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Auto – nomia: una luce tra le tenebre delle “patenti speciali“

Ho una disabilità motoria per la quale parlo, cammino e mi muovo con una certa difficoltà e spasticità che riguarda tutti i muscoli, volontari e involontari. Fin dalla nascita ho fatto tantissima fisioterapia il che mi ha fatto recuperare molto più di quello che i medici si auspicavano nei primi giorni e nei miei primi anni di vita. Negli anni dell’adolescenza, non ho potuto usare il motorino come tutti i miei coetanei, per questo compiuti i diciotto anni mi sono sottoposta immediatamente alla commissione medica per le “patenti speciali“. Dopo pochi mesi ho cominciato a uscire da sola, andare all’ultimo anno di liceo in modo autonomo, fare le mie commissioni etc. Dal 2000 al 2012 mi sono sottoposta al rinnovo, prima ogni cinque anni, poi ogni due come vogliono i cambiamenti legislativi. Nel suddetto periodo non ho avuto nessun problema al rinnovamento. La macchina è stata per me il primo step di un importante percorso di autonomia voluto e desiderato in primo luogo dalla sottoscritta e appoggiato dai miei familiari. Infatti, successivamente all’anno 2000 ho intrapreso un soddisfacente percorso universitario, sono andata a vivere da sola e, ovviamente, facevo tutte le cose che fanno le persone normali nella quotidianità quando vivono da sole e hanno l’autonomia. Nel 2012, per assurdi problemi burocratici e per un cambiamento di legge che prevede il rinnovo di patenti di tipo “B speciali“ da cinque anni ad un massimo di due, mi è stato negato il diritto ad avere la patente come tutte le persone che conosco. Questo ha recato un grave danno alla mia autonomia nonché all’autostima. Come di regola, il rinnovo per questo tipo di patenti si svolge in una commissione medica speciale, la stessa che mi ha consentito tutti i rinnovi! Ancora non mi capacito come dopo tanti anni di guida attenta e sicura non mi abbiano rinnovato il riconoscimento di questo importante diritto. L’ingegnere che prende la decisione finale e pone la sua firma sul certificato di rinnovo non era convinto del movimento del mio piede destro; arto che ha sempre controllato con precisione i pedali del freno e dell’acceleratore. Il braccio e la mano destra (parti che, in generale e nei movimenti “fini“, controllo e padroneggio con precisione rispetto a tutta la parte sinistra) gestivano, grazie a un pomello e a una centralina, il movimento del volante e i comandi quali frecce, doppie frecce, clacson, tergicristalli etc. L’ingegnere, prima di togliermi definitivamente la possibilità di guidare, mi ha fatto fare una prova con un apposito simulatore di guida della Fiat. L’esito della prova sostenuta con piede destro ha portato dei risultati da sufficiente a buono. Tale stress emotivo e psicologico non è stato sufficiente per far decidere l’ingegnere che, intanto, mi aveva sospeso la patente per sei mesi. Immaginate con quale stato  d’animo sono riandata dopo poco tempo a sostenere una difficile prova con lo stesso simulatore. Nonostante una notevole paura nel prestarmi ad una prova mai sostenuta prima di allora e che mi richiedeva una novità, l’uso della parte superiore sinistra… è emerso, con mia grande soddisfazione, che dai due arti superiori ho ottenuto un risultato che va da sufficiente a buono. Con il risultato ho fatto ricorso al TAR che ha dei tempi lunghissimi e tende a favorire le asrl, non i singoli cittadini.

La mia rabbia e frustrazione riguardo ad una commissione che dipende dalla Asl, ma non ha nulla di umano e non tiene presente la dignità delle persone, in più delle persone disabili, aumentava ogni volta che mi trovavo in quel posto insieme ad altri disabili ai quali veniva rinnovata la patente. Inoltre, nella sala d’attesa questi si lamentavano e si arrabbiavano per come funzionavano le cose. Ognuno di loro, come me, aveva speso diverse centinaia di euro per portare avanti le pratiche del rinnovo. A molti disabili sono stati cambiati i comandi, dagli arti inferiori a quelli superiori; forse è solo una tendenza, una presa di posizione per far finta di cambiare le cose e far perdere tempo e soldi alle persone con disabilità, sia per spostare i comandi speciali dai piedi alle mani sia per ritornare a pagare le lezioni pratiche di guida. È così che funzionano le cose nel nostro Bel Paese? Dov’è il diritto a una vita dignitosa e autonoma anche se si ha una disabilità? Questa è un’utopia o solo una forte volontà delle persone “diverse“ e delle loro famiglie? È giusto che le singole famiglie non siano adeguatamente supportate dalla società in questo importante percorso di vita? Mi ha colpito un fatto accaduto mentre stavo nella sala d’attesa: faceva molto caldo e diverse persone che attendevano la visita medica per il rinnovo della “patente speciale“, come la sottoscritta, guardavano con perplessità il cartello su cui era scritta la frase “È severamente vietato aprire le finestre“. In quel mentre è passata un’inserviente, un signore le ha domandato come mai ci fosse quel cartello e se fosse possibile cambiare un po’ l’aria; la signora gli ha risposto che un giorno la madre di un ragazzo disabile si era gettata dalla finestra in quanto al figlio non era stata rinnovata la patente di guida. Io capisco la rabbia e lo sconforto di quella madre che chissà quanti sforzi avrà fatto per far raggiungere una discreta autonomia al figlio e poi, da un giorno all’altro, una commissione medica ha il potere e la facoltà di far tornare indietro tutti e due e la sottoscritta di chissà quanti anni. Qualche mese dopo (troppo pochi) tornate in commissione abbiamo notato che le patenti speciali erano state spostate ad un piano sotto terra, così le finestre potevano rimanere aperte senza pericolo… Purtroppo poi, proprio quel giorno l’ascensore era guasto, ed una persona in sedia a rotelle che doveva sostenere la visita aveva lasciato gli occhiali da vista nella sua macchina. Bene, ascensore guasto e macchina per strada, la soluzione prospettata dagli addetti al settore era quella di rimandare la visita. Fortunatamente un terzo si è offerto di fare una corsa a prendere gli occhiali all’interessato, e l’appuntamento è stato salvato.

Non a caso mi sembra di essere tornata adolescente quando non potevo uscire liberamente e passavo interminabili pomeriggi di solitudine in compagnia della scrittura. Non è da sottovalutare anche il fatto che quando guidavo ero io a dare dei passaggi ai miei amici e famigliari che si trovavano sprovvisti di mezzi di locomozione. Vorrei raccontare un altro fatto emblematico. Un giorno mia sorella si è recata alla commissione in quanto doveva prendere l’appuntamento per la mia visita; c’erano diverse file, sbagliando fila e facendo quella per le analisi del sangue, si è resa conto che avevano messo nello stesso “girone dantesco“ i disabili e le persone a cui avevano sospeso la patente a causa di alcol e droga. Capisco i tagli alla sanità, ma si può trattare alla stessa maniera una persona che purtroppo vive e convive con una menomazione fisica, ad una persona che magari per depressione e chissà quali disagi psicologici, sociali, lavorativi, familiari… fa uso di alcool e droga? Perché i tagli non tengono conto della dignità, delle sofferenze, e delle reali necessità delle persone? Per tornare alla mia situazione, adesso non posso guidare e sto aspettando i tempi infiniti del ricorso al TAR. Intanto i mesi passano, ho smesso di cercare un lavoro perché ho delle serie problematiche negli spostamenti e forse anche nell’autostima. È  stata particolarmente significativa l’esperienza avuta l’anno scorso di un tirocinio organizzato dal Comune di Roma nel quale ero abbandonata a me stessa; impiegavo le mie mattinate al bar di un istituto per disabili invece di fare cose più utili, tipo scrivere, collaborare in un giornale, prepararmi per convegni sulla disabilità, fare fisioterapia, avere una vita autonoma con diversi compiti e mansioni da svolgere. Chi mi risarcirà per i danni morali subiti?  E, soprattutto, mi ridaranno prima o poi il diritto a guidare visto che è una cosa che non si dimentica ed è, scusatemi l’espressione proverbiale, come andare in bicicletta?

