relazionali di un bambino autistico, attraverso un percorso educativo individualizzato che prevedesse l’utilizzo di materiale narrativo, all’interno di un setting con caratteristiche clinico-pedagogiche. I gesti e i bisogni quotidiani (vestirsi, mangiare, giocare) sono diventati così occasioni di apprendimenti cognitivi, motori, ma soprattutto sociali, poiché, attraverso la narrativizzazione dell’esperienza, si è permesso al bambino di coglierne il significato come parti di un contesto più ampio, e di condividere tale significato con gli altri. Un’occasione formativa non solo per il soggetto, ma anche per i compagni e l’insegnante, i quali hanno trovato nello spazio potenziale del setting un luogo di privacy mentale in cui potersi confrontare con se stessi e con gli altri in modo più autentico, al di là dei ruoli normalmente esibiti nella quotidianità della vita scolastica.

Ecco questa è una scuola giusta, la scuola che avrei voluto per me… ma spero si concretizzi per le nuove generazioni.

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Il razzismo si batte a suon di educazione e cultura. Parola di Zoe Rondini

Articolo uscito su Rete Near http://www.retenear.it/2015/03/il-razzismo-si-batte-a-suon-di-educazione-e-cultura-parola-di-zoe-rondini/

«Il razzismo e il pregiudizio si contrastano con l’educazione e la cultura, ma anche con le buone leggi. ». Lo afferma Antonio Russo, responsabile immigrazione delle Acli, in riferimento alla Giornata internazionale contro il razzismo, che si celebra ogni 21 marzo in tutto il mondo.

«Occorre riprendere l’impegno all’educazione, soprattutto tra le giovani generazioni; esercitare una serie revisione dei nostri linguaggi, con particolare riferimento al mondo della comunicazione e della politica; lavorare perché le leggi accompagnino le trasformazioni del Paese, riducendo le disuguaglianze nel riconoscimento dei diritti e dei doveri».

Mi sento di condividere a pieno l’opinione del Dott. Russo, le leggi e l’educazione sono sicuramente la base dalla quale partire per contrastare il razzismo e le discriminazioni. A tale proposito vorrei concentrare questo mio articolo sul ruolo che l’educazione scolastica e la preparazione del personale scolastico hanno nel superamento delle discriminazioni e nell’integrazione delle differenze.

Per affrontare queste tematiche mi servirò di due esperienze significative e personali in ambito scolastico ed universitario.

La discriminazione colpisce tutte le persone considerate “diverse“: disabili, omossessuali, persone che rientrano nella categoria LGTB, persone di un’altra religione e credo politico e via discorrendo. Purtroppo c’è un fatto: nella nostra società tante persone sono condannate ad avere paura perché sono quello che sono. Bisogna fare i conti con questa realtà poiché se facciamo finta di nulla la situazione non potrà che peggiorare e contribuiremmo noi stessi a creare degrado nella nostra civiltà. Lasciare da parte i diritti perché ci sono altri problemi più importanti a cui pensare, come l’economia da ricostruire, sarebbe un grande passo indietro e una sconfitta per un paese che dovrebbe accogliere il diverso. Ma poi, mi sono sempre domandata, perché determinate persone sono considerate diverse? Chi l’ha detto che lo sono? A quali “canoni“ del passato manteniamo fede? Non sarebbe ora di superare i vecchi canoni classici di bellezza, armonia e perfezione per formare una nuova società più inclusiva per tutti?

In un mio precedente articolo mi ero occupata del cyber-bullismo e di come sia diffuso tra gli adolescenti. Anche per il razzismo e la discriminazione di genere mi piacerebbe affrontare la situazione nella cornice della scuola in quanto luogo di socializzazione primaria al di fuori della famiglia. E’ a scuola che il bambino conosce la società in tutte le sue sfaccettature ed è qui che impara o meno a rapportarsi e rispettare le differenze. E’ vero che non bisogna trascurare il ruolo fondamentale della famiglia, ma la scuola, qualora in famiglia fosse diffusa una certa intolleranza, è il luogo della seconda chance, l’ambiente di affermazione individuale. Considerata la mia formazione pedagogica e la mia esperienza di crescita personale la scuola non può non essere l’ambito di riferimento per la riflessione che propongo in questa sede.

La scuola ci dovrebbe insegnare fin da piccoli, ma anche e soprattutto nel periodo dell’adolescenza, a considerare le differenze come una ricchezza ed un valore aggiunto, non un problema. Inoltre per quanto riguarda gli stranieri è un dato di fatto che con il passare del tempo la popolazione scolastica sia sempre più eterogenea e multiculturale. Il sito Stranieriinitalia.it evidenzia che “nell’anno scolastico 2011/2012, gli alunni stranieri nati in Italia sono 334.284 e rappresentano il 44,2% sul totale degli alunni con cittadinanza non italiana. Cinque anni fa erano meno di 200mila, il 34,7%. Nelle scuole dell’infanzia i bambini stranieri nati in Italia sono l’80,4%, più di otto su dieci, ma in alcune regioni la percentuale è ancora più alta e supera l’87%.“ Uniti in classe, separati al pomeriggio:  secondo una indagine realizzata da Skuola.net per CorriereScuola, i ragazzi tendono a integrarsi e a frequentarsi fuori dalla scuola, a far amicizia tra di loro, senza distinzioni o chiusure in gruppi etnici; tuttavia a fare resistenza, sarebbero piuttosto i genitori. Per fortuna i bambini ed i ragazzi hanno pochi problemi a rapportarsi con le diversità. Mentre molti adulti sono spaventati davanti a chi presenta esigenze diverse.

Alle medie sono stata discriminata perché ho un handicap motorio. Con il senno di poi collego questa esperienza personale alla cattiva formazione e sensibilità pedagogica del personale scolastico. L’insegnante di sostegno e la collaboratrice ata erano terrorizzate dall’idea che potessi cadere all’interno della scuola creando un problema rientrante nella loro responsabilità, per questo non mi facevano alzare dal banco né per andare in bagno, né per godermi la ricreazione. Il bagno, per fortuna, mi serviva solo una volta a settimana quando avevo sei ore anziché cinque. Alle 13.30 doveva venire mia madre per una semplice pipì. Invece a ricreazione, quando tutti i miei amici giocavano in cortile io dovevo rimanere ferma al mio banco. In questo modo gran parte dell’esperienza di socializzazione legata alla scuola a me non era riconosciuta, in quanto disabile.  A nulle sono serviti i reclami della mia famiglia alla preside ed a gli altri insegnanti.

Poco tempo fa vidi un documentario che parlava, di un uomo omossessuale in sedia a rotelle. Questa persona era diventata disabile in età adulta. Egli spiegava com’era difficile la sua condizione e quella del suo compagno in un Paese come il nostro. Pensai subito perché non fugge all’estero visto che qui è doppiamente discriminato per il suo handicap e per l’orientamento sessuale? Infatti si lamentava proprio di ciò! Ma poi provai rabbia, possibile che in tanti dobbiamo pensare di scappare all’estero? Perché non si può fare dell’Italia un Paese migliore prendendo esempio da chi ci è già riuscito?

Concordo con le parole della Dottoressa Priscilla Berardi, che dichiara «c’è grande ignoranza sulle tematiche LGBT, sulla sessualità delle persone disabili e sulla sessualità in genere. Informare, formare, educare su questi temi il grande pubblico, i familiari, i professionisti che si occupano di disabilità e quelli che si occupano del benessere psico-sessuale della persona dovrebbe essere la priorità.» Ancora una volta il condizionale è d’obbligo e a farne le spese sono i “diversi“ e le loro famiglie.