A questo discorso che riguarda l’autonomia e i diritti miei e di tante persone con disabilità, si collega in modo coerente e concreto il discorso del lavoro affrontato da me nell’articolo intitolato “La mia esperienza di tirocinio – lavoro“. Potete leggere il resoconto nel seguente link: http://www.piccologenio.it/2014/07/10/la-mia-esperienza-di-tirocinio-lavoro/

Secondo voi è giusto che io debba ringraziare la mia famiglia, la quale ha ripreso a darmi assistenza per quanto riguarda gli spostamenti, o è un mio diritto tornare a una vita più “normale“ possibile? Che cosa c’è di più normale nell’aspirare a uscire da sola, avere un posto di lavoro adeguato alla mia laurea triennale in Scienze dell’Educazione e della Formazione e alla laurea specialistica ottenuta alla facoltà di Lettere nell’indirizzo di Editoria e scrittura, entrambe conseguite all’Università la Sapienza di Roma.

Capisco le associazioni per le vittime della strada, ma ciò non giustifica un accanimento nei miei confronti. Il giorno in cui mi sono recata con mia sorella alla commissione medica “patenti speciali“ nostro nonno lottava tra la vita e la morte al Policlinico Gemelli, in seguito a quattro giorni passati in terapia intensiva dopo essere stato investito da un motorino mentre attraversava. La persona che guidava il motociclo è stata accecato dal sole. Purtroppo, dopo questi lunghi giorni, la situazione di mio nonno è terminata in maniera tragica. Questo episodio che ha colpito me, come tutti i miei famigliari, non ci ha mai fatto trovare un nesso tra le “patenti speciali“ e le vittime della strada, infatti, ricordo io stessa, sulle nostre strade si contano ancora 182.700 incidenti che provocano 3.400 decessi e il ferimento di 259.500 persone. Forse a causare questi incidenti ci sono diversi fattori quali velocità, stanchezza, orari nei quali ci mettiamo alla guida, uso di alcol e droga, nottate senza freni in discoteca ed età del guidatore; fattori, comunque, non riconducibili a un handicap momentaneo o permanente. Cercando in internet ho trovato solo dati da cui emerge che la disabilità è l’effetto di incidenti stradali e non la causa. Perché? Forse non ci sono dati rilevanti tra guidatori disabili e incidenti stradali? Eppure a molti disabili che ho visto nella sala d’attesa della commissione medica è stata rinnovata la patente. Quindi non posso pensare che non ci siano molti disabili alla guida!

Chissà se questo mio articolo servirà a creare una sensibilità non solo da parte dei disabili e delle loro famiglie o della gente comune, ma anche, e soprattutto, tra gli addetti ai lavori e a chi ha il potere di elargire o rinnovare le patenti di tipo “B speciale“. Io e la mia famiglia, intanto, non smettiamo di combattere e stiamo facendo il possibile per farmi riacquistare il diritto alla mobilità, ad una normalità per quanto possibile e ad una vita più autonoma e dignitosa.

L’autonomia, l’indipendenza, il lavoro sono traguardi faticosi da raggiungere per chi convive con un decifit fisico. Trovo che trattare con tale superficialità il percorso delle persone con disabilità è una forma di discriminazione. Ci vorrebbero più interventi mirati per le singole persone anziché trattare e a volte maltrattare tutti allo stesso modo come avviene in molti istituti, case famiglia, commissioni mediche e centri “specializzati“ . E’ di stamani la notizia che in una casa-famiglia di Santa Marinella abusavano e maltrattavano gli ospiti (minori e disabili) per fortuna sono avvenuti cinque arresti.

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Noi siamo Francesco

È un film delicato e bellissimo: “Noi siamo Francesco“. Francesco è un bel  ragazzo, fisico atletico, brillante studente universitario, ma senza braccia dalla nascita. Riesce a fare quasi tutto. Ha 22 anni. Vive con la madre Grazia che nella vita fa la mamma a tempo pieno, ha un migliore amico Stefano.  Belli i ruoli e i rapporti di tutti i personaggi nei confronti del protagonista, molto intense e positive anche quelle della tata e della ragazza di Stefano. Tutte queste figure  si approcciano a lui con sincerità e affetto.

Ad oltre 20 anni non aver mai baciato una ragazza sta diventando un problema per Francesco.

Con l’aiuto dell’inseparabile amico Stefano, Francesco troverà comunque la strada per vivere serenamente la sua prima volta, con l’intraprendenza che appartiene alla sua età e superando gli ostacoli, le paure e le insicurezze causate dalla sua menomazione.

Degli aspetti della vita del protagonista  hanno catturato particolarmente la mia attenzione: bello essere indipendente, avere rapporti “sani“ e autentici con le persone, non farsi influenzare dagli altri che dipendono da lui e che tra l’altro sono pagate… Di certo Francesco aveva le idee chiare,  interessante    la parte del film in cui lui se la prende con  madre  per avergli organizzato un incontro di sesso a pagamento, rapporto che si è consumato in fretta  modo squallido, tutto il contrario del rapporto amoroso finale, con Sofia, compagna d’università.

Autentico il rapporto tra la madre e quest’unico figlio maschio, sua appendice, parte di lei, parte non normale perché senza braccia. Lo psicologo della madre le chiede: “suo figlio ha un handicap, perché fargli  pesare il fatto che lei non ha più una vita sessuale?“ La domanda del dottore rende veritiere certe assurde dinamiche…

Ritengo sia un lieve e toccante documentario. Il narrarsi garbatamente e con discrezione lascia il segno. Anche l’incanto dell’ambientazione in Puglia e le bellissime musiche aggiungono poesia e bellezza alla storia.

Interessante la dichiarazione della regista Guendalina Zampagni che ammette di aver costruito un’unica storia partendo dalle interviste a persone disabili su temi quali l’amore, la sessualità e l’amicizia.

Ho visto diversi film che trattano “amore, sessualità e disabilità“ i protagonisti erano tutti maschi, sarebbe interessante veder narrata la questione con la sensibilità e le difficolta di un ruolo femminile.

Questo film mi ha fatto riflettere anche sulla figura dell’assistente sessuale: forse il suo ruolo limitato di terapista del sesso non assolverà tutti i bisogni fisici e sentimentali dei suo assistiti.

È difficile crearsi una propria indipendenza se si ha un’handicap, riconoscersi come adulti e farsi trattare e rispettare come tali  dagli altri e dalla società. La disabilità non è fonte di rispetto, comporta una limitazione dell’autonomia, dipendenza, difficoltà nella gestione di sé e della propria vita e così via… di certo non aiuta e non facilita la presa di coscienza del proprio io, delle capacità, del costruire rapporti sani, non legati al denaro (cosa esplicita molto bene in questo film) o ai tanti momenti del bisogno. Positiva è anche la figura della tata, lavora con Francesco e la madre ad ore, ha un ruolo ben definito, non si sostituisce alla vera mamma, di conseguenza può permettersi di viziare il ragazzo senza essere invidiata e additata, neanche il ragazzo rischiava stupidi atteggiamenti per il rapporto con la tata, la madre, gli amici l’Altro.