Continuando le mie riflessioni sull’importanza dell’educazione per contrastare la paura del diverso, vorrei parlarvi di un’esperienza positiva fatta da me nelle scuole che in qualche modo mi ha riscattato degli anni delle medie. Io ed un mio amico, entrambi laureati in pedagogia, siamo andati ad incontrare varie classi delle scuole medie di Campagnano e Nazzano in provincia di Roma. È stata un’esperienza bellissima che mi ha dato tanto. Io raccontavo delle miei esperienze di vita ed il mio amico leggeva alcuni brani del mio romanzo di formazione Nata viva. È stato gratificante vedere i ragazzi attenti e coinvolti. Mi hanno fatto molte domande ed io ho risposto a tutti senza peli sulla lingua, anche a chi voleva sapere se ero mai stata innamorata e fidanzata (ho risposto di sì raccontando velatamente le mie esperienze più importanti tenendo conto l’età dei miei interlocutori!). Sia le insegnanti sia i ragazzi mi hanno trasmesso tanto. In quella fascia d’età non hanno ancora timore e inibizione ed entrano facilmente in empatia con qualcosa di nuovo, di diverso dal solito. Ho fatto la stessa esperienza con gli studenti universitari di un corso di pedagogia presso una nota Università romana, avevano timore a farmi le domande ad entrare veramente in contatto con me, erano meno interessati alle mie esperienze di vita ed al mio libro, erano impacciati, come se volessero farmi delle domande ma il timore, il falso pudore li bloccava.

Per concludere penso che la discriminazione e soprattutto la paura del diverso siano ancora molto presenti in un Paese come l’Italia che sta diventando via via sempre più multi-etnico, ma che deve fare ancora grossi passi avanti sui concetti di anti-razzismo ed inclusione sociale.

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Limiti impliciti ed imposti alla disabilità

L’indipendenza e l’autonomia sono nodi cruciali della vita di un disabile ed una preoccupazione costante di chi gli vuole veramente bene. Il disabile si trova quotidianamente a fare i conti con il limite. Questo assume varie forme, il limite del suo handicap quindi legato a uno stato fisico, psichico. Non può, non riesce a fare determinate cose… a volte i limiti fisici si tollerano bene, quelli che più pesano sono i limiti nella libertà, nel movimento inteso come autonomia ed i limiti della società.

Al concetto di limite si associa ed è in qualche modo contrapposto quello di libertà. Ma che cos’è la libertà? Non condivido la definizione del termine libertà fornita dal dizionario: “Condizione di chi può agire senza costrizioni di qualsiasi genere.“ Tutti siamo in qualche modo legati ed interconnessi, chi più o chi meno, ma la libertà, come anche la felicità, dovrebbero essere un diritto più che un dovere. Essa può dipendere da noi stessi, ma purtroppo dobbiamo fare i conti con la realtà dei fatti e con una societàche spesso, soprattutto nelle grandi città, non ha tempo e risorse per i più deboli. Magari le risorse si hanno ma vengono mal gestite. Tornando ai concetti della libertà e felicità non penso che questi dipendano solo ed unicamente dalla nostra volontà ed impegno.  In questo articolo vorrei riflettere su diverse tematiche correlate al concetto di disabilità nel nostro paese. A mio avviso il discorso delle pari opportunità, non sta in piedi, è solo un modo di negare i limiti fisici di una persona per nascondersi dietro all’uguaglianza che non rispetta e non riconosce, i limiti, i talenti e la diversità delle persone “diversamente abili“.

Avete mai avuto a che fare con l’esperienza del tirocinio-lavoro pensato apposta per i disabili? Chissà com’è nessuno più offrirvi nulla che faccia al caso vostro.  Non si tratta solo di un’esperienza ed un’opinione del tutto personali: i dati sul lavoro e disabilità riportati in un articolo di Maria Giovanna Faiella per il Corriere della sera non sono incoraggianti, ma meritano di essere riportati: “L’Italia è indietro rispetto agli altri Paesi riguardo all’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, come dimostrano i dati sui tassi di occupazione. In Francia, dove come da noi il 4,6% della popolazione ha un riconoscimento amministrativo della propria condizione di disabilità, si arriva al 36% di occupati tra i 45-64enni disabili, mentre in Italia, per la stessa fascia di età, il tasso si ferma al 17%. In Germania si arriva al 50% di occupati. Secondo la ricerca, da noi è difficile trovare un lavoro una volta completato il percorso formativo: meno di una persona con sindrome di Down su tre lavora dopo i 24 anni, e appena una su dieci tra gli ultraventenni che soffrono di autismo. Non è facile nemmeno mantenere l’occupazione in seguito a una malattia cronica che causa una progressiva disabilità, come la sclerosi multipla: lavora meno della metà di chi ha tra i 45 e i 54 anni.“

Anche uscire di casa, muoversi, spostarsi, avere degli amici, vivere una relazione di coppia possono essere traguardi raggiungibili o irraggiungibili. Molto, anzi troppo, è ancora affidato alle singole famiglie e persone. Tanto per fare un esempio di come vanno le cose in Italia per chi ha una disabilità motoria ma è cresciuta cercando di vivere nella maniera più normale possibile: è ingiusto che per un cambiamento di legge e l’opinione del tutto personale di un ingegnere mi sia stata sospesa la patente di guida. Io è da quando sono nata che faccio i conti con i miei limiti, grazie alla mia famiglia ed ai miei sacrifici, ho imparato a camminare, essere autonoma, ho una laurea quinquennale e non riesco a tollerare che una persona mi abbia costretto a tornare indietro.

Tornando ad un discorso più generale sul concetto di autonomia… avete mai cercato sul dizionario questa parola? Vediamo un po’ “Facoltà di governarsi da sé.Indipendenza di giudizio, libertà d’azione.“ Già, questi tre pensieri sono dei traguardi non  impossibili da raggiungere, ma se ciò comporta degli sforzi da parte dei normodotati, la faccenda è assai meno alla portata per chi ha un handicap. Personalmente uso molto Internet, sul web sembra tutto alla portata di tutti, tutto fatto per tutti, poi nella vita reale (almeno in Italia) ci sono barriere culturali, architettoniche, leggi che rendono difficili, la patente di giuda, avere un posto fisso, un lavoro vero. Chi ha una disabilità non può avere una casa in affitto perché poi come lo cacci via? E così discorrendo.  È giusto sperare sempre nel migliorarsi e nel mettersi in gioco. Ma penso che spesso i disabili, come me del resto, abbiano seri problemi a guardare in faccia la realtà delle cose e confrontarsi con i “NO“ che la realtà ci sbatte in faccia. Spesso la famiglia se può, sulle piccole cose, ti fa contento: infondo hai già tante limitazioni. Poi da grande, per molti disabili, lo spettro di un istituto o di una casa famiglia per vivere o semplicemente per lavorare è sempre in agguato, prima c’è la scuola dell’obbligo ma, purtroppo, quello che segue, il lavoro, una vita attiva ed indipendente non sono degli obblighi, delle certezze garantite dallo stato, è più facile aprire dei centri diurni, che a volte sono dei veri e propri parcheggi piuttosto che sostenere il disabile e la sua famiglia nel loro contesto quotidiano.  A questo punto mi sembra necessaria una considerazione: i soldi dello Stato erogati direttamente alle persone disabili o alle famiglie di disabili (pensione ed accompagnamento) non sono minimamente sufficienti ad uscire di casa, a crearsi una vita autonoma. Possono essere d’aiuto per chi rimane in famiglia. Chissà perché lo stato ci vuole eterni bambini a casa, o nelle strutture delle quali parlavo pocanzi, dove generalmente si aspetta che la vita passi…

Anche i dati sono significativi per capire la situazione dei disabili in Italia: l’Istat rivela che le persone disabili che vivono in istituti sono circa 300.000. Un problema particolare è rappresentato dal “dopo di noi“. Si stima per eccesso (l’ipotesi adottata è che la speranza di vita delle persone disabili alle diverse età sia uguale a quelle relativa all’intera popolazione di età corrispondente) che il 50% delle persone disabili vivrà senza genitori e quindi senza il loro sostegno per venti anni in media. Riporto due appelli accorati e non incoraggianti trovati su due forum per persone disabili, mi sembrano significativi di come e quanto, anche le persone disabili, vogliano crearsi un futuro all’estero: “Sono disabile al 100%e voglio andare a vivere all’estero, forse con la pensione che prendiamo in qualche paese dell’Asia o sud America posso avere un aiuto che qui in Italia mi è impossibile anche perché i miei genitori sono vecchi e la situazione sta diventando difficile“. Come si fa o come si dovrebbe fare davanti a certe realtà? Di chi è la colpa e di chi le competenze  per far fronte a tante esigenze? Cosa non fa la politica che dovrebbe fare?