Ammirabile il desiderio di Francesco di finire l’università per vivere con il migliore amico. Chissà come può essere il seguito della storia… Francesco è reduce da una delusione d’amore come me… e ammette “un altro rifiuto non riuscirei a sopportarlo“, ma con il migliore amico e la ragazza di quest’ultimo è riuscito ad andare avanti. In fondo la vita di Francesco era quella di uno studente brillante, ma normale, non segnata dall’urgenza di risolvere problemi ed impellenze quotidiane, dover fare o dimostrare chissà cosa…  diversamente la stima degli altri, l’autostima, l’indipendenza, la libertà, la mobilità… sarebbero finite chissà dove.

Belli gli anni d’università quando avevo un ruolo, la patente e pensavo che la laurea servisse a trovare un posto di lavoro, c’era anche chi mi aiutava, forse troppo… a mantenere rapporti con diverse persone. Comunque con gli aiuti, guidavo, studiavo, sapevo come passare le giornate, avevo un mio ruolo di persona che vive da sola, esce, studia, ho avuto delle storie sentimentali, ero più capace di infischiarmene di chi si svegliava con la luna storta ed anche di chi non approvava le mie scelte amorose e sessuali…!

Pochi giorni fa un fatto mi ha colpita: un mio caro amico ha portato in un viaggio di lavoro suo figlio che è un po’ discolo: sarebbe bello poter avere ancora qualcuno che ti  istradi nel mondo del lavoro anche a costo di farti capire, col suo esempio, cosa vuol dire guadagnarsi il pane, avere degli incarichi sia  familiari, sia lavorativi da assolvere… avere scadenze, rendere conto ai capi  perché altrimenti c’è chi è più bravo di te e ti può sostituire. Sarebbe bello contare su una persona che ti  introduca nel complicato mondo del lavoro, anche mettendoti davanti alla fatica e l’impegno che ora sono del padre e poi un giorno saranno del figlio in chissà quale ambito… magari molto diverso da quello del suo modello di riferimento, il papà appunto…!

Conosco molti illustri Professori in medicina (ginecologi, dermatologi, dietologi…) che hanno aperto la strada a figli e nipoti. Ritengo che non ci sia nulla di male e che poi sia tutto dovuto al talento dei più giovani del proseguire e farsi strada!

Mi sento un elefante dentro un negozio di cristalli!

 

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Il mito del normale

             Disabilità e affettività, il rapporto con l’altro tra paure stereotipi, riconoscimenti.

Anton Semenovyc Makarenko, notissimo pedagogo russo vissuto a cavallo tra XIX e XX sec., ha posto molta attenzione al tema dell’attività condivisa, nel suo Poema Pedagogico. Attraverso questo concetto si fa riferimento al processo interattivo della formazione dell’Io. Questa avviene infatti attraverso un dinamico ed essenziale confronto con gli altri. Per le persone disabili il processo è il medesimo, ma con delle problematiche diverse. Nel confrontarsi con l’altro per crescere e formarsi il disabile si scontra contro il muro della normalità. Si tratta, di un modello perfettibile verso cui si cerca di adeguarsi per rientrare nel senso comune. Per chi nasce diverso la normalità rappresenta un mito, un obiettivo da raggiungere con fatica e sacrificio. Un paradosso reso faticoso dal continuo confronto con gli altri. Quanto detto corrisponde a verità se ci arrendiamo ad un’idea di normalità quale paradigma immobile, già dato e immodificabile;  attraverso le scienze quali la pedagogia e la psicologia conviene accogliere la lezione di Lev Semënovič Vygotskij, psicologo sovietico contemporaneo di Makarenko, che ci invita a comprendere il fatto che  il diversamente abile è solo una persona che deve trovare, o proporre, un percorso alternativo alla via normale . Vygotskij ci esorta a non arrenderci alla biologia, ma a porre il problema delle abilità e della loro formazione  lì dove nasce e dove va affrontato, cioè nella psicologia e nella pedagogia.

Nella mia personale esperienza di disabilità motoria ho affrontato il rapporto mio e degli altri con la disabilità nel mio romanzo di formazione Nata viva. Il romanzo rappresenta la concretizzazione della ricerca costante di una comunicazione con gli altri. Il fil rouge dell’opera è senza dubbio il rapporto con l’altro, rappresentato prima dalla famiglia, poi dalla scuola, dalla relazione tra pari e infine dall’altro sesso.

La famiglia è l’ambiente della socializzazione primaria, in cui si viene accettati e non accettati, nel quale vengono fissate le prime regole di comportamento e dove ci si prepara per il confronto con il mondo esterno. Il modo di porsi dei familiari nei confronti di un membro disabile può assumere diverse connotazioni. Si passa dal rifiuto, alla negazione, alla compassione e infine all’empatia e alla comprensione. Posso dire, nella mia vita, di aver sperimentato buona parte di questi atteggiamenti. Emerge la tendenza a voler proteggere il disabile, considerato più debole e quindi indifeso. Le conseguenze di questo modo di porsi sono più incisive nello sviluppo della socialità della persona disabile di quanto si creda. Tali ricadute si palesano, non tanto nella fase dell’infanzia, ma dall’adolescenza fino al raggiungimento dell’età adulta. È in questa fase che le persone disabili, percepite come eterni bambini  dalla comunità, si rapportano con esigenze e necessità comuni ai loro coetanei. Come la necessità di aumentare la propria autonomia, l’indipendenza e la privacy, di esplorare il campo dell’affettività e della sessualità.

Dopo la famiglia, un tassello fondamentale nello sviluppo del rapporto con l’altro delle persone disabili è rappresentato dalla scuola. È qui che si entra in contatto con il mondo esterno, con un piccolo campione di società che sono i compagni di classe.  La consapevolezza della mia diversità l’ho acquisita proprio a scuola sentendo gli altri bambini che di nascosto ridevano e parlavano di me e dicevano «guarda i suoi scarabocchi» . Nella mia esperienza la scuola ha rappresentato un ostacolo, più che un sostegno. Ero bambina nei primi anni ottanta e probabilmente non vi era una coscienza diffusa sul ruolo fondamentale che insegnanti e maestri hanno nella formazione dei bambini, specialmente se diversi. Fin dalla scuola materna mi sono confrontata e scontrata con la mia diversità. Crescendo il mio rapporto con l’istituzione scolastica non è cambiato.  Alle medie o poi al liceo professori e compagni vedevano in me un problema da risolvere più che un soggetto attivo pensante e desiderante. Era quindi complicato andare al bagno, fare ricreazione in cortile e partire in gita scolastica. Tutti erano terrorizzati di prendersi la responsabilità, forse perché mancava una figura professionale, competente, adibita ad aiutarmi. Nonostante la mia esperienza riconosco che la scuola rivesta un ruolo fondamentale e insostituibile per la crescita di tutti e in particolare delle persone con disabilità. Allo stato attuale è aumentata la consapevolezza su quanto l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità costituisca un punto di forza del sistema educativo di un paese. La scuola dovrebbe essere infatti una comunità accogliente nella quale tutti gli alunni, a prescindere dalle loro diversità funzionali, possano realizzare esperienze di crescita individuale e sociale. Questo avviene attraverso la valorizzazione delle figure professionali che si occupano di formazione e sostegno e anche tramite innovativi piani di integrazione della normale didattica con strumenti tecnologici pensati per le diverse disabilità. Mi riferisco al piano promosso dal MIUR Software gratuiti per gli alunni con disabilità Azione 6 – Progetto NuoveTecnologie e Disabilità. In questo modo si consente a ciascun alunno di portare avanti a suo modo il proprio procedimento di crescita e istruzione raggiungendo medesimi risultati.