L’onorevole Elena Improda del PD fa  un importante iniziativa di cohousing, insieme all’associazione Oltre Lo Sguardo Onlus. Molti ragazzi con handicap cognitivo e fisico “vivono“ insieme in una casa senza genitori nel loro ambiente quotidiano. Sono aiutati da personale qualificato. Organizzano la casa, fanno la spesa, fanno le commissioni nel loro quartiere, cucinano, mangiano, intessono relazioni, si divertono… nel loro ambiente abituale, questo è importante per prevenire il Dopo di Noi che spaventa tanti genitori. Questi ragazzi disabili un giorno vivranno insieme sfuggendo alla “classica“ prospettiva dell’istituto o della casa famiglia. Ho conosciuto vari ragazzi che partecipano a questo interessante progetto di “vita indipendente“ e posso affermare che il loro entusiasmo è autentico e contagioso! Chissà se parlarne farà estendere l’esperienza!?

Purtroppo non tutti vedono delle prospettive vicine: c’è chi prende in considerazione una “fuga“ in un altro paese, vi riporto una seconda interessante testimonianza: “mi chiamo Andrea sono un invalido civile al 100% di 39 anni percepisco una pensione di invalidità più un’indennità di accompagnamento per un totale di circa 800 euro mensili. Non trovando lavoro ho seri problemi ad arrivare a fine mese ed insieme a mia moglie stavamo pensando di trasferirci all’estero. Volevo un vostro aiuto per scegliere la destinazione tenendo conto del costo della vita del rischio di perdere la pensione di invalidità e del clima (mi hanno parlato di Tunisia e Ucraina)“.

Tale esigenza di scappare in cerca di una condizione migliore, o almeno sostenibile, rappresenta per il nostro Paese una grossa sconfitta soprattutto in quanto manca di prospettive di lavoro. La seconda testimonianza mi posta a due considerazioni. In primo luogo, cosa sono 800 euro per un disabile al 100%, che deve affrontare spese  extra legate al suo handicap? La seconda riflessione nasce dal fatto che Andrea ha una moglie: ma perché in molti casi è l’uomo disabile a sposarsi una donna normodotata e non il contrario? Forse un uomo invalido ha una vita un po’ più semplice rispetto a una donna con la sua stessa disabilità? Perché c’è una forte discrepanza di genere, anche, ma naturalmente non solo, tra persone disabili? «Io, disabile, costretto a “fuggire” all’estero per riuscire a fare l’amore» è il titolo ad effetto del trailer del film “The special need“ la storia di Enea, un ragazzo autistico ad alto funzionamento che va all’estero aiutato ed accompagnato da due amici, per poter rivolgersi all’assistente sessuale. Figura molto utile per alcuni tipi di disabilità e di sostegno a tante famiglie ma che aimè per adesso in Italia non c’è! Anzi in un interessante convegno su amore, sessualità e disabilità ho “scoperto“ che da noi se una persona “normodotata“ aiuta un disabile ad andare con una prostituta può essere “condannata“ per istigamento alla prostituzione. Mi sembra proprio una cosa dell’altro mondo! Altro che pari opportunità!

Ritengo che molto si è fatto, ma moltissimo rimane ancora da fare, non tanto per le barriere architettoniche, ma soprattutto per quelle culturali.

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Il mito del normale

             Disabilità e affettività, il rapporto con l’altro tra paure stereotipi, riconoscimenti.

Anton Semenovyc Makarenko, notissimo pedagogo russo vissuto a cavallo tra XIX e XX sec., ha posto molta attenzione al tema dell’attività condivisa, nel suo Poema Pedagogico. Attraverso questo concetto si fa riferimento al processo interattivo della formazione dell’Io. Questa avviene infatti attraverso un dinamico ed essenziale confronto con gli altri. Per le persone disabili il processo è il medesimo, ma con delle problematiche diverse. Nel confrontarsi con l’altro per crescere e formarsi il disabile si scontra contro il muro della normalità. Si tratta, di un modello perfettibile verso cui si cerca di adeguarsi per rientrare nel senso comune. Per chi nasce diverso la normalità rappresenta un mito, un obiettivo da raggiungere con fatica e sacrificio. Un paradosso reso faticoso dal continuo confronto con gli altri. Quanto detto corrisponde a verità se ci arrendiamo ad un’idea di normalità quale paradigma immobile, già dato e immodificabile;  attraverso le scienze quali la pedagogia e la psicologia conviene accogliere la lezione di Lev Semënovič Vygotskij, psicologo sovietico contemporaneo di Makarenko, che ci invita a comprendere il fatto che  il diversamente abile è solo una persona che deve trovare, o proporre, un percorso alternativo alla via normale . Vygotskij ci esorta a non arrenderci alla biologia, ma a porre il problema delle abilità e della loro formazione  lì dove nasce e dove va affrontato, cioè nella psicologia e nella pedagogia.

Nella mia personale esperienza di disabilità motoria ho affrontato il rapporto mio e degli altri con la disabilità nel mio romanzo di formazione Nata viva. Il romanzo rappresenta la concretizzazione della ricerca costante di una comunicazione con gli altri. Il fil rouge dell’opera è senza dubbio il rapporto con l’altro, rappresentato prima dalla famiglia, poi dalla scuola, dalla relazione tra pari e infine dall’altro sesso.

La famiglia è l’ambiente della socializzazione primaria, in cui si viene accettati e non accettati, nel quale vengono fissate le prime regole di comportamento e dove ci si prepara per il confronto con il mondo esterno. Il modo di porsi dei familiari nei confronti di un membro disabile può assumere diverse connotazioni. Si passa dal rifiuto, alla negazione, alla compassione e infine all’empatia e alla comprensione. Posso dire, nella mia vita, di aver sperimentato buona parte di questi atteggiamenti. Emerge la tendenza a voler proteggere il disabile, considerato più debole e quindi indifeso. Le conseguenze di questo modo di porsi sono più incisive nello sviluppo della socialità della persona disabile di quanto si creda. Tali ricadute si palesano, non tanto nella fase dell’infanzia, ma dall’adolescenza fino al raggiungimento dell’età adulta. È in questa fase che le persone disabili, percepite come eterni bambini  dalla comunità, si rapportano con esigenze e necessità comuni ai loro coetanei. Come la necessità di aumentare la propria autonomia, l’indipendenza e la privacy, di esplorare il campo dell’affettività e della sessualità.

Dopo la famiglia, un tassello fondamentale nello sviluppo del rapporto con l’altro delle persone disabili è rappresentato dalla scuola. È qui che si entra in contatto con il mondo esterno, con un piccolo campione di società che sono i compagni di classe.  La consapevolezza della mia diversità l’ho acquisita proprio a scuola sentendo gli altri bambini che di nascosto ridevano e parlavano di me e dicevano «guarda i suoi scarabocchi» . Nella mia esperienza la scuola ha rappresentato un ostacolo, più che un sostegno. Ero bambina nei primi anni ottanta e probabilmente non vi era una coscienza diffusa sul ruolo fondamentale che insegnanti e maestri hanno nella formazione dei bambini, specialmente se diversi. Fin dalla scuola materna mi sono confrontata e scontrata con la mia diversità. Crescendo il mio rapporto con l’istituzione scolastica non è cambiato.  Alle medie o poi al liceo professori e compagni vedevano in me un problema da risolvere più che un soggetto attivo pensante e desiderante. Era quindi complicato andare al bagno, fare ricreazione in cortile e partire in gita scolastica. Tutti erano terrorizzati di prendersi la responsabilità, forse perché mancava una figura professionale, competente, adibita ad aiutarmi. Nonostante la mia esperienza riconosco che la scuola rivesta un ruolo fondamentale e insostituibile per la crescita di tutti e in particolare delle persone con disabilità. Allo stato attuale è aumentata la consapevolezza su quanto l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità costituisca un punto di forza del sistema educativo di un paese. La scuola dovrebbe essere infatti una comunità accogliente nella quale tutti gli alunni, a prescindere dalle loro diversità funzionali, possano realizzare esperienze di crescita individuale e sociale. Questo avviene attraverso la valorizzazione delle figure professionali che si occupano di formazione e sostegno e anche tramite innovativi piani di integrazione della normale didattica con strumenti tecnologici pensati per le diverse disabilità. Mi riferisco al piano promosso dal MIUR Software gratuiti per gli alunni con disabilità Azione 6 – Progetto NuoveTecnologie e Disabilità. In questo modo si consente a ciascun alunno di portare avanti a suo modo il proprio procedimento di crescita e istruzione raggiungendo medesimi risultati.