Per ultimo, ma non meno importante, è il tema dell’affettività  vissuta dalle persone con disabilità: un tassello importante nel riconoscimento della relazione affettiva con l’altro e nell’affermazione della propria autostima. Nel rapporto affettivo l’altro smette di essere il termine di paragone per misurare la propria diversità, ma diviene complice, parte integrante del proprio Io. È probabilmente in questo settore che paure e stereotipi sulla disabilità si concentrano ed esasperano. Sul tema della sessualità delle persone con disabilità si incrociano lo stereotipo dell’eterno bambino e la paura “sociale“ nei confronti di eventuali soprusi e atteggiamenti non consapevoli. Sotto questo punto di vista si può parlare di una vera e propria discriminazione. L’amore, l’affettività e la sessualità, pongono tutti gli esseri sullo stesso piano e consistono in passaggi fondamentali nello sviluppo delle persona umana. In più sedi mi sono trovata ad approfondire questo tema sia attraverso articoli che con interviste a persone disabili o vicine al mondo della disabilità. Se da una parte ho riscontrato una certa consapevolezza nel riconoscere che questi aspetti facciano parte della vita di ciascuno, dall’altra si è ancora molto indietro sul c.d. diritto alla sessualità e alla manifestazione dei propri sentimenti.  Questa problematica è particolarmente intensa per le disabilità cognitive, che, a differenza di disabilità motorie o minori che si scontrano con tabù prevalentemente culturali, vedono nella legislazione italiana un ulteriore ostacolo. Quest’ultima da un lato paragona quasi specularmente l’attività di avere rapporti con disabili cognitivi a quella con i minori, chiaramente, in entrambi i casi, con l’intento positivo di tutelare il soggetto e dall’altro non riconosce la figura dell’assistente sessuale, già molto diffusa all’estero.

Molto è stato fatto,  molto rimane ancora da fare per sostenere e agevolare le persone disabili nella quotidianità e per un loro inserimento completo e soddisfacente nella società, senza fare della normalità un mito irraggiungibile o una prospettiva continuamente disattesa.

 

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Italy in a day… ma non tutta

https://www.youtube.com/watch?v=jmu0tmwdWEI&feature=youtu.be Il mio Italy in a day

Lo scorso sabato attendevo con una certa ansia la visione del film documentario Italy in a day di Gabriele Salvatores. Il regista aveva invitato tutti gli italiani e le italiane a filmare un momento della loro giornata del 26 ottobre 2013: era un sabato. Anch’io avevo inviato allora il mio contributo. Sapevo di non essere stata scelta, perché in caso contrario mi avrebbero contattato per tempo, per filmare alcune liberatorie. Essendone giunti 45.000  non sono rimasta stupita quando mi sono resa conto  che non era stato inserito il mio video, che per quanto lo apprezzi rivedendolo e per quanto lo consideri prezioso in quanto ha coinvolto me e  le persone care intorno a me, magari non era giusto che venisse scelto. Ritengo di non aver una voce, una parlata diciamo.. adatta alla televisione o al cinema.  Detto questo ero comunque molto curiosa della visione del film, nutrendo delle aspettative  su come potesse venire rappresentata e narrata la disabilità.

Cosa ho trovato:

presenti molte fasi della vita nell’arco del tempo dell’essere al mondo quali la nascita, l’infanzia, la gioventù, la maturità e la vecchiaia.

Compaiono un gran numero di bambini. (Come dice Augusto Sainati:  “Ci sono molti bambini: bellissima immagine, carica di speranza e di futuro, ma forse un po’ troppo di parte in un paese che di bambini ne fa davvero pochi“).

Ben costruito anche il discorso sui ragazzi che vorrebbero emigrare in un altro Paese perché nel loro non scorgono prospettive e futuro. Anche gli anziani sono stati diversificati nelle loro storie ed è stata adeguatamente raccontata la loro quotidianità. Mi ha colpito la storia di un medico italiano dentro una realtà povera e disagiata di un altro paese che riusciva a dare senso profondo al suo lavoro e “sacrificio“ come se in Italia non si trovino abbastanza storie esemplari  tra ospedali, reparti pediatrici e luoghi di cura o di terapia. Un altro spunto interessante ben sviluppato all’interno di un discorso narrativo è stata la presenza dei padri divorziati che si occupavano dei loro figli con un certo trasporto. Tema ricorrente la giornata di sportivi e le loro imprese, dalla bicicletta al paracadutismo. Mi ha colpito la scelta di narrare storie dal carcere e il punto di vista dei collaboratori di giustizia. Questi temi, di cui di solito sappiamo ben poco, hanno trovato uno spazio adeguato.

A mio avviso ridondante e superfluo il video, quindi la testimonianza, della ragazza che preferiva stare sotto le coperte invece di affrontare un nuovo giorno. Anche la mamma impegnata ad insegnare a guidare alla figlia, mi è sembrato un po’una  forzatura a discapito di tematiche e scorci di vita che potevano essere interessanti, quali il cinema, il teatro, la cultura in genere, in relazione alle storie delle persone che ne potevano testimoniare la presenza nella loro vita, in un sabato come tanti.

Esteticamente parlando, mi è sembrata buona e appropriata l’idea di dividere il filmato in varie ore del giorno, creando un effetto movimentato e divertente nello spettatore. Ampio spazio nel montaggio è stata data alla percezione  variegata del tempo climatico, dei paesaggi ripresi, delle città vissute a diversi livelli. Particolarmente azzeccato e divertente il momento del pranzo che ha visto buona parte dei protagonisti accingersi a mangiare; nello specifico mi ha fatto molto sorridere  la storia di un ragazzo che, dopo un breve monologo sulla bellezza e sul gusto, mangia lentamente e assapora in modo sapiente il suo panino davanti alla telecamera per diversi minuti.

 

Sul Fatto quotidiano del 28 settembre, Augusto Sainati – professore universitario e critico cinematografico – scrive che il cinema, utilizzando tutte le sue possibilità espressive, ha il compito di creare nuove sintesi, nuovi mondi totali. “… Ciò che invece un po’ manca in Italy in a day è proprio questa capacità di saltare verso la sintesi: tante immagini fanno accumulo, ma se l’accumulo resta tale, il cinema è solo in potenza“. E ancora …“ Italy in a day non è un selfie dell’Italia, ma il ritratto di “una vita da mediano“.

Dentro queste considerazioni si inserisce la mia più grande delusione e amarezza durante e dopo la visione del film: la constatazione della totale e forse imperdonabile assenza – visto l’esperimento comunitario – di storie narrate da o insieme a persone disabili, con qualsivoglia tipo di disabilità o semplicemente malate, dentro i confini italiani.