Per ultimo, ma non meno importante, è il tema dell’affettività  vissuta dalle persone con disabilità: un tassello importante nel riconoscimento della relazione affettiva con l’altro e nell’affermazione della propria autostima. Nel rapporto affettivo l’altro smette di essere il termine di paragone per misurare la propria diversità, ma diviene complice, parte integrante del proprio Io. È probabilmente in questo settore che paure e stereotipi sulla disabilità si concentrano ed esasperano. Sul tema della sessualità delle persone con disabilità si incrociano lo stereotipo dell’eterno bambino e la paura “sociale“ nei confronti di eventuali soprusi e atteggiamenti non consapevoli. Sotto questo punto di vista si può parlare di una vera e propria discriminazione. L’amore, l’affettività e la sessualità, pongono tutti gli esseri sullo stesso piano e consistono in passaggi fondamentali nello sviluppo delle persona umana. In più sedi mi sono trovata ad approfondire questo tema sia attraverso articoli che con interviste a persone disabili o vicine al mondo della disabilità. Se da una parte ho riscontrato una certa consapevolezza nel riconoscere che questi aspetti facciano parte della vita di ciascuno, dall’altra si è ancora molto indietro sul c.d. diritto alla sessualità e alla manifestazione dei propri sentimenti.  Questa problematica è particolarmente intensa per le disabilità cognitive, che, a differenza di disabilità motorie o minori che si scontrano con tabù prevalentemente culturali, vedono nella legislazione italiana un ulteriore ostacolo. Quest’ultima da un lato paragona quasi specularmente l’attività di avere rapporti con disabili cognitivi a quella con i minori, chiaramente, in entrambi i casi, con l’intento positivo di tutelare il soggetto e dall’altro non riconosce la figura dell’assistente sessuale, già molto diffusa all’estero.

Molto è stato fatto,  molto rimane ancora da fare per sostenere e agevolare le persone disabili nella quotidianità e per un loro inserimento completo e soddisfacente nella società, senza fare della normalità un mito irraggiungibile o una prospettiva continuamente disattesa.

 

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Mito e realtà: è legittimo cercare una coerenza tra i due piani?

Riflessioni sul personaggio di Biagio Antonacci, ma anche sul rapporto tra personaggi pubblici e fan.

 La privacy è un diritto importante di tutti. I personaggi pubblici, come politici ed artisti, hanno diritto a salvaguardare la vita privata, ma magari dovrebbero ritagliarsi del tempo per ascoltare le persone “comuni“ e chiedersi cosa pensano, cosa si aspettano, e come possono migliorare il loro lavoro e la loro missione. Essere una celebrità dovrebbe significare saper tutelare il proprio diritto ad avere una vita privata, ma anche sapersi “donare“ alle persone comuni. Purtroppo non tutte le celebrità hanno questa capacità ed umiltà. Registi, cantanti, scrittori hanno un compito importante: raccontare e raccontarsi in modo che la collettività si possa rispecchiare ed immedesimare nelle loro creazioni. La necessità di trovare delle storie che riflettano noi stessi è sempre stata una prerogativa dell’animo umano, presente nel trascorrere dei secoli. Infondo le storie si legano sempre a dei miti. Sfogliando un’enciclopedia, tra le varie definizioni che si trovano del termine “Mito“, che deriva dal greco mythos, ne emerge una che più delle altre mi ha colpito: mito come parola, discorso, ma anche come progetto e macchinazione. Fu Omero ad attribuire al termine questa particolare accezione. Le parole, ma anche i discorsi, i progetti del cantante Biagio Antonacci sono affascianti, ed hanno costruito un “mito“ intorno al suo “personaggio“. Una perfetta macchina che dà lavoro a lui e tante persone intorno a lui, che riempie stadi e palasport con una prevalenza di pubblico femminile di età molto eterogenee.

Sempre secondo la descrizione enciclopedica, in età classica il significato del termine si precisò in «racconto intorno a dei, esseri divini, eroi e discese nell’aldilà». Cantare è una forma antica per tramandare e divulgare il sapere; intrattenersi con storie fantastiche e gesta eroiche è una pratica che si ripete dai tempi di Omero fino ad oggi giorno. Sull’onda omerica continuo i miei ragionamenti su Biagio Antonacci: la musica ed il personaggio pubblico richiedono di crearti un’immagine, lui vuole lanciare messaggi su tutti gli aspetti dell’amore; ci riesce? In parte sì. Ma mi chiedo se dica ciò che noi fan vogliamo sentire. Con i suoi testi ed i suoi bei discorsi ci manda in confusione… pensiamo che sia come appare, che abbia vissuto le esperienze con cui noi ci immedesimiamo, anche per questo ci piace! Ma c’è qualcosa oltre l’apparenza? Dalla mia esperienza personale direi che manca di coerenza tra ciò che è e ciò che fa vedere di lui. Il mio sogno è stato e, nonostante tutto lo è ancora, quello di incontrarlo, parlagli come ad un amico, darli una lettera dalla quale può trarre una nuova canzone che parli di Amore, Passione e Disabilità. Prima di continuare con le mie riflessioni vorrei inserire in questo articolo alcuni stralci della mia lettera:

 

Caro Biagio,

(…)Ho 33 anni, in passato ho avuto delle storie d’amore… ora sono single da un po’, secondo me ci sono vari motivi per i quali non mi sono più innamorata veramente. Il primo è legato ad un mio ex: dopo che ci siamo lasciati abbiamo continuato a vederci; con lui c’è sempre stata un intesa perfetta mai raggiunta con altri uomini… è difficile “non cercarlo dentro a nessuno”; anche se lui sarebbe contento se avessi una relazione seria e duratura. La nostra è una storia analoga a quella che hai poeticamente narrato nella canzone “non tentarmi”. Già! Poi crescendo si diventa più esigenti in amore. Tu canti che viviamo in un mondo piccolo e che prima o poi ci si rincontra o ci si incontra. In amore sono importanti gli “incontri” più o meno casuali che avvengono in un locale, durante una vacanza con gli amici… io come tante persone in Italia, ho un handicap motorio, per questo in vacanza c’è sempre qualcuno molto più grande di me che mi aiuta. Anche se non mi è mai capitato l’incontro casuale, o nessuno mi ha fermato per strada o al supermercato per parlarmi… mi ritengo fortunata perché grazie ad Internet ho vissuto prima il sesso e poi l’Amore vero. Molti disabili non fanno certe esperienze: la società e le famiglie li considerano degli individui asessuati e loro non hanno abbastanza  faccia tosta, grinta e testardaggine per far capire che così non è! Per fortuna la mia famiglia mi ha sempre sostenuta sotto tanti punti di vista e mi ha trattata come una persona normale. Tornando alle mie esperienze sentimentali, ora sono diventata molto più esigente, un po’ perché sono cresciuta, un po’ perché ho avuto una lunga e bella intesa con quell’uomo normodotato, bello, affascinante e particolarmente sensibile del quale ti accennavo sopra. (…) Sono rimasta attratta da lui che mi vuole profondamente bene, mi stima, mi apprezza come donna… ma non saremo mai una vera e propria coppia. Siamo amanti e profondamente amici, c’è molta intesa tra noi… sì, ma io non sono più un’adolescente alle prime esperienze, ho 33 anni e mi piacerebbe incontrare un uomo single, libero, bello, sveglio e capace di amare, farmi sentire un donna intelligente, una FEMMINA apprezzata e desiderata… come mi ha fatto sentire V, ma non è così semplice trovarlo…! I miei amici mi dicono “non ti preoccupare Zoe, prima o poi troverai la persona giusta per te; sei talmente intelligente e bella…” . (…) “Quello che ho voluto l’ho ottenuto”, grazie solo a me stessa, mi sa che quest’ultimo concetto l’hai vissuto anche tu in vari ambiti della tua vita e carriera. Ti racconto tutto questo perché ho sempre avuto facilità a scrivere e raccontare le mie esperienza di vita, i miei pensieri, sensazioni ed emozioni. Non a caso ho scritto un libro autobiografico dal titolo “Nata viva”, (…)AL CONCERTO AL MEDIOLANUM FORUM DI ASSIAGO UN RAGAZZO DELLA SICUREZZA MI HA ASSICURATA CHE CI AVREBBE PENSATO LUI A FARTELA AVERE DIRETTAMENTE. LA BUSTA CONTENE LA LETTERA E IL MIO ROMANZO DI FORMAZIONE… IN VERITA’ NON SO SE SPERARCI ANCORA! Nel mio portale ho scritto anche un articolo sull’amore (ne ho scritti più di uno, ma qui ti indico i link di due post che parlano più di me: http://www.piccologenio.it/2012/03/28/lurlo-silenzioso-di-zoe/ e http://www.piccologenio.it/2014/09/17/leducazione-sentimentale-di-giulia/) So che ricevi centinaia di lettere al giorno e che non puoi rispondere a tutte, ma forse per questa potresti fare un’eccezione. (…) Io nella vita ho sempre cercato di non lasciare nulla di intentato, e penso che questa lettera lo stia dimostrando! (…) Ti auguro di avere sempre il successo che stai avendo in questi ultimi anni, ma di rimanere una persona “VERA” nonostante le pressioni della società… della musica… e del mondo di oggi…!

Ti saluto e ti auguro tutto il bene possibile,

Zoe.

P.S. Il mio sogno è parlarti, magari per telefono o in chat; o poterti incontrare da qualche parte in Italia. Penso che i sogni aiutino a vivere e poi che male c’è a sognare di scambiare idee, opinioni e farmi due risate con te?

 

Riflettendo sul tema mi viene da pensare a Biagio e Vasco. Quest’ultimo ha scritto delle stupende e profonde canzoni, ma la sua immagine pubblica non è mai stata un esempio da seguire. E questa anche è una scelta. Le canzoni di Vasco Rossi hanno riempito i momenti di riflessione, di solitudine di malinconia di tante persone, appartenenti a diverse generazioni di fan. Vasco ha però scelto nella sua vita privata di adottare una condotta non esemplare e non ne ha mai fatto un segreto. Si può quindi affidare il flusso dei propri sentimenti a una persona a cui nella vita reale non affideresti neanche il tuo pesce rosso? A mio avviso sì. Questo è forse il privilegio di personaggi pubblici che appartengono al mondo dell’arte.  Questo modo di rapportarsi al pubblico però non dovrebbe essere valido per altri personaggi pubblici come quelli appartenenti alla classe politica o che sono attivi nella società e che si ergono a “modelli“. Biagio appartiene, a rigor di logica, alla categoria dei privilegiati.  Ha una bella presenza, si atteggia sul palco, crea uno show attorno al suo personaggio pubblico, anche per questo ci manda in confusione. Noi fan lo vogliamo così, intenso, appassionato e sensuale, ma forse non è così, questa è apparenza o vera essenza? Forse data la sua completa inavvicinabilità è solo finzione. Il suo silenzio e la presa di coscienza che forse non è come appare mi hanno recato un dispiacere e in parte, mi hanno costretto a svegliarmi distaccandomi dal sogno d’incontrarlo. Diceva Masini: “la musica è cattiva, è una fossa di serpenti e per uno che ci arriva quanti sono i fallimenti“ apparentemente la carriera di Biagio è sempre stata in ascesa, ma mi chiedo se c’è un prezzo da pagare. È un vantaggio non avere rapporti con i fan o è una rinuncia? La vita privata ci ha rimesso o guadagnato? La musica da’ tanto: fama, soldi, il lavoro che hai scelto, sembrare sempre al top, ma cosa ti chiede in cambio? Qual è la persona e quale il personaggio? Biagio parla anche di delusioni in amore e sul lavoro, saranno tutte storie sue… forse no? So che si ispira anche alle tante lettere che noi fan gli mandiamo, cosa c’è di vero e di suo? Alcune persone, come per esempio la sottoscritta, hanno bisogno di crearsi dei miti ai quali pensare per sognare ad occhi aperti. Questo perché c’è bisogno d’illudersi e trovare dei momenti per evadere da una realtà grigia e che poco ci rappresenta. Ascoltare musica, tentare di parlare con la star preferita, può essere un’evasione, un modo di solitaria ribellione per scappare e non accettare ciò che non ci piace della vita di tutti i giorni. Come sotto l’effetto di un innamoramento o di un’ubriacatura ci inebriamo di musica e sogni, ma questi restano lontani dalla vita reale e quotidiana. A volte il sogno di incontrare il personaggio preferito diventa una realtà, come mi è successo da piccola con Marco Masini e Massimo D’apporto; c’è da dire che non tutti i personaggi pubblici (come del resto anche le persone normali) hanno una spiccata sensibilità, o forse più semplicemente non hanno tempo e voglia di avere un contatto con i fan. Da Biagio mi aspettavo qualcosa di più, facendo anche riferimento alle canzoni dedicate a Dio, all’umiltà e alle persone che non ci sono più ma che comunque rimangono vicine a noi (Naturale, Liberatemi e Sognami).

Per concludere penso che se mai incontrassi Biagio sarei felice, ma allo stesso tempo farei la sostenuta…! Gli parlerei di me, della mia vita, del mio vissuto non solo in amore; gli farei anche tante domande sulle storie e le protagoniste delle sue canzoni.

 Zoe Rondini info@piccologenio.it

 

 

 

 

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L’errore nel sottovalutare le malattie invisibili: cause e effetti dell’abuso di alcol. (10/12/14)

 

Nella nostra società molte persone sono portate a considerare malattie solo quelle del corpo, minimizzando o banalizzando problemi come l’alcolismo, la depressione, i disturbi alimentari e la vasta gamma di malattie psichiatriche, anche se sono riconosciute nel DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali). Inoltre si tende a non voler accettare il fatto che i disturbi del comportamento possano avere varie ripercussioni sull’organismo. Vi è un labile confine fra una stato emozionale, ad esempio la tristezza e la frustrazione, e un disturbo mentale, ad esempio la depressione. Sottovalutare quest’ultimo può portare a delle gravi ripercussioni, sia mentali che fisiche. Il non riconoscere un malessere della mente può essere dovuto a una generica ignoranza, ma anche alla volontà di non accettare situazioni di degrado per ipocrisia o paura.

Nella maggior parte dei casi le dipendenze si curano chiedendo aiuto, aprendosi al dialogo con esperti, ma anche con persone vicine o persone che condividono il medesimo stato. Tuttavia esternare una propria debolezza, che talvolta procura anche un certo disagio e vergogna, non è semplice, e il problema diviene più profondo. Tale circolo vizioso ricorda un incontro che il celebre Piccolo Principe fece nel suo viaggio tra i paesi della galassia. Un giorno si imbatte in uomo, alcolizzato, e con tanta ingenuità gli chiede – perché bevi? – e l’uomo – Perché ho vergogna! – Vergogna di che?- replica il principe – Vergogna di bere!- Ecco, se chi ha una dipendenza, rimane solo con essa, cerca di dimenticarla, di fare finta che tale problema non esista; e allora beve.

L’alcolismo è caratterizzato dal bisogno, in certi casi ossessivo-compulsivo, di assumere grandi quantità di alcol. È a tutti gli effetti un disturbo correlato alla dipendenza. Ha ripercussioni sulla salute del bevitore, sulle sue relazioni e della sua posizione sociale. Come per altre dipendenze da droghe, l’alcolismo è considerato una malattia curabile. L’abuso a lungo termine di alcol produce cambiamenti fisiologici nel cervello, come la tolleranza e la dipendenza fisica. Tali cambiamenti, relativi alla chimica del cervello, portano l’alcolista all’incapacità compulsiva di smettere di bere.

La tolleranza all’alcol è tipica di questo problema. L’incapacità del bevitore di controllarne l’assunzione, nonostante la consapevolezza del danno alla sua salute, indica che la persona potrebbe essere un alcolizzato. Il tratto discriminante dell’alcolista sta nell’incapacità di trattenersi dal bere e nello sforzo estremo che deve essere compiuto per mantenere l’astinenza.  Rispetto agli uomini, le donne sono più sensibili all’alcol e più inclini a subire i deleteri effetti fisici, cerebrali e mentali.