 Mi sono chiesta: a che cosa è dovuta questa mancanza?  Scarso materiale inviato non all’altezza? O impossibilità da parte di famiglie o delle persone con disabilità di potersi raccontare  “in leggerezza“ senza dover per forza testimoniare malasanità, inadeguatezza politica e sociale, drammi familiari, etc. O qualora invece ci sia stato abbastanza materiale, possibile che non ci fosse una traccia, una microstoria che rispettasse canoni estetici richiesti o rispondesse alla serie di domande proposte a cui attenersi? (Posso testimoniare che la sottoscritta ha inviato un video di durata inferiore ai quindici minuti richiesti dove rispondevo ad almeno  due delle domande che per regolamento dovevano essere toccate e prese in considerazione, almeno in parte).  Possibile che in 45000 contributi arrivati e visionati non ci sia stato nulla di decente su e da parte di tale rappresentanza?  Non voglio dire questo per lamentarmi o fare la parte della disabile che si lagna perché non si parla deiproblemi dei disabili… anzi il contrario. Italy in a day grazie all’opportunità che aveva nel suo potenziale e alla sensibilità e sapienza  del suo regista, poteva essere l’occasione per condividere il fatto che le persone con disabilità possono raccontare di tutto e raccontarsi in infinite combinazioni possibili, senza ricorrere ai soliti clichè e stereotipi che ostacolano la narrazione e l’ esperienza di raccontarsi liberamente… avendo cioè un pretesto, uno spunto o un’ispirazione, qualcosa da dire insomma, a tutti quanti.

Senza ricorrere per forza ai casi limite o estremi, si poteva scegliere come rappresentanza  anche solo il coraggio  di una persona con problemi motori che “vive“ la sua giornata e si racconta “in soggettiva“ davanti la macchina da presa; anche questa “semplicità“ poteva essere interessante condividere.

Rispetto poi alla leggerezza “calviniana“ in questo momento diversi documentari e narrazioni audiovisive stanno cercando di fare emergere punti di vista mai esplorati intorno ai temi del disagio psichico oltre fisico (Sconosciuti, i 10 comandamenti, The special need, etc, Capitan Pistone di Mara Consoli, etc…).

E poi mi chiedo: era proprio indispensabile approvare video di persone lontane, oppure le testimonianze  dei collaboratori di giustizia?  Non era necessario, fondamentale, doveroso inserire, nel film collettivo, almeno un solo minuto prezioso di una persona disabile che racconta il mondo?

E poi pensiamo alla giornata dell’ astronauta Luca Parmitano. Chiaramente suggestiva, bella cinematograficamente la giornata di Parmitano… ma possibile che non sia stato trovato del bello nella giornata di un disabile che lotta per la conquista di un senso o di un piacere da condividere nell’arco della sua giornata?

Forse chissà aggiungendo un quarto d’ora a quei brevi settantacinque minuti si poteva raccontare qualcosa in più.

Questa mia riflessione non è semplicemente suggerita dal fatto di essere parte in causa, rispetto alla voragine constatata in termini di rappresentanza  e ampiamente criticata. Occupandomi, ogni volta che posso, di narrazione e disabilità, cercando di fare coincidere il racconto con il bisogno di raccontare e raccontarsi da parte di chi vive un disagio profondo quotidianamente, speravo tanto che il sabato di Italy in a day potesse essere un sabato da ricordare… per tutta l’Italia. Anche per noi.

 

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La disabilità è come il mare, sta a noi farci trasportare da esso – La disabilità nel rapporto tra fratelli.

Spesso i fratelli di bambini con disabilità vanno incontro ad un maggior carico: se da piccoli devono capire e rapportarsi con un bambino “diverso“ da grandi, specialmente se mancano i genitori o quando questi invecchiano, devono pensare ad un fratello “speciale”, ed in qual modo, a volte, devono fare le veci dei genitori.

Dopo aver parlato della mia personale esperienza di ragazza disabile con una sorella normodotata nell’articolo: Two is better than one – L’importanza di avere una sorella. Che troverete nel link: http://www.piccologenio.it/2014/08/19/two-is-better-than-one-limportanza-di-avere-una-sorella/ vorrei affrontare in modo più generale questa importante tematica e soffermarmi sul punto di vista del soggetto familiare non disabile.

Spesso le dinamiche che si istaurano tra bambini e fratelli “diversi“ sono varie e possono variare dal totale rifiuto ad un profondo amore, aiuto e complicità.  I bambini portatori di handicap possono dare un amore intenso ai fratelli  e sostegno morale e psicologico, tutto questo può creare tra di loro un’unione speciale e aiutare ambedue i fratelli ad ottenere dei risultati positivi nelle loro vite, ma può’ anche causare ansia, per esempio durante un momento di separazione.
Ci sono casi estremi nei quali la madre decide di ritirare la figlia maggiore da scuola per assistere la sorellina disabile in ospedale, come mi è capitato di leggere navigando sul web. Anche se ora sembrano felici, perché entrambe piccole, come sarà il loro rapporto in futuro segnato da rimorsi e sensi di colpa? Come si possono stravolgere così tanto le vite di due ragazzine che un domani saranno donne?

I libri, il vissuto, il sentito dire a volte servono a cambiare idea e quindi rotta. È fondamentale il ruolo dei genitori per creare l’armonia e attutire i sensi di colpa del disabile per non essere “normale“ e del figlio “normodotato“ per aver una sana voglia di farsi le sue normali esperienze di vita all’interno ed all’esterno del nucleo familiare d’appartenenza.

Fare rete, in qualche forma, in qualche modo – soprattutto nella totale assenza dello Stato – è un antidoto potente all’isolamento in cui tante persone disabili si ritrovano, spesso anche nei confronti delle proprie famiglie. Forse non salva, però aiuta: tante individualità che si trovano a superare insieme, ciascuno con le proprie capacità e forze, il dramma. Forse, con una provocazione, si potrebbe dire che la ferita lasciata nei famigliari è quasi una disabilità permanente. Ma essa si può affrontare se si vuole, se si è in grado di chiedere aiuto, se non si pensa solo alla propria ferita ed al lato negativo della cosa. Un figlio, un fratello speciale non sarà mai uguale agli altri, ma quanto saranno importanti le sue conquiste, le sue vittorie quotidiane? La disabilità può essere come il mare sta a tutti noi farci trasportare da esso.

In passato si credeva che il rapporto tra fratelli, dove uno di questi fosse portatore di handicap, sarebbe stato meno positivo e meno affettuoso. Ma, in alcuni casi si è riscontrato il contrario. Secondo lo studioso Stoneman il rapporto tra fratelli, dove uno di questi è portatore di handicap, è risultato più positivo del convenzionale rapporto tra fratelli, tuttavia quando sussistono delle discordie, queste sono più frequenti nei confronti di fratelli maggiori disabili.

Aldilà delle specifiche caratteristiche, il rapporto tra fratelli di cui uno è portatore di una disabilità è comunque diverso, alcune ricerche hanno osservato che nell’interazione tra fratelli, quando uno di questi ha disabilità, il bambino non disabile tende a prendere un ruolo d’aiuto e quindi un ruolo protettivo nei confronti del fratello disabile.

La disabilità, prima o poi, porta sempre ad un livello di solitudine più o meno accentuato, tanti genitori scappano tornando alla vita che svolgevano prima “dell’arrivo del figlio della discordia“ altri si rifugiano nell’alcol e nella depressione. I fratelli sono spesso in grado di rapportarsi meglio con gli insuccessi, i sensi di colpa, ma anche le sfide e le vittorie di una persona disabile perché nascono e crescono nella disabilità insegnando e imparando da essa.
E di solitudine parla anche Sandro Rizzi dalle pagine del Corriere della Sera (http://www.corriere.it/salute/cardiologia/13_ottobre_28/dopo-l-ictus-il-passo-diventato-lento-parole-hanno-ancora-piu-valore-0a12689a-3fdf-11e3-9fdc-0e5d4e86bfe5.shtml )descrivendo un “Prima“ dell’ictus che stenta a diventare un “Dopo“ perfettamente compiuto. Lo fa usando un’immagine di rara suggestione: “Gli anziani spesso si sentono isole, i disabili in più sono atolli. Sono lì da vedere, difficili da viverci“. “Ora che il passo è diventato lento, le parole hanno ancora più valore“ recita il titolo dell’articolo. Ed è vero che le parole sono ponti che permettono a tante solitudini diverse tra loro per origini, contenuti e protagonisti , di mettersi in comunicazione profonda,  così rendendo l’essenza della disabilità. Che non è altro che l’atollo descritto da Rizzi; un’isola con un buco in mezzo, una laguna  difficile da vivere, certo, ma tutta da scoprire. Un cerchio  imperfetto che non si perde come una tangente, piuttosto si curva, si chiude lentamente come un abbraccio e ridefinisce uno spazio dentro il quale si forma e vive un altro ecosistema, unico più che solitario.

 

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E’ ora il tempo del #DopoDiNoi

Cos’è il dopo di noi? Ci vuole urgentemente una legge che tuteli la qualità della vita per i disabili dopo la morte dei genitori. In Italia sono numerose le famiglie afflitte dal pensiero di cosa succederà al figlio disabile dopo la morte dei genitori. Ovviamente questo macigno è tanto più grande quando il disabile è figlio unico. Le famiglie spesso, si mettono a cercare strade e possibilità per dopo la loro dipartita, ma nella maggior parte dei casi in Italia le risposte –quando ci sono- sono tutt’altro che adeguate o soddisfacenti per i bisogni dei singoli disabili.

C’è urgenza di sostenere le tante famiglie in questa incresciosa situazione. L’autonomia dei disabili dovrebbe essere un diritto ed una garanzia per tutta la vita non una cosa labile che può venir meno mandando in fumo sforzi disumani sostenuti dall’intero nucleo familiare.

L’attualità e l’urgenza del tema hanno portato la deputata del PD Ileana Argentin –lei stessa ha una disabilità fisica degenerativa- a promuovere una proposta di legge sul “Dopo di noi“, supportata anche dai cittadini attraverso una petizione popolare lanciata dalla parlamentare stessa. La petizione non sarebbe necessaria, in quanto ogni parlamentare è dotato di un autonomo potere di iniziativa legislativa, ma è senza dubbio un utile strumento per fare pressione su senatori e deputati e per dimostrare quanto questo tema sia sentito e condiviso da una buona parte dei cittadini italiani.

Vi propongo qui di seguito il link della piattaforma su cui trovare il testo della proposta di legge e il modulo per sottoscrivere la petizione popolare.

http://www.change.org/it/petizioni/urgentemente-una-legge-sul-dopodinoi-2

http://www.youtube.com/watch?v=-sJemhFKBMU Dopo di noi.

 

 

 

 

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Nata viva: il coraggio di ribellarsi ad un destino predeterminato

Dal sito Crederciperessere (http://crederciperesserci.blogspot.it/2014/05/nata-viva-il-coraggio-di-ribellarsi-ad.html)

C’è chi si trova “proiettato” nel mondo ed invece di scegliere la propria vita ed il proprio percorso decide di lasciarsi portare dalla corrente, o lasciarsi vivere  “a come viene”, alla meno peggio.
C’è invece chi comincia il proprio percorso con delle  difficoltà accessorie, con delle “barriere all’ingresso”, che gli impedirebbero di scegliere dove voler andare e chi essere, ma quel qualcuno proprio non ci sta e con determinazione e forza preferisce “scegliere di essere nel mondo”.
Perchè autodeterminarsi è un diritto di tutti, in quanto essere umano,  e non basta respirare per vivere… anzi tra vivere e sopravvivere c’è una bella differenza.

Zoe Rondini, autrice del libro Nata viva, edito da Albatros, ha con sè il coraggio di  compiere una scelta, non sempre facile ma sicuramente consapevole.

A fare la differenza sin da subito nella sua vita sono purtroppo i cinque minuti che tolgono il respiro in negativo.
Un’anossia di appena cinque minuti , un danno al cervello e la vita cambia, si complica…
E’ a quel punto che bisogna fare una scelta tra lasciarsi schiacciare dalle difficoltà, da una scelta che sembra imporcisi da parte delle circostanze o reagire e lottare per far emergere la propria essenza.
Ecco perchè Zoe sceglie con Nata viva di condividere il suo percorso esistenziale negli anni… il libro stesso è una sfida…

“Crederci fino in fondo – racconta Zoe (pseudonimo dell’autrice)  – diventa sfida quando gli obiettivi non sono utopici. Avere grandi bbiettivi ma raggiungibili e lottare giorno per giorno ci aiuta a raggiungere importanti traguardi”
Il libro racconta delle sfide ma anche delle sconfitte e delle amarezze, delusioni e ferite quotidiane. 

Perchè è anche e soprattutto attraverso la sofferenza che si approda alla consapevolezza di sè e si compie un percorso di concreta crescita.
Sulla strada sono tanti gli ostacoli per riuscire ad “incontrare” il proprio sè più autentico.
Più “tosti” degli ostacoli fisici, delle barriere architettoniche, sono le barriere pscologiche ed emotive, le chiusure del cuore e della mente di alcuni interlocutori.
“Non ho avuto molti problemi con le barriere architettoniche – continua l’autrice –  bensì con quelle culturali delle persone che non volevano capirmi ed aiutarmi (nel capitolo della scuola soprattutto).
Ma chi si sente veramente capito negli anni dell’adolescenza? Per questo Nata viva è un libro adatto a tutti: ai cosiddetti normali ed amche chi non ritiene di essere incluso nel concetto di “NORMALITA’.”.

Per riflettere insieme, per condividere pensieri ed emozioni, per sostenere in un percorso, per far sentire meno soli, quando la solitudine ed il senso di spaesamento interiore e sociale sembrano dilagare fino ad inghiottire la speranza.
La chiave di volta è l’amore: innanzi tutto quello per se stessi che poi esonda e si proietta all’esterno, permettendo di amare davvero l’altro da sè.
Amore da intendersi come un fiume, un flusso continuo, in grado di unire e di superare le differenze.
Ma anche un amore che si traduce in  desiderio di esplorazione corporea, in voglia di contatto.
“L’amore – ribadisce Zoe –  è un aspetto della vita comune a  tutti, disabili e non.
Tutti ci innamoriamo, ci eccitiamo, abbiamo impulsi e desideri. Forse l’amore e la sessualità ci rendono uguali nell’essere unici. Io, ad esempio, Io ho amato, sono stata non corrisposta, amata, delusa, desiderata e di nuovo innamorata.
Non mi rassegno agli stereotipi della donna oggetto, del disabile asessuato o continuamente voglioso… è per questo che nel mio portale www.piccologenio.it faccio sentire la mia voce con articoli su questa importante tematica. Solo che ancora siamo culturalmente lontani dal superare certi tabù”.