Sono la complessità, la facilità nel caderci e la crescita del fenomeno che mi spingono a parlarne. Inoltre vorrei aggiungere che il vino a tavola è conviviale, il modo di dire “il vino rosso fa sangue“ è diffuso nel nostro paese, offrire un bicchiere di amaro dopo cena è educazione. Del buon vino in un pasto succulento aumenta il senso di sazietà, a luogo andare le calorie dell’alcol diventano “importanti” per sentirsi pieni ed appagati… certo da qui a dire che siamo tutti a rischio alcolismo ce ne corre. Ma è un dato che l’alcol spesso fa parte della nostra società, inoltre, specie fra gli adolescenti, è più semplice consumare alcol, perché facilissimo da acquistare, che fare abuso di droghe. Si potrebbe dire che l’alcol è parte della vita quotidiana di tutti, ma diventa un problema, quando a questo non si può rinunciare, quando smette di essere un buon bicchiere per accompagnare un piatto squisito, o una birra con gli amici, quando la voglia compulsiva di bere supera il gusto e il piacere, e le dosi aumentano senza motivo.

Una serie complessa di fattori genetici e ambientali influenzano il rischio di incorrere nell’alcolismo. Anche la famiglia determina un fattore di rischio, infatti la percentuale di avere due soggetti alcolizzati nella stessa famiglia è molto elevata, si calcola che per un bambino-ragazzo con un genitore alcolizzato, la probabilità di cadere in futuro il questo problema, è fino a 4 volte superiore di chi non vive questa problematica tra le mura domestiche. Per quanto riguarda gli ambienti sociali, diverse ricerche dimostrano che il consumo di alcol, ad esempio durante l’adolescenza è molto elevato, perché in tale periodo della vita si è in cerca di esperienze estreme e perché in tal modo è più facile farsi accettare dal gruppo; un altro elemento da tenere in considerazione riguarda il consumo di alcol, e droga, nei piccoli centri, dove forse ai ragazzi, ma anche agli adulti, non si offrono alternative di svago. Le persone con un reale problema di alcoldipendenza tendono a nascondere il loro bisogno di bere e a bere in solitudine. A vantarsi di reggere bene grandi quantità di alcol sono soprattutto i forti bevitori (anche per autogiustificarsi e minimizzare i rischi associati al loro comportamento).

Nella stragrande maggioranza dei casi, all’origine dell’alcolismo c’è un disturbo psichiatrico, in particolare depressione e/o ansia, oppure un disturbo bipolare o di personalità borderline.

Raramente una persona non riconosce di avere un problema con l’alcol finché la situazione non è degenerata in un’evidente dipendenza e, anche in questo caso, raramente cerca aiuto spontaneamente. Un familiare può essere interpellato come primo supporto, tuttavia è più frequente che l’alcolista cerchi di nascondere/negare il problema alle persone care. Nella maggior parte dei casi, il primo contatto con un medico avviene in situazioni di forte malessere dovuto all’alcol, incidenti d’auto o traumi di vario tipo oppure segnalazioni da parte delle forze dell’ordine.

Per gestire il disturbo dell’umore alla base dell’alcolismo, in genere, si utilizzano farmaci antidepressivi della classe degli SSRI (inibitori del sistema di recupero della serotonina), efficaci e ben tollerati anche dall’organismo messo alla prova da anni di abuso alcolico. I farmaci antidepressivi vanno, però, somministrati dopo la disintossicazione e dopo aver ottenuto un’iniziale astinenza. Durante la fase di disintossicazione acuta possono essere somministrate benzodiazepine per 1-2 settimane per attenuare lo stato di agitazione.

Il recupero della dipendenza da alcol è un percorso lungo e impegnativo che può durare molti anni, se non tutta la vita. Dopo il primo anno di trattamento ben condotto la situazione migliora sensibilmente, ma le ricadute sono sempre in agguato. Per non vanificare gli sforzi compiuti bisogna esserne consapevoli e mantenere alto il livello d’attenzione nei confronti dell’alcol, rivolgendosi allo psicologo/psichiatra di riferimento in caso la difficoltà a mantenersi astemio aumenti.

Vorrei riportare due testimonianze trovate sul web, la prima racconta di una storia di alcolismo ancora non risolta, mentre la seconda è la testimonianza di un uomo che ha toccato il fondo e che è riuscito a risalire, grazie alla sua determinazione, all’amore per e dalla famiglia e all’aiuto fondamentale di un’associazione di recupero.

Ecco la prima testimonianza: Chiedo aiuto in quanto la mia famiglia ormai distrutta dal dolore non sa come fronteggiare la situazione. Mio fratello sposatosi nel 2008 si separa dopo circo 4 anni. Diventa presto alcolizzato e spesso, soprattutto alla sera, siamo in pensiero per lui che vive solo. Dopo circa un anno torna con la moglie (dalla quale ha avuto un figlio ormai di 4 anni). Inizia a curare con uno specialista l’alcolismo e sembra “pulito”. Ma dopo 4 mesi un episodio di violenza con la moglie e relativa denuncia porta tutto alla rovina. Lo ricoveriamo con la forza in quanto dopo pochi giorni si intossica pesantemente con l’alcool nei vari bar della città (tasso del 3.0 di alcol) e viene ricoverato per due giorni nel reparto di psichiatria che lo dimette senza una cura, ma solo consigliandoli l’assunzione di EN gocce per 4 volte al giorno. Ora lui solo non può stare, è preda di crisi di astinenza ci tratta male ed è aggressivo. Rifiuta ricoveri, visite psichiatriche, ecc.

Io denuncerei chi ha sentenziato che un sedativo come l’En possa bastare per arginare un problema così rilevante e consiglierei di accettare l’aiuto di persone veramente competenti.

E ora la seconda testimonianza: Ciao mi chiamo Ramon ho 33 anni e sono un ex alcolista. La mia storia parte lontano, ho iniziato a bere durante l’adolescenza e l’alcol è stato parte integrante della mia vita. Non so da dove iniziare perché l’alcol a me a rovinato parte della mia vita, dei miei genitori prima, e poi di mia moglie. Io non ho mai visto l’alcol come un problema , perché dentro di me mi ripetevo che potevo smettere quando volevo, ma in realtà l’alcol si era appropriato della mia vita cambiandomi totalmente, rendendomi succube a lui, senza alcol non riuscivo più a fare niente, era diventando fondamentale bere. Cosi facendo stavo distruggendo la mia vita lavorativa perché facevo danni su danni, ero diventato irascibile, l’ultimo anno è stato devastante: insieme all’alcol ho abbinato il gioco d’azzardo, e questo mi ha fatto scendere in una spirale letale, tra debiti, finanziamenti presi di nascosto, cosi facendo stavo portando al collasso la mia famiglia, non mi importava niente di mia moglie e di mia figlia piccola, l’importante era che stessi “bene“ io, finché un giorno stavo perdendo il lavoro, e mia moglie ha chiamato la banca e ha scoperto che c’erano dei movimenti strani, cosi sono usciti fuori tutti i debiti. Non dimenticherò mai mia moglie quando è tornata a casa , distrutta , avevo lapidato tutti i nostri risparmi e avevo fatto anche dei debiti, io da lì sono sceso in un oblio. Non vedevo più via di uscita e l’alcol prese il sopravvento, e ho cominciato a peggiorare: bevevo tutti i giorni, sbornie su sbornie, finché un giorno torno a casa etrovai mia moglie mia madre e mia suocera che mi misero d’avanti al problema. Mi dissero che ero malato e che dovevo farmi curare, io negavo il problema, ma mi diedero comunque il numero di telefono di un gruppo di mutuo aiuto chiamato A.N.C.A (associazione nazionale contro l’alcolismo). Io per dieci giorni persi il controllo della mia vita, mi sentivo una persona inutile, pensavo al suicidio tutti i giorni perché non riuscivo a vedere la luce , non potevo pensare di vivere senza l’alcol ma allo stesso tempo vivere cosi era inutile. Dopo l’ennesima sbronza chiamai quel numero e mi resi conto che la mia vita era importante. Chiamai l’ A.N.C.A e lo dissi a mia moglie, e la vidi felice. Incominciai ad andare agli incontri e mi presi subito coscienza del fatto che avevo un problema, che l’alcolismo era una malattia. Da quel giorno, con tanta determinazione, grazie al gruppo e ai consigli ora ho ricominciato a vivere, ho iniziato nuovamente a comminare con la mente lucida . Dopo tanti anni che l’alcol ha fatto parte della mia vita ho dovuto imparare a gestire la mia vita , è una cosa STUPENDA vedere la tranquillità famigliare con mia figlia e mia moglie, al lavoro ho riacquisito rispettabilità. Sapete, non penso a quello che ho fatto , o dove sarei potuto essere se non avessi mai incrociato l’alcol sulla mia strada, perché il passato non lo posso cambiare, ma vi posso dire che il presente lo voglio vivere al meglio. Si, se ci si crede un FINALE MIGLIORE E’ POSSIBILE. Basta crederci.