Perchè quelle differenze, che rendono il corpo diverso, a volte disarmonico e sgraziato per chi ha una disabilità grave o gravissima, troppo spesso fanno ancora paura e creano distanze incolmabili.
Innanzi tutto tra la voglia di autoesplorazione e conoscenza corporea rivolta verso se stessi e la possibilità effettiva di poter dar corso a questo desiderio a causa di gravi limitazioni funzionali, che inficiano a monte la possibilità di una reale intimità.
Si è prigionieri di un “corpo disobbediente” come lo definisce Mina Welby, che frustra e limita il rapporto innanzi tutto con se stessi, prima ancora che con un possibile partner.
“Proprio per questo, la figura professionale dell’assistente sessuale (attualmente la proposta di legge popolare è in discussione al Senato) rappresenta una figura importante, già riconosciuta in molti Paesi europei cosiddetti evoluti.
In Italia abbiamo ancora moti pregiudizi e false credenze, freni moralistici e rigidità indondate. Questa figura è, invece, ben vista da molte persone con disabilità e dalle loro famiglie. In presenza di una disabilità cognitiva o motoria grave questa figura professionale potrebbe veramente aiutare.
In caso di una disabilità più lieve queste terapiste dell’amore non dovrebbero sostituirsi ad un rapporto di coppia”.
Dicevamo che l’amore scaturisce innanzitutto da quello per se stessi, riverbero di quello per la vita.
Ecco perchè, paradossalmente, si può nascere vivi o essere morti emotivamente pur respirando. 

“Il mio amore per la vita – dice Zoe – nasce certamente dall’amore che si ha per gli altri e per se stessi, ma molto fa l’affetto e l’educazione ricevuta. La spinta ad ‘amare’ in ogni senso deriva dal  non accontentarsi e cercare di fare il massimo anche quando gli altri intorno fanno il ‘minimo sindacale’. Se parlo così non è per buonismo o dottrine religiose: penso sia solo un piccolo trucco per vivere più sereni”,
 Sull’onda del suo amore per la vita e della sua Determinazione Zoe non si arrende e persegue, dunque, i suoi obiettivi di vita.
Quali? Zoe li enuncia con una semplicità che incanta, facendo sorridere di alcuni rovelli mentali ed emotivi che ci rendono vittime e progionieri.
“Far conoscere Nata viva a sempre più persone. Portare a termine un’altra pubblicazione. Trovare un lavoro soddisfacente ed avere una vita sentimentale, affettiva e relazionale buona”.

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Nata viva su Arte e Cultura, comune di Torino

Nata viva

“Nata viva“ è la storia appassionata e appassionante di una bambina che ha la sfortuna di venire al mondo con un problema grave: difficoltà respiratoria.
Nasce viva Zoe, ma comincia a respirare cinque minuti dopo la sua nascita e quei cinque minuti segnano la sua vita per sempre: un respiro intrappolato per un tempo infinito in un corpo troppo piccolo la costringono, fin dai primi mesi, a lottare per quella vita che in quei primi cinque minuti sembrava le fosse negata. È infatti la storia di questa bambina che, crescendo, impara a superare tutti gli ostacoli, ad affrontare le incomprensioni di chi non la capisce, a sostenere sforzi sovrumani per un unico obiettivo: condurre una vita normale, vivere e non solo esistere.

Zoe, lentamente ma coraggiosamente, con testardaggine diremmo, impara a camminare, a parlare, a leggere e a nove anni scopre la grande passione per la scrittura: comincia così a scrivere i suoi primi racconti. Ma a tredici anni si trova a superare il momento più difficile della sua vita a causa di un lutto doloroso. Un momento di dolore, ma anche uno stimolo a tentare l’avventura più importante: per necessità o per caso o per bisogno di reagire oppure per libera scelta, decide di iniziare un racconto autobiografico che l’impegna per dodici anni.
Ecco come una bambina, divenuta ragazzina e poi ragazza, nelle varie fasi della sua crescita, ha saputo lottare, in un’alternanza di luci e di ombre, di vittorie e di sconfitte, per arrivare con le sue sole forze a quella serenità alla quale tutti aspiriamo, acquisendo una personalità forte e veramente ammirevole che colpisce. Poiché Zoe non si è mai adagiata nel suo problema, non si è mai rassegnata al “non vivere“ per la sua disabilità, ma ha saputo trovare la strada a lei più congeniale per “vivere la vita che nei primi cinque minuti“ sembrava le volasse via. Poiché Zoe vuole “vivere’ e non solo “esistere“ e dare un significato alla sua vita.
In questo libro sono presenti tutti i protagonisti della sua stupenda e coraggiosa vicenda: amici e nemici, familiari, compagni di scuola, dottori, fisioterapisti, maestri, insegnanti, docenti universitari, presidi, babysitters, viandanti. Un libro adatto a tutti: studenti, adolescenti, adulti, genitori, insegnanti…

L’AUTRICE
Zoe Rondini è lo pseudonimo dell’autrice. Laureata in Scienze dell’Educazione e della Formazione, attualmente sta studiando per ottenere la laurea magistrale in Editoria e Scrittura (giornalismo). In passato ha pubblicato molti articoli riguardanti i problemi e i diritti delle persone disabili su vari siti, su un quotidiano on-line e sulla rivista italiana dell’Opera Montessori. Nata Viva è la sua opera prima, segnalata al concorso letterario“Premio nazionale di letteratura Prof. “Francesco Florio“ 23 edizione 2011 – Licata“ con un diploma di elogio, ottenendo il punteggio di 93/100.

“Nata viva“
Autore: Zoe Rondini
Editore: Il Filo – 2011
Costo: 15,50 euro

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incontrare Pinocchio – lettura di “Nata viva”

Roma, 21 marzo 2013 – Istituto Leonarda Vaccari

di Matteo Frasca

Mai avrei pensato di incontrare Pinocchio così da vicino. Sia come storia che rivive in un’altra storia, in un’ altra rapsodia narrata, sia come personaggio che si racconta in prima persona. E che questa sera, proprio questa sera, questo Pinocchio me lo ritrovassi proprio accanto a me, in questa prestigiosa sede. 

 Non avrei mai pensato fino a qualche anno fa di ascoltarne la voce legnosa, rugosa,  insolita, dal suono fantastico che si fa parola e la parola che diventa bugia, intesa non tanto come affermazione non corrispondente al vero che – ad essere sinceri – è definizione coerente con il concetto stesso di letteratura – quanto come a quell’immagine di bugia  intesa come contenitore, come porta candela, dove la fiamma si autogenera e vive delle parole che illuminano, bugia  come una scatola magica da cui fuoriescono il corpo, la storia, le immagini, le emozioni più profonde, ma straordinariamente concrete, dell’autrice.

Nelle tante occasioni che abbiamo avuto Zoe ed io, di raccontare la sua storia, Zoe ci ha sempre tenuto a definire “Nata viva“ non come un’autobiografia, né come racconto in prima persona della disabilità, né tanto meno un pamphlet  lamentoso che dispensa consigli e spara a zero sulla società che mal comprende le esigenze delle persone con disabilità, che non le accetta, che non le facilita. L’ha definito sempre un racconto o ancor meglio un breve romanzo di formazione.  E non riesco a vederne altre di più azzeccate, rispetto al genere letterario a alla tradizione letteraria in cui si colloca. Al Pinocchio che vi sto raccontando non gli importa niente di spiegare, di urlare, di generalizzare, di creare fazioni, di dividere, di rimanere in superficie, di dire “è tutto uno schifo“. A Pinocchio non gli è mai riuscito granchè tutto questo e non gli è mai interessato.

In questo caso Pinocchio è un burattino che fin dal suo primo soffio di vita (arrivato cinque minuti più  tardi rispetto ai bambini normali), si rifiuta di obbedire, di percorrere strade tracciate da qualcun altro, di rannicchiarsi in qualche angolo di mondo, in uno spazio pensato per le persone che si muovono un po’ male, parlano un po’ male, vedono un po’ male.