Dopo questa breve riflessione  vorrei proporre un articolo, a carattere scentifico per capire meglio il problema, come riconoscerlo ed affrontarlo.

Potete leggere l’articolo cliccando sul seguente link: http://www.farmacoecura.it/droga/alcolismo-sintomi-effetti-test-pericoli-terapia/

video sull’alcolismo ed i suoi effetti:

https://www.youtube.com/watch?v=sokcuo56FKs i figli degli alcolisti hanno il quaduplo delle possibilità di diventarlo.

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Un bel regalo del mio relatore della triennale, Prof Nicola Siciliani de Cumis

piccologenio.it è un portale che propone articoli, racconti, recensioni, argomenti di disabilità e problematiche sociali che potete commentare.

 L’idea di aprire questo sito internet è venuta ad una ragazza nata nel 1981 che ha passato molto tempo a scrivere, leggere, girare cinema, teatri e mostre della sua città. La ragazza in questione presenta un problema nel camminare e nel parlare; è per questo motivo che nel sito viene trattato anche il tema delle dell’handicap. Nel sito potrete trovare articoli di psicologia, pedagogia e di bioetica scritti da illustri professori esperti in tali materie, nonché post che trattano argomenti su problematiche sociali di grande attualità.

http://www.archividifamiglia.it/archivi-10-3/didattica–ricerca-universitaria-8-11/dossier-marzia-castiglione-humani-9-96/

 

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Italy in a day… ma non tutta

https://www.youtube.com/watch?v=jmu0tmwdWEI&feature=youtu.be Il mio Italy in a day

Lo scorso sabato attendevo con una certa ansia la visione del film documentario Italy in a day di Gabriele Salvatores. Il regista aveva invitato tutti gli italiani e le italiane a filmare un momento della loro giornata del 26 ottobre 2013: era un sabato. Anch’io avevo inviato allora il mio contributo. Sapevo di non essere stata scelta, perché in caso contrario mi avrebbero contattato per tempo, per filmare alcune liberatorie. Essendone giunti 45.000  non sono rimasta stupita quando mi sono resa conto  che non era stato inserito il mio video, che per quanto lo apprezzi rivedendolo e per quanto lo consideri prezioso in quanto ha coinvolto me e  le persone care intorno a me, magari non era giusto che venisse scelto. Ritengo di non aver una voce, una parlata diciamo.. adatta alla televisione o al cinema.  Detto questo ero comunque molto curiosa della visione del film, nutrendo delle aspettative  su come potesse venire rappresentata e narrata la disabilità.

Cosa ho trovato:

presenti molte fasi della vita nell’arco del tempo dell’essere al mondo quali la nascita, l’infanzia, la gioventù, la maturità e la vecchiaia.

Compaiono un gran numero di bambini. (Come dice Augusto Sainati:  “Ci sono molti bambini: bellissima immagine, carica di speranza e di futuro, ma forse un po’ troppo di parte in un paese che di bambini ne fa davvero pochi“).

Ben costruito anche il discorso sui ragazzi che vorrebbero emigrare in un altro Paese perché nel loro non scorgono prospettive e futuro. Anche gli anziani sono stati diversificati nelle loro storie ed è stata adeguatamente raccontata la loro quotidianità. Mi ha colpito la storia di un medico italiano dentro una realtà povera e disagiata di un altro paese che riusciva a dare senso profondo al suo lavoro e “sacrificio“ come se in Italia non si trovino abbastanza storie esemplari  tra ospedali, reparti pediatrici e luoghi di cura o di terapia. Un altro spunto interessante ben sviluppato all’interno di un discorso narrativo è stata la presenza dei padri divorziati che si occupavano dei loro figli con un certo trasporto. Tema ricorrente la giornata di sportivi e le loro imprese, dalla bicicletta al paracadutismo. Mi ha colpito la scelta di narrare storie dal carcere e il punto di vista dei collaboratori di giustizia. Questi temi, di cui di solito sappiamo ben poco, hanno trovato uno spazio adeguato.

A mio avviso ridondante e superfluo il video, quindi la testimonianza, della ragazza che preferiva stare sotto le coperte invece di affrontare un nuovo giorno. Anche la mamma impegnata ad insegnare a guidare alla figlia, mi è sembrato un po’una  forzatura a discapito di tematiche e scorci di vita che potevano essere interessanti, quali il cinema, il teatro, la cultura in genere, in relazione alle storie delle persone che ne potevano testimoniare la presenza nella loro vita, in un sabato come tanti.

Esteticamente parlando, mi è sembrata buona e appropriata l’idea di dividere il filmato in varie ore del giorno, creando un effetto movimentato e divertente nello spettatore. Ampio spazio nel montaggio è stata data alla percezione  variegata del tempo climatico, dei paesaggi ripresi, delle città vissute a diversi livelli. Particolarmente azzeccato e divertente il momento del pranzo che ha visto buona parte dei protagonisti accingersi a mangiare; nello specifico mi ha fatto molto sorridere  la storia di un ragazzo che, dopo un breve monologo sulla bellezza e sul gusto, mangia lentamente e assapora in modo sapiente il suo panino davanti alla telecamera per diversi minuti.

 

Sul Fatto quotidiano del 28 settembre, Augusto Sainati – professore universitario e critico cinematografico – scrive che il cinema, utilizzando tutte le sue possibilità espressive, ha il compito di creare nuove sintesi, nuovi mondi totali. “… Ciò che invece un po’ manca in Italy in a day è proprio questa capacità di saltare verso la sintesi: tante immagini fanno accumulo, ma se l’accumulo resta tale, il cinema è solo in potenza“. E ancora …“ Italy in a day non è un selfie dell’Italia, ma il ritratto di “una vita da mediano“.

Dentro queste considerazioni si inserisce la mia più grande delusione e amarezza durante e dopo la visione del film: la constatazione della totale e forse imperdonabile assenza – visto l’esperimento comunitario – di storie narrate da o insieme a persone disabili, con qualsivoglia tipo di disabilità o semplicemente malate, dentro i confini italiani.

 Mi sono chiesta: a che cosa è dovuta questa mancanza?  Scarso materiale inviato non all’altezza? O impossibilità da parte di famiglie o delle persone con disabilità di potersi raccontare  “in leggerezza“ senza dover per forza testimoniare malasanità, inadeguatezza politica e sociale, drammi familiari, etc. O qualora invece ci sia stato abbastanza materiale, possibile che non ci fosse una traccia, una microstoria che rispettasse canoni estetici richiesti o rispondesse alla serie di domande proposte a cui attenersi? (Posso testimoniare che la sottoscritta ha inviato un video di durata inferiore ai quindici minuti richiesti dove rispondevo ad almeno  due delle domande che per regolamento dovevano essere toccate e prese in considerazione, almeno in parte).  Possibile che in 45000 contributi arrivati e visionati non ci sia stato nulla di decente su e da parte di tale rappresentanza?  Non voglio dire questo per lamentarmi o fare la parte della disabile che si lagna perché non si parla deiproblemi dei disabili… anzi il contrario. Italy in a day grazie all’opportunità che aveva nel suo potenziale e alla sensibilità e sapienza  del suo regista, poteva essere l’occasione per condividere il fatto che le persone con disabilità possono raccontare di tutto e raccontarsi in infinite combinazioni possibili, senza ricorrere ai soliti clichè e stereotipi che ostacolano la narrazione e l’ esperienza di raccontarsi liberamente… avendo cioè un pretesto, uno spunto o un’ispirazione, qualcosa da dire insomma, a tutti quanti.

Senza ricorrere per forza ai casi limite o estremi, si poteva scegliere come rappresentanza  anche solo il coraggio  di una persona con problemi motori che “vive“ la sua giornata e si racconta “in soggettiva“ davanti la macchina da presa; anche questa “semplicità“ poteva essere interessante condividere.

Rispetto poi alla leggerezza “calviniana“ in questo momento diversi documentari e narrazioni audiovisive stanno cercando di fare emergere punti di vista mai esplorati intorno ai temi del disagio psichico oltre fisico (Sconosciuti, i 10 comandamenti, The special need, etc, Capitan Pistone di Mara Consoli, etc…).

E poi mi chiedo: era proprio indispensabile approvare video di persone lontane, oppure le testimonianze  dei collaboratori di giustizia?  Non era necessario, fondamentale, doveroso inserire, nel film collettivo, almeno un solo minuto prezioso di una persona disabile che racconta il mondo?

E poi pensiamo alla giornata dell’ astronauta Luca Parmitano. Chiaramente suggestiva, bella cinematograficamente la giornata di Parmitano… ma possibile che non sia stato trovato del bello nella giornata di un disabile che lotta per la conquista di un senso o di un piacere da condividere nell’arco della sua giornata?

Forse chissà aggiungendo un quarto d’ora a quei brevi settantacinque minuti si poteva raccontare qualcosa in più.

Questa mia riflessione non è semplicemente suggerita dal fatto di essere parte in causa, rispetto alla voragine constatata in termini di rappresentanza  e ampiamente criticata. Occupandomi, ogni volta che posso, di narrazione e disabilità, cercando di fare coincidere il racconto con il bisogno di raccontare e raccontarsi da parte di chi vive un disagio profondo quotidianamente, speravo tanto che il sabato di Italy in a day potesse essere un sabato da ricordare… per tutta l’Italia. Anche per noi.

 

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La depressione è una malattia, e si può guarire.

La depressione è una malattia a tutti gli effetti, essa, se trascurata può avere sintomi che debilitano il fisico come l’assenza di appetito che spinge l’individuo a non mangiare, l’insonnia grave e ripetuta, l’assenza/sospensione del ciclo mestruale, l’essere sempre stanco e apatico, non avere più un giusto ritmo sonno-veglia, essere disorientato nello spazio e verso gli altri, piangere spesso, sottovalutarsi e pensare al suicidio, trascurare aspetti della vita importanti che portano l’individuo ad uscire di casa, lavorare, avere degli amici. Questi sono i sintomi più frequenti di questa patologia. Certo oggi si fa fatica a distinguere un po’ di tristezza dalla depressione e il consumo di ansiolitici ed antidepressivi è in netto aumento rispetto allo scorso decennio, come si evince da un’indagine dell’ Aifa, Agenzia italiana del farmaco. Inoltre gli antidepressivi risultano al primo posto tra i farmaci usati per il sistema nervoso centrale: questi ultimi sono al quarto posto per consumi. La depressione in Italia  colpisce circa otto milioni di persone!

È sbagliato il fai da te: addirittura negli USA si somministrano farmaci antidepressivi (che, voglio ricordare, creano dipendenza) ai bambini, per contrastare piccole pecche caratteriali!

Trattandosi di una malattia psichiatrica, per la depressione è necessaria una diagnosi del medico ed il fai da te è spesso deleterio. Purtroppo nella nostra società permangono ancora molti pregiudizi, le persone non ammettono di soffrirne e non vogliono ricorrere alle cure di uno specialista.

Il modo di ragionare di molti si aggrappa ancora a stereotipi del tipo:

Se vado dallo psicologo vuol dire subire una sconfitta perché non ce l’ho fatta da solo!“

“Se mi curo da uno psicologo penseranno che sono matto!

“Se cambio i miei pensieri non sono più io!“

“E’ impossibile cambiare! Sono fatto così“

Ci vorrebbe solo un miracolo!“

Anche i familiari tendono a sminuire il problema con frasi del tipo:

Sei solo un po’ triste e stanco.“

“È colpa tua: dovesti reagire, esci che ti passa“ .

Niente di più sbagliato: chi è depresso spesso non ha le forze né morali né fisiche per cambiare comportamento. Inoltre con queste frasi tipiche si tende ad abbassare la già scarsa autostima andando ad ampliare i pensieri di autolesionismo e tendenze suicide di questi soggetti. Per ottenere un buon risultato bisognerebbe, dopo una seria diagnosi, agire, con terapie adeguate, sia sul paziente sia sul nucleo familiare. Ci vuole tempo per risalire dall’abisso, ma si può se si fa psicoterapia, se ci si rieduca ad uno stile di vita sano e scadenzato. Nei casi più acuti, magari dove il primo intervento è arrivato in ritardo, assumere le giuste medicine può rivelarsi utile per affrontare i disturbi fisici ed ritrovare la voglia e le energie per recuperare uno stile di vita più corretto ed aperto verso l’esterno.

Purtroppo questa malattia colpisce anche in giovane età, a soffrirne di più sono le donne rispetto a gli uomini. Queste possono arrivare all’apice che le porta a disprezzare se stesse.

All’esordio del problema si manifesta un’ansia  immotivata e/o attacchi di panico anche per lunghi periodi. Col passare del tempo si presentano altri sintomi fisici che non ho ancora elencato, si tratta di disturbi della digestione e gastro intestinali, la testa spesso diventa pesante o sembra essere stretta da una morsa, c’è la fame nervosa che ti spinge a svuotare il frigo principalmente quando non si riesce a dormire.

A volte la terapia farmacologica non da i risultati sperati, è possibile dover cambiarla prima di trovare le dosi ed il farmaco giusto. Con la terapia e psicoterapia giuste si può guarire anche se il percorso è molto lungo e dopo ci possono essere ricadute, ma è possibile imparare a gestirle.

Riporto ora una breve testimonianza di un uomo che è riuscito a guarire completamente.

Alla domanda “Che consiglio darebbe a chi leggendo queste righe si identificasse con la sua storia e non sapesse come uscirne?“ Salvio risponde che:

Anche se è difficile nella condizione del depresso, consiglio di non arrendersi, di continuare a cercare una cura e perché no, magari una psicoterapia cognitivo-comportamentale associata in un primo periodo ad una cura farmacologica ‘su misura’ e prescritta da specialisti. Sì, si può vincere la lotta contro la depressione!

Anche un’altra domanda dell’intervista mi ha colpito perché porta un messaggio positivo che merita di essere divulgato:

Cosa le ha insegnato la lotta contro la depressione? Chi era Salvio prima della malattia e chi è oggi?

La lotta contro la depressione mi ha insegnato che se è ben mirata fornisce risultati positivi.  Mi ha anche insegnato ad avere empatia verso chi ancora ne soffre e mi ha fornito l’input per aiutare altri.

Prima della malattia ero un essere completamente ‘annullato’, impotente,  incapace di sperare, tanto meno di realizzare i propri sogni. Oggi posso dire di essere una persona normale, senza più addosso quel peso insopportabile della malattia. Oggi posso permettermi di affermare di essere: “Al di là della depressione“

Al disturbo depressivo spesso è associato un eccessivo consumo di alcol, i motivi possono essere:

–        per ovviare e contrastare l’insogna

–        per cercare di rilassarsi

–        per non pensare

–        per annullarsi sempre di più

–        per ottenere un comportamento autolesionista.

Per questo associo a questo articolo il link del mio post sull’alcolismo: http://www.piccologenio.it/2014/11/10/lerrore-nel-sottovalutare-le-malattie-invisibili-cause-e-effetti-dellabuso-di-alcol/

Per i disturbi psichiatrici non bisogna aver timore di chiedere aiuto, non è una vergogna soffrirne. Capito ciò se ne può uscire!

La depressione non è un sentimento, ha diverse gravità: 3 fasi significative; visone negative di se stessa, del mondo, del futuro. influenza alimentazione e sonno. Poca capacità di concentrarsi. : https://www.youtube.com/watch?v=LyFIzozNi-c

seconda parte, le terapie: https://www.youtube.com/watch?v=dAGToPTGO_g

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