A Pinocchio e a Zoe, innamorati della vita e consapevoli di questo strano soffio, straordinario, tormentato, conquistato respiro che li anima, non interessano gli angoli, gli armadi chiusi, i ripostigli, i letti, la naftalina dove conservarsi immobili, i sensi unici, le strisce gialle.  A loro interessa tutto il mondo. Percorrerlo in lungo e in largo. Arrivare ovunque. E se non ci arrivano con il corpo, beh… diciamo che è facile pensare quali armi hanno a disposizione. Sappiamo cosa gli riesce meglio.

Tutti e due ci prendono gusto a raccontare storie. A raccontarsela la vita per quello che sentono, per quello che provano e soprattutto per quello che pian piano, con la loro testa e il loro cuore, scoprono, a costo anche di dolori, illusioni, frustrazioni.

Mai però rinunciare a voler scoprire. Ecco quindi perchè credo che “romanzo di formazione“ sia alquanto coerente.

Nel racconto di “Nata viva“ è possibile scorgere la Bambina azzurra e il grillo parlante nella presenza importante di alcuni familiari, che hanno sempre creduto in lei, che non l’hanno abbandonata pensando che fosse uno strano ceppo di legno vivo, con limitate possibilità, ma hanno visto in lei la prospettiva, la forza, il coraggio, la luce, il suono, la musica che ne sarebbe e che ne è uscita. E Pinocchio/ Zoe si è con loro sempre confrontata, e quando doveva ha sempre disobbedito, armata anche lei di martello schiaccia grillo, o di sincera devozione nei confronti delle fate incontrate o dei Mangiafuoco incontrati, basti pensare alla figura della nonna materna giramondo o del nonno saggio.

Pinocchio/Zoe pur essendo costretta dal legno da cui è composta a fare determinati movimenti e a non poterne fare altri, a faticare tanto per spostarsi, cerca il movimento fluido altrove… nelle intenzioni, nella scoperta, nel viaggio e nella scrittura come avrà modo di capire chi si immergerà nel suo avvincente romanzo di formazione di cui ho avuto il privilegio di accompagnarne la forma definitiva, il punto finale. Che poi per i lettori ne è sempre l’inizio.

E quali accenni si possono fare, quali spunti, quali scoperte si possono trovare, tracciate nel corso del romanzo di Zoe?

La scuola non è affatto bella, ci si annoia, i compagni di classe possono fissarti o fregarsene di te, in gita è meglio che un burattino venga con il suo accompagnatore, per fare la pipì a scuola è meglio chiamare qualcuno da casa che ti accompagni in bagno, non si sa mai che ti capiti qualcosa di male, meglio non averne di queste responsabilità, però in gita ci vado lo stesso e da sola, ecco e poi scrivo, e poi Lucignolo è simpatico e mi fa tanto ridere e mi insegna una certa anarchia, e poi si può raccontare tutto, di quando si fissano i soffitti vuoti ascoltando la musica come fanno tutti i ragazzini, di quando le amiche non si presentano all’appuntamento, che te l’avevano proprio promesso, ma tu scopri che anche da solo ha senso uscire di casa, il sabato pomeriggio… e poi guidare il motorino o la macchina, rincorrere come si può il cantante preferito… andare al cinema, alle mostre, immergersi in altri colori, in altre storie, forse in altri Pinocchi, andare con nonna persino a New York e… essere comunque una sorella maggiore, una mammina rompiscatole e volerle così bene… oppure aggrapparsi ai propri pantaloni e imparare a cinque anni camminare.

Camminare appunto, scoprire, viaggiare intorno a noi stessi.  Diventare. Diventare bambini veri, o persone vere, che nella propria evoluzione,  sorridono ancora alle immagini di burattini lasciati sulla sedia, che tanto ci hanno permesso di diventare quello che vogliamo essere. E prima di chiudere sono sicuro che similitudini, chiavi di lettura, accostamenti, raccordi, accordi e disaccordi, prospettive incrociate possono essere disseminate anche in tanti altri racconti di formazione, nella possibilità sempre sofferta sapersi scegliersi – riflessivo quindi saper scegliere se stessi – in Pin che impara a fidarsi pian piano degli adulti o comCosimo tra gli alberi nel barone di calvinesca fattura, come Arturo fu e ori da Procida di Elsa Morante, nelle grammatiche fantastiche rodariane che sanno ad ogni rigo inglobare e rompere gli schemi e i limiti prefissati, elogiare gli errori, i dubbi, le stranezze di quel che si racconta proprio perché lo si racconta. E in definitiva tutta la letteratura è un infinito romanzo di formazione che ci permette di vivere bene noi stessi e forse anche di sopravvivere a noi stessi, come ricorda la stessa Zoe che da burattino si è trasformata in: “Io, moderna Sherazade“ .

 

 

                                                Fine

 

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La Cantastorie Zoe: impressioni di uno spettatore

Il 31 maggio 2012, mi sono recato al teatro Abarico, di via dei sabelli, con una certa dose di perplessità e sopratutto perché Zoe (nome d’arte di Marzia) ci teneva a vedermi con lei, in prima fila.

A dire la verità, non avevamo quasi mai parlato di questa impresa – dopo una piccola recita avvenuta nella tarda estate del 2011, nella casa dei genitori di Matteo Frasca. Nemmeno conosco gli sforzi di preparazione che la necessità di “imparare la parte“ ha richiesto, ad ambedue i giovani attori – sotto la guida della brava e sensibile Tiziana Scrocca. Ebbene, mi sono trovato di fronte ad una vera sorpresa. Un racconto svolto nelle molteplici pagine di un libro annedottico, come “Nata viva ove ciascuno degli episodi ha valore di ricordo sentimentale di un passato che non tornerà più, ma ha inciso nella memoria ed ha costruito la sensibilità umana e la partecipazione alla vita sociale di una persona che “nel venire al mondo“ ha giocato il suo destinoè stato magistralmente tradotto nello spettacolo teatrale ove il “vedere“ dei gesti, “l’ascoltare“ di brevi frasi mozze; l’ostentare di giocattoli, collane e fotografie; il suono sempre coerente di brevi frasi musicali hanno racchiuso – quasi condensato –   circa trent’anni di vita nella simbologia di quei primi “cinque minuti di non respiro“.

Questa “trovata“ degnissima ed efficace con la quale è stato costruito teatralmente il racconto ha consentito di narrare quasi una progressiva previsione da parte dell’istinto del sub conscio di Zoe di ciò che sarebbe successo, negli anni a venire, se la decisione fosse stata a favore del vivere.
La nota bassa e progressivamente ritmata con maggiore frequenza delle chitarra ha finalmente “espresso“ questa “scelta“ dal cuore noenatale di Zoe.

Nel guardare con ammirazione ciò che nel palcoscenico andava svolgendosi, mi è tornato alla memoria l’antico maestro liceale che mi insegnava cos’è il Teatro: azione.  E ripeteva la nota frase: ACTIO, ACTIO, ACTIO!

Tiriamo le conclusioni:  la piece recitata benissimo da ambedue i giovani attori/autori, è metafora di una possibilità di esistenza piena e reale con tutte le sue gioie e le sue pene; anche a dispetto di qualche difficoltà fisica – e questo è l’essenziale!

Fa pensare per le “potenzialità“ che presentano molti di questi “non fortunati“ colpiti nei primi minuti dopo la nascita ed anche, talvolta, nel tempo trascorso nel grembo materno. Ad essi non andrebbe attribuito solamente un sorriso di compassione, ma dovrebbe essere loro rivolta una solidarietà completa.

